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Il cibo e la politica. Dal locale al globale

di Helena Norberg-Hodge/Todd Merrifield/Steven Gorelick - 10/02/2006

Fonte: Giuseppe Giaccio

Il testo che di seguito presentiamo è la traduzione del primo capitolo di Bringing the Food Economy Home. Local Alternatives to Global Agribusiness (Zed Books). Dei tre autori, Helena Norberg-Hodge è certamente il nome più conosciuto nel milieu ecologista. Presidente dell’International Society for Ecology and Culture, per la sua opera in difesa dell’ambiente le è stato assegnato, nel 1986, il Right to Livelihood Award. Il suo impegno ecologista nacque allorché, recatasi in Ladakh, una remota regione dell’India al confine con il Pakistan nota anche come “Piccolo Tibet”, venne a contatto con la cultura tradizionale della popolazione locale. L’esperienza, protrattasi per sedici anni durante i quali la Hodge ha potuto conoscere in profondità la lingua e la cultura ladakha, abbandonando a poco a poco i pregiudizi tipici di ogni occidentale “progredito”, è stata poi narrata in Futuro arcaico (Arianna, Casalecchio 2000) ed è alla base del suo impegno successivo, di cui il libro sui sistemi alimentari locali citato all’inizio è un riflesso.

Ciò che la Hodge impara vivendo in Ladakh – che in pratica diventa per lei quello che gli anglosassoni definiscono case study – è che le società basate su economie di sussistenza e di piccola scala sono, contrariamente a un diffuso pregiudizio, dispensatrici di libertà e autonomia. Sono anche infinitamente più democratiche delle nostre, favorendo il coinvolgimento, la partecipazione consapevole alla vita collettiva. In esse, l’uomo è un perfetto conoscitore dell’ambiente in cui vive e sa gestirlo in modo ottimale, tenendo conto delle esigenze dell’ecosistema. In un contesto tradizionale, conoscere significa scoprire la trama che unisce le cose e gli uomini per poi poter agire sulle une e sugli altri nel pieno rispetto dell’oikos. Questa padronanza rende il ladakho autosufficiente, e quindi libero e in grado di decidere se, cosa e quanto produrre, quali rapporti stabilire con gli altri membri del gruppo e con le altre comunità. E ciò non in base a considerazioni meramente utilitaristiche, bensì nella consapevolezza di far parte di una delicata e necessaria rete di relazioni che va il più possibile tutelata, pena la sopravvivenza non solo dell’ambiente, ma anche dell’uomo che vi abita. Le moderne economie monetarie, per contro, si muovono in una direzione esattamente opposta. Per la modernità, infatti, conoscere vuol dire separare l’oggetto della nostra conoscenza dal suo contesto, ridurlo, metterlo in laboratorio. Ci si illude, così, di poterlo meglio afferrare e dominare. L’unità alla base delle antiche visioni del mondo viene sostituita da una crescente frammentazione. Il sapere è funzionale allo sfruttamento intensivo di persone e cose. L’uomo viene spossessato. Non è più padrone in casa sua, ma la sua esistenza dipende da decisioni assunte a migliaia di chilometri di distanza, magari semplicemente pigiando un tasto. Helena Norberg-Hodge vede all’opera questa dinamica anche in Ladakh, dove con la modernizzazione imposta dal governo indiano per ragioni di politica estera, il tessuto connettivo tradizionale si sfalda, sostituito da rapporti impersonali e burocratici. È la stessa dinamica descritta, con riferimento al mondo agricolo e all’alimentazione, nelle pagine qui proposte, cui la Hodge e gli altri coautori oppongono la necessità di pensare a forme di rilocalizzazione e decentralizzazione radicali, che in parte già esistono e vengono esaminate negli altri capitoli senza enfasi e senza illudersi di possedere la bacchetta magica, ma con la convinzione che, per dirla con le parole che chiudono il libro, “c’è molto lavoro da fare e il tempo di cominciare è adesso”.         

 

Giuseppe Giaccio        

 

       

    

              

Il cibo e la politica. Dal locale al globale

 

HELENA NORBERG-HODGE/TODD MERRIFIELD/STEVEN GORELICK  

 

 

Calcolando tutte le persone negativamente toccate dal sistema alimentare globale… siamo davvero la maggioranza nel mondo.

Peter Rosset, direttore esecutivo, Food First

 

 

In tutto il mondo, il cibo è al centro di una tempesta. Il numero delle fattorie che nel nord falliscono è da record, proprio nel momento in cui nel sud i contadini a milioni vengono allontanati dalla terra. Con crescente regolarità accade che siamo spaventati dal cibo, il che induce molti a domandarsi se possono mangiare in sicurezza i loro pasti. Su molti terreni americani sono state piantate coltivazioni geneticamente alterate, provocando la rabbia di consumatori e ambientalisti e facendo scoppiare dispute commerciali con l’Europa e il Giappone. Le aziende stanno rafforzando la loro presa sulla riserva di cibo mondiale, incitando i coltivatori e altri cittadini nel mondo a chiedere boicottaggi, ad attaccare catene di fast-food, e a sradicare coltivazioni geneticamente manipolate.

Tutta questa turbolenza ha le sue origini nell’industrializzazione e globalizzazione di cibo e agricoltura. Con il cibo ridotto a prodotto in un mercato volubile, l’agricoltura diventa sempre più specializzata, ad alta densità di capitale e tecnologia, e il marketing del cibo sempre più globalizzato. Queste tendenze si stanno rivelando disastrose per consumatori, coltivatori, economie locali e per l’ambiente; nondimeno, molti governi intendono accelerare il processo, con politiche che mirano a maggiori esportazioni e minori barriere commerciali, a più prodotti chimici e più manipolazione genetica.

C’è, comunque, una corrente opposta – un piccolo, ma in rapida crescita, movimento di sostegno ai sistemi di cibo locale. Consumatori e coltivatori costruiscono legami per promuovere un’agricoltura su scala più ridotta¹, più diversificata ed ecologicamente sana. Questi gruppi favoriscono cibi cresciuti vicino piuttosto che prodotti globali fatti in serie a migliaia di chilometri di distanza.

Questo movimento cresce continuamente dalla base, facendo sentire la sua presenza nella richiesta, che aumenta in modo esponenziale, di cibo prodotto organicamente; nella crescente popolarità dei mercati per coltivatori che mettono in evidenza varietà locali di cibo fresco; e nell’entusiasmo con cui coltivatori e attivisti, tanto del nord quanto del sud, stanno cercando di sviluppare forme più sostenibili di agricoltura.

Il movimento per il cibo locale è tanto più importante perché non ha quasi ricevuto sostegno dai politici. Al contrario, i governi promuovono ovunque un’ulteriore globalizzazione del cibo. Continuano ad aprire la via – sia in senso letterale che figurato – ad enormi megamercati che vendono cibo che ha viaggiato in mezzo mondo. Le agenzie agricole promuovono ancora la monocoltura e l’uso di pesticidi, fertilizzanti chimici, ibridi ad alta resa e semi geneticamente modificati. Scuole, agenzie agricole e per lo sviluppo trascurano metodi differenti di agricoltura regionale, promuovendo invece una sola versione tecnologicamente avanzata di progresso agricolo.

Se il movimento per il cibo locale si diffonde senza aiuto dall’alto, nel nord lo sta facendo anche nonostante il fatto che molti consumatori dispongano di pochissime informazioni sul cibo che mangiano, e quasi non hanno contatti con l’agricoltura e la vita rurale. Da decenni – e in alcuni paesi da generazioni – molte persone nel nord sono state urbanizzate a un livello tale da lasciarle largamente isolate dai processi della natura e dalla campagna dove il loro cibo è prodotto. Le catene di supermercati e l’agricoltura industriale approfondiscono questa separazione evitando di indicare dove e come un particolare cibo è stato prodotto. Le scuole parlano delle cruciali materie del cibo e dell’agricoltura così raramente che molti bambini credono che il cibo semplicemente venga dal supermercato. La scarsa informazione che troviamo nei curriculum scolastici è spesso fornita dalle aziende dell’agribusiness o da altre ditte dell’industria del cibo, ed è quindi deplorabilmente inadeguata e spudoratamente parziale.

Nondimeno, è in continua crescita la coscienza che il cibo globale è, tutto considerato, troppo costoso – per la nostra salute e quella dei nostri bambini, per l’ambiente, e ovunque per le economie locali. La malattia di mucca pazza, le epidemie di cibo avvelenato, l’inquinamento della terra e dell’acqua mediante prodotti chimici agricoli, il declino dei mezzi di sostentamento rurali sia nel nord che nel sud – queste sono solo alcune delle ragioni per cui si comincia a mettere in discussione l’intero sistema del cibo globale e le premesse su cui è basato.

Si sta anche cominciando a capire che contando di più su quanto cresce vicino a noi, i cibi organici possono aiutare a risolvere allo stesso tempo l’intera gamma di problemi sociali e ambientali. Mentre gode dei vantaggi per la salute derivanti dal preparare e mangiare cibi più freschi e sani, la gente sta anche scoprendo il vero e proprio piacere del fare acquisti ai mercati degli agricoltori, del conoscere le persone che producono il loro cibo e dello stringere rapporti più stretti con i luoghi in cui essi vivono.

La riduzione della distanza tra agricoltori e consumatori può essere in realtà il modo più strategico e gradevole per determinare un fondamentale cambiamento in meglio. Un mondo in cui tutti sono nutriti bene con cibi locali, freschi, sarebbe un mondo dove tutti avrebbero più forza, comunità, contatto con la natura. Da molti anni, il colonialismo e lo sviluppo economico portano il mondo nella direzione esattamente opposta – separare non soltanto i produttori dai consumatori, ma tutti noi dal mondo naturale. La domanda ora è: dobbiamo continuare ad andare giù per il sentiero delle monocolture globali o cominciare a cambiare direzione?

 

 

Il sistema alimentare globale

 

 

Queste due opzioni sono fondamentalmente rappresentate da differenti tipi di sistemi alimentari. Il sistema globale è caratterizzato da larga scala, metodi altamente meccanizzati, monocolturali e a forte concentrazione chimica, con produzione orientata verso mercati lontani e sempre più globali. L’abbondante uso di energia esterna, grandi macchinari, il trasporto a lunga distanza e le infrastrutture della comunicazione, fanno di questo sistema un sistema ad estrema intensità di capitale ed energia.

Questo sistema alimentare è inoltre caratterizzato da una pesante dipendenza dal sapere e dalla tecnologia prodotti da un piccolo numero di istituzioni di stile occidentale. Lo scopo è una sempre crescente efficienza agricola – definita come massimizzazione della resa di una ristretta gamma di prodotti commerciati mondialmente, e minimizzazione del lavoro umano. Un’immensa ricerca e sforzi per lo sviluppo, molti dei quali a spese pubbliche, sono volti a questo fine. Troppo spesso, le conseguenti tecnologie sono promosse da fattorie senza riguardi per le  locali condizioni ecologiche e sociali. Questo ha portato alla ristrutturazione dei prodotti agricoli, dei paesaggi e di varie tradizioni culturali per adattare le tecnologie disponibili, e all’omogeneizzazione della natura e della cultura per servire meglio l’economia globale. Sebbene nel sistema di alimentazione globale vi siano varianti, le sue caratteristiche fondamentali – largamente determinate dalle forze della tecnologia e del mercato internazionali – sono ovunque le stesse.

 

 

I sistemi alimentari locali

 

 

In risposta a questo unico modello globalizzante, emergono nel mondo molte iniziative alimentari locali, tipicamente orientate verso il consumo locale e regionale, con distanze – ovvero miglia alimentari – relativamente brevi tra produttori e consumatori che in molti casi sono direttamente collegati. Essendosi evoluti entro un particolare contesto sociale, economico e ambientale, questi nuovi sistemi alimentari rispecchiano in molti modi quelli delle culture tradizionali. Nel sud, infatti, è ancora possibile trovare migliaia di sistemi agricoli indigeni, tradizionali o vernacolari – sistemi alimentari locali su scala relativamente piccola e capaci di conservare le risorse, ognuno adattato a un luogo specifico.

Oggi, resti di agricoltura indigena si trovano principalmente in quelle zone del sud ritenute non adatte all’agricoltura industriale. Sebbene spesso si creda che l’agricoltura industriale nutre il mondo, qualcosa come il 35% della popolazione mondiale (circa due miliardi di persone) continuava, alla metà degli anni Novanta, ad essere direttamente sostenuta da questa agricoltura dimenticata². In misura molto minore, i sistemi tradizionali sopravvivono anche in più fertili zone pianeggianti del sud, dovunque i coltivatori hanno resistito ai diktat degli esperti per lo sviluppo stranieri e degli agenti statali per l’espansione dell’agricoltura.

Intenzionalmente o no, il movimento per il cibo locale nel nord spesso imita i principi sottolineati da questi sistemi alimentari tradizionali. In molti casi, la gente cerca i resti della sua stessa eredità agricola e la combina con le più recenti innovazioni in materia di agricoltura organica su piccola scala.

 

 

Secoli di “progresso” agricolo

 

 

Durante gli ultimi secoli, nel mondo migliaia di variegati sistemi agricoli, localmente adattati, sono stati sostituiti da un unico, globalizzato sistema alimentare. Fra gli indicatori di questo cambiamento ci sono una drammatica riduzione nel numero di contadini e una concomitante espansione nella dimensione delle fattorie; un enorme aumento nella dimensione e nella portata dei mercati agricoli; e uno stretto controllo delle società transnazionali sulle riserve alimentari mondiali.

Come si è arrivati a questo punto?

In molti luoghi, le radici di questi mutamenti possono essere retrodatati di almeno 500 anni, all’epoca della conquista europea. Essendo state conquistate e colonizzate ampie parti di Africa, Asia e America, i sistemi culturali indigeni furono sistematicamente spazzati via. I modelli locali di produzione alimentare – molti dei quali coronati da successo nel rispondere in modo sostenibile ai bisogni dei popoli – furono spesso sostituiti da fattorie che producevano cibo per i colonizzatori, o da piantagioni che esportavano cibo e fibre verso l’Europa. Le fattorie nelle quali famiglie e comunità coltivavano il proprio cibo senza produrre un surplus commercializzabile furono scarsamente utilizzate dalle potenze coloniali per essere convertite, laddove possibile, ad usi più redditizi. Molto spesso, i colonizzatori si appropriavano del migliore terreno agricolo, mentre il compito di sfamare la popolazione locale era relegato a terreni sempre più marginali.

Mentre la colonizzazione europea condannava molti sistemi alimentari locali nel sud, nel nord i sistemi adattati locali non producevano cibo molto meglio. A volte le cause erano simili, come quando nei secoli XVII e XVIII l’Inghilterra privatizzò quelle che un tempo erano state terre comuni, eliminando così i diritti degli abitanti dei villaggi di coltivare, andare a caccia e accumulare risorse, come avevano tradizionalmente fatto.

La Rivoluzione industriale minò ulteriormente i sistemi alimentari locali attirando la gente lontano dalle fonti rurali del loro cibo, in aree urbane dove il loro cibo doveva essere importato dalla campagna e sempre di più dall’estero. Al contempo, nuove tecnologie agricole riducevano continuamente il numero di occupazioni disponibili nei sistemi di alimentazione locale e fiaccavano la vitalità economica della aree rurali. Dalle più primitive attrezzature dell’industria agricola alle odierne, gigantesche mietitrebbiatrici o macchine raccoglitrici di pomodori, queste tecnologie sono state invariabilmente chiamate a ridurre il costo del lavoro umano da parte degli investitori e degli industriali, piuttosto che a migliorare il benessere dei braccianti agricoli e delle loro comunità.

I contadini si accorsero che una crescente porzione del loro reddito andava ai costruttori di attrezzature, e in fin dei conti ai produttori di combustibile fossile. Un contadino completamente meccanizzato può essere stato capace di portare la stessa quantità al mercato con meno aiuto di prima, ma quella quantità non era più abbastanza: attrezzature sempre crescenti e costi degli input significavano che l’aumento della produzione bastava appena a finire in pari.

Come gli artigiani furono soppiantati dalle nuove fabbriche industriali, così i contadini furono nell’insieme sistematicamente sostituiti da macchine e vennero di conseguenza costretti a vivere nei nascenti quartieri poveri urbani. Il risultato può essere visto nella calante proporzione di popolazione inglese impegnata in agricoltura: nel secolo XVIII circa il 40% lavorava la terra; dal 1900 questa cifra era piombata all’8% e oggi è solo del 2,5%³.

Le nuove tecnologie portarono altri cambiamenti nella fattoria. Per trarre pieno vantaggio dalla loro attrezzatura, i contadini furono costretti a piantare distese sempre più grandi di monocolture dipendenti da macchine e ad omogeneizzare i loro terreni coltivabili abbattendo alberi, strappando siepi, spianando con il bulldozer rocce affioranti in superficie e ignorando le specifiche caratteristiche di ogni campo. In altre parole, le fattorie erano foggiate in modo tale da adattarsi alla tecnologia.

Queste tendenze erano spinte da tecnologie non solo meccaniche. Altri sviluppi, quali semi ibridi, fertilizzanti chimici, erbicidi e pesticidi4 avevano un impatto simile. I contadini che tradizionalmente mettevano da parte il seme da un raccolto annuale per piantarlo l’anno successivo, che usavano concime prodotto nella stessa fattoria per conservare la fertilità dei loro campi, e contavano su rotazioni e controlli biologici per limitare erbacce e danni causati da animali e insetti, cominciarono invece a usare crescenti quantità di energia acquistata. A lungo termine, questo cambiamento non causò soltanto un deterioramento della qualità del terreno da coltivare e un fin troppo familiare avvelenamento dell’ambiente, ma costrinse anche i contadini ad aumentare continuamente la loro produzione per pagare l’energia di cui prima non avevano bisogno.

Da quando la tradizionale modalità economica di fissazione dei prezzi non include gli enormi, nascosti ovvero esternalizzati costi della produzione di cibo industriale – dalla perdita di superficie arabile e dall’inquinamento dell’aria al cancro causato dai pesticidi – lo sviluppo a guida tecnologica ha portato a un costante calo dei prezzi ricevuti dai contadini per i loro prodotti. Ogni contadino che trascurava di adottare la tecnologia più recente, e le cui rese commercializzabili quindi non aumentavano, era ancora posto di fronte allo stesso calo dei prezzi ed era improbabile che potesse continuare a lungo l’attività agricola. I contadini che si adattavano ad ogni successiva ondata di innovazioni, dovevano di solito ottenere prestiti bancari per pagare le nuove tecnologie, ed erano continuamente incalzati ad aumentare la loro produzione, espandere i loro poderi e cercare mercati sempre più lontani per la loro sviluppata produttività, semplicemente per rimborsare i prestiti.

Oggi, soltanto una relativa manciata di agricoltori nel mondo industrializzato è sopravvissuta a questa corsa tecnologica. I sei paesi fondatori della Politica Agricola Comune europea (CAP), ad esempio, avevano 22 milioni di contadini nel 1957; oggi questo numero è precipitato a circa sette milioni5. Il Canada ha perso quasi i tre quarti della sua popolazione contadina tra il 1941 e il 1996, e il numero continua a diminuire6. Negli Stati Uniti, circa 6,8 milioni di fattorie erano in funzione nel 1935; nel 1964 il numero di fattorie era ridotto a meno della metà. Oggi è meno di 1,9 milioni7. Tra le famiglie contadine che oggi rimangono, poche hanno il capitale per finanziare i continui acquisti di attrezzatura e terreno, e molte si sono talmente indebitate da rendere improbabile la loro continuata sopravvivenza.

 

 

Le grandi fattorie diventano più grandi

 

 

Quando le piccole fattorie falliscono, la loro terra e i loro mercati sono rapidamente ingoiati dalle fattorie più grandi e sempre più da fattorie collettive. Queste enormi operazioni di stile industriale prosperano non perché siano più produttive (in realtà, sono di gran lunga meno produttive), ma perché sono sistematicamente sostenute da politiche governative. Negli Stati Uniti, ad esempio, i sussidi previsti per le fattorie aumentano con la quantità di terra posseduta da un agricoltore. Di conseguenza, il 10% delle fattorie riceveva quasi due terzi dei sussidi federali distribuiti nel 2000 – circa 17 miliardi di dollari. La lista di quelle sovvenzionate include compagnie come IBP, Archer Daniels Midland e Chevron8. La situazione è simile in Europa: ad esempio, l’80% dei sussidi alle fattorie britanniche sono dati al 20% di contadini con le tenute più grandi. Un contadino, i cui 2000 acri nella contea di Cambridge gli fruttano ogni anno un utile di 180000 sterline di sussidi, ammette che è un’“idiozia” il fatto che riceva così tanto9.

Questi forti sussidi consentono alle fattorie più grandi di ottenere un profitto, anche se vendono il loro prodotto a prezzi al di sotto del loro costo di produzione. Quando lo fanno, i prezzi delle derrate diminuiscono a livelli che rendono quasi impossibile la sopravvivenza alle piccole fattorie che vendono sui mercati globali. Essendo le loro fattorie piccole, i sussidi che ricevono sono insignificanti; poiché i prezzi delle derrate agricole sono inferiori al costo di produzione, questi agricoltori perdono soldi anno dopo anno.

Graham Harvey, autore di The Killing of the Countryside, sostiene che è una delle più grandi ironie il fatto che l’agricoltura sia ora sovvenzionata: “Non solo si elimina la natura selvaggia dalla terra, ma si scaccia anche la gente. I miliardi di sterline in contributi UE, previsti per aiutare le piccole fattorie, alimentano invece un rampante agribusiness che le inghiotte rapidamente”10.

Peter Rosset di Food First sarebbe d’accordo. In America, i sussidi alle fattorie - dice – sono “fondamentalmente un trasferimento di denaro dalle tasche dei contribuenti statunitensi alle grandi corporazioni di agricoltori”11. Come vedremo nelle pagine successive, questo è solo uno dei molti modi attraverso cui le politiche governative sostengono sistematicamente il sistema alimentare globale, a scapito dei più piccoli e più localizzati sistemi alimentari.

 

 

L’agribusiness domina

 

 

Mentre il costante spostamento verso una piena dipendenza dal sistema alimentare globale ha minato le famiglie contadine e impoverito le loro comunità, il processo è stato vantaggioso per le grandi fattorie e per l’agribusiness dal quale gli agricoltori dipendono sempre di più. L’industria collegata all’agricoltura commercializza tutto ciò di cui necessitano i contadini industriali: l’attrezzatura, il combustibile fossile, i semi, gli antibiotici, i fertilizzanti, i pesticidi, eccetera.

I contadini legati al sistema globale dipendono dall’agribusiness anche in un altro modo. Quando i contadini producono una piccola ma variegata gamma di raccolti, il loro intero raccolto può essere commercializzato nell’ambito della loro stessa economia locale; ma una volta inghiottiti nel sistema alimentare globale, i contadini hanno bisogno di commercializzare singoli raccolti in quantità ben più grandi di quanto l’economia locale possa assorbire. Quei contadini non possono più commercializzare la loro stessa produzione e finiscono col dipendere dalle industrie agricole che lo fanno per loro.

Queste ultime hanno così assunto il controllo dell’intero sistema alimentare. Non soltanto esse forniscono quasi tutto ciò di cui i contadini industriali necessitano (in certi casi, possedendo le fattorie), ma agiscono anche come intermediari, trasformatori, distributori e dettaglianti – comprando, confezionando e vendendo cibo su mercati che si sono sviluppati fino a comprendere l’intero pianeta.

Nei paesi dove il progresso agricolo si è spinto più lontano, molte industrie agricole sono diventate imprese enormi, verticalmente integrate, con filiali che traggono profitto da ogni aspetto di un’operazione agricola. Si consideri, ad esempio, l’ipotetico contadino americano che coltiva grano e alleva vacche e polli, descritto da Joel Dyer in Harvest of Rage. Il contadino acquista un nuovo trattore da una compagnia posseduta da Cargill corporation e attrezzatura per l’irrigazione da una seconda filiale Cargill. Egli ha anche bisogno di semi, fertilizzanti chimici e foraggio per il suo bestiame, il tutto essendo ancora acquistato da altre filiali Cargill. Al momento del raccolto, porta il suo grano da Cargill per la macinatura; insoddisfatto del prezzo offertogli, decide di immagazzinare il suo raccolto in un deposito pure di proprietà di Cargill, sperando in un futuro aumento del prezzo. I costi dell’immagazzinamento erodono il profitto finale, così vende il suo raccolto a una società commerciale, di proprietà di Cargill, che lo imbarca per l’Europa e il Giappone. Il suo bestiame, nel frattempo, è venduto a un pascolo, di proprietà di una filiale di Cargill, che, a sua volta, lo spedisce a una fabbrica per il confezionamento della carne di proprietà di Cargill. Egli vende i suoi polli a una delle fabbriche Cargill per il trattamento del pollame. Purtroppo per lui, i prezzi che ha ottenuto per il suo frumento, il suo bestiame e i suoi polli sono troppo bassi per reggere finanziariamente, così si reca a una banca locale per un prestito. Per chiudere il cerchio, anche la banca è di proprietà di Cargill12.

Sebbene il contadino appena descritto sia immaginario, Cargill è coinvolto in tutti gli aspetti della menzionata produzione agricola – e in molti altri ancora. E benché questo contadino potrebbe aver acquistato alcune delle cose di cui aveva bisogno da un concorrente di Cargill, è probabile che anche questa compagnia sarebbe stata una enorme azienda dell’industria agricola.

A causa del controllo collettivo su praticamente tutte le loro necessità, i contadini industriali si trovano in una precaria posizione: non hanno influenza sui costi dell’energia e dell’attrezzatura, né sui prezzi che ricevono per la loro produzione. Come prevedibile conseguenza, sono saldamente tenuti in pugno da aziende del settore agricolo mosse solo dal profitto, la cui parte di guadagno sul cibo è continuamente cresciuta a spese dei contadini. Nel 1990, solo nove centesimi di ogni dollaro speso in cibo prodotto negli Stati Uniti è andato al contadino, mentre intermediari, commercianti e fornitori di energia hanno preso il resto13. Nel decennio successivo, la stretta si è rafforzata ancora di più: tra il 1990 e il 1999, i costi per gli agricoltori sono aumentati del 17%, mentre i prezzi alla produzione sono calati del 9%14. Non è sorprendente che così tanti contadini falliscano ogni anno.

In un certo senso,  i contadini collegati a un sistema alimentare globale sono diventati poco più di servi della gleba in un sistema feudale. In nessun luogo più che nelle industrie americane di polli e maiali questa metafora è più adatta. Secondo Joel Dyer, “è quasi impossibile per un contadino allevare maiali o pollame senza prima stipulare un contratto con uno dei monopoli che garantiscono che i suoi animali saranno acquistati al momento opportuno. Per questo, in molte regioni del paese c’è solo un acquirente”.

Dyer continua a citare un allevatore di maiali del Missouri, che dice: “Un tempo, nel giro di 10 miglia, si poteva andare in cinque o sei posti ogni settimana a vendere i propri maiali. Ora, devi portarli per 50 miglia in un solo posto, un giorno al mese e prendere quanto un solo acquirente ti darà”15.

Inutile dire che gli acquirenti associati non pagano molto: ad esempio, gli allevatori di pollame intrappolati nel sistema alimentare industriale guadagnano solo cinque centesimi  per capo, tolte le spese16.

 

 

Globalizzazione

 

 

La trasformazione da un’agricoltura su piccola scala per mercati locali all’agricoltura su larga scala per mercati nazionali e internazionali è in atto da secoli, ed in alcuni luoghi accade lentamente e con passo sicuro, in altri bruscamente e rapidamente. Ma negli ultimi cinque anni il processo si è nell’insieme drammaticamente accelerato, grazie alle politiche di promozione della globalizzazione economica.

Il profilo dell’odierna economia globalizzata fu disegnato alla conferenza di Bretton Woods del 1944, dove i leader occidentali si riunirono per disegnare una nuova architettura finanziaria per il periodo del dopoguerra. Il fine era di attrarre le più piccole economie del mondo nell’orbita delle superpotenze industriali, aumentando con ciò molto il numero dei consumatori in stile occidentale, espandendo il mercato dei manufatti e assicurando libero accesso alle risorse naturali del pianeta. A questo scopo, furono create tre istituzioni sovranazionali: la Banca Mondiale, il Fondo Monetario Internazionale (FMI) e l’Accordo Generale sulle Tariffe e il Commercio (GATT). Il piano di Bretton Woods richiese alla Banca Mondiale di provvedere al finanziamento dei principali progetti di sviluppo – per prima cosa di ricostruire l’Europa lacerata dalla guerra, poi di sviluppare le parti cosiddette sottosviluppate del mondo. I progetti della Banca Mondiale hanno generalmente messo a fuoco i requisiti infrastrutturali di un sistema commerciale globale, inclusi gli immensi impianti centralizzati di energia, le reti di trasporto a lunga distanza, e i sistemi di comunicazione ad alta velocità. Il FMI, nel frattempo, ha operato per imporre un’architettura economica standardizzata – fondata su una sbrigliata crescita economica – ad ogni economia nazionale. Rigide politiche di aggiustamento strutturale sono state imposte concedendo prestiti ai paesi che non aderivano a quel piano. Al contempo, il GATT è servito per aumentare la dipendenza delle nazioni nel commercio a lunga distanza, mantenendo basse le tariffe e rimuovendo altre percepite barriere al commercio.

Per il sud, questa struttura lo faceva entrare nell’era dello sviluppo. Sebbene all’apparenza più nobile del colonialismo nei suoi fini, in realtà i suoi scopi e le sue politiche si collegavano senza discontinuità con quelli dell’epoca precedente, e i risultati sono stati straordinariamente simili: un modello economico occidentale, basato su produzione industriale, commercio e crescita economica, è stato sistematicamente imposto dappertutto nel Terzo Mondo. E proprio come nel periodo coloniale, risorse e produzione hanno continuamente circolato dal sud al nord.

Una misura dell’impatto di queste istituzioni è il grado in cui le economie nazionali ora dipendono dal commercio internazionale. Dagli anni Quaranta, il commercio mondiale è aumentato di dodici volte – quasi due volte e mezzo più velocemente della crescita in output. Importazioni ed esportazioni costituiscono una proporzione di attività economica più ampia di prima, con il commercio internazionale che ammonta annualmente a circa 5,5 trilioni di dollari17. Non tutto in questo commercio consiste in beni di consumo, hardware militare e risorse naturali: anche il commercio di cibo si espande continuamente, con più di 600 milioni di tonnellate di cibo che attraversa le frontiere nel 1998, il triplo della quantità commerciata nel 1965.

Questo esplosivo aumento ha alimentato il commercio delle società transnazionali, depotenziando sistematicamente le autorità locali. Molte transnazionali, infatti, sono ora più potenti di intere nazioni: uno studio del Canadian Centre for Policy Alternatives ha mostrato che, nel 1999, 51 delle 100 più grandi economie del mondo erano transnazionali, non paesi18.

Mentre il commercio globale e le transnazionali sono state nutrite e sostenute, le economie locali e i sistemi alimentari in esse inseriti sono stati visti come poco più che anacronistici impedimenti al progresso economico, e sono stati sistematicamente smantellati. Nel sud, i contadini sono stati incoraggiati, spinti ed allettati da esperti dello sviluppo a usare prodotti chimici, semi ibridi e macchinari agricoli, e ad orientare una sempre più ampia proporzione della loro produzione verso i mercati nazionale e globale. Poiché queste fattorie modernizzate hanno bisogno di molto meno lavoro delle fattorie tradizionali, si è assistito ad eccezionali spostamenti di persone dalla terra. Nel 1979, ad esempio, il 92% della popolazione cinese lavorava la terra; l’abbandono da parte della Cina dell’agricoltura collettivizzata e i suoi sforzi per integrarsi rapidamente nell’economia globale hanno oggi ridotto questo numero a meno del 40%. In un solo, recente anno, 10 milioni di contadini cinesi hanno lasciato le loro fattorie19. Questo può sembrare un estremo esempio di ingegneria sociale, ma non è molto diverso da quanto è successo nelle economie del nord, basate sul mercato: negli Stati Uniti, ad esempio, circa 25 milioni di abitanti rurali sono stati ugualmente sradicati dalla fine della seconda guerra mondiale20.

Gli economisti classici considerano questa dislocazione desiderabile, perché assicura lavoro a buon mercato alle nuove industrie urbane. Ma mentre le grandi aziende raccolgono i benefici di questa forza lavoro sradicata, gli inevitabili costi – dalla povertà e dalla disoccupazione in depresse comunità rurali alla spesso incontrollabile esplosione di popolazione nelle città – deve essere assorbita dalla società nel suo complesso.    

 

L’accelerazione della corsa

 

 

Le politiche di libero commercio e un’insistenza sulle esportazioni hanno reso i contadini altamente vulnerabili alle fluttuazioni monetarie, alle recessioni lontane migliaia di miglia, e ad altre forze economiche ben al di là del loro controllo. In Gran Bretagna, ad esempio, i contadini dipendenti dalle esportazioni vedevano i loro redditi diminuire del 60% tra il 1995 e il 2000, in parte a causa del crescente apprezzamento della sterlina britannica21. Essi vedevano altresì milioni dei loro animali da allevamento macellati, poiché il governo britannico tentava di sradicare un’epidemia di afta epizootica – e con ciò salvare il mercato britannico dell’esportazione della carne22. Negli Stati Uniti, nel frattempo, un miliardo di staia di grano – metà del raccolto nazionale – non trovava mercato nel 1999, in gran parte perché una crisi economica in Asia spegneva la domanda di prodotti statunitensi23. Migliaia di contadini americani hanno perso le loro fattorie grazie alle politiche agricole che collegavano il loro destino ai mercati speculativi globali.

Quelle stesse politiche costringono altresì gli agricoltori a competere con agricoltori sempre più lontani, in luoghi dove il lavoro più a buon mercato rende la produzione di gran lunga meno costosa. I contadini sono così costretti a diventare ancora più efficienti adottando tecnologie più nuove, aumentando la dimensione delle loro fattorie e specializzandosi in uno o due raccolti richiesti da tendenze economiche di breve periodo. In altri termini, la globalizzazione ha significativamente accelerato la velocità della corsa in ambito agricolo.

Se alla globalizzazione economica si consentirà di continuare, la corsa sarà ancora più veloce, non soltanto per i contadini, ma per tutti noi. Con gli anni, il GATT in particolare ha esteso la sua portata in nuove aree, espandendo continuamente i diritti degli investitori internazionali e delle società globali, mentre ha drasticamente limitato il potere dei governi di servire gli interessi dei loro cittadini.

Nel 1994, i paesi membri del GATT crearono un nuovo e potente consiglio di amministrazione, l’Organizzazione Mondiale per il Commercio (WTO), per fissare le regole del commercio e risolvere le controversie. I paesi membri aderenti al WTO sono implicitamente d’accordo a riorientare le loro economie nazionali in direzione del commercio e dell’investimento internazionale24. Questa riorganizzazione include la privatizzazione dell’industria e lo smantellamento di ogni programma sociale, o di lavoro, ambientale, o di controllo sanitario che potrebbe essere interpretato come barriera commerciale. Una omissione da parte dei paesi membri potrebbe esporli a sanzioni e multe. I burocrati non eletti che dirigono il WTO hanno così il potere di rovesciare leggi nazionali e locali democraticamente emanate, in un processo deliberativo segreto che esclude proposte da parte di agricoltori, consumatori, gruppi sindacali o organizzazioni ambientaliste. La sfera di potere del WTO è a dir poco allarmante. Secondo una stima, qualcosa come l’80% della legislazione ambientale statunitense potrebbe essere messa in dubbio in base alle regole del WTO25.

Fortunatamente, la gente nel mondo è messa in guardia contro le implicazioni di questa assunzione di potere. L’opposizione al WTO è arrivata al culmine alla fine del 1999, quando i ministri del commercio si riunirono a Seattle, Washington, per negoziare l’agenda del nuovo Millennium Round del GATT. Le discussioni di Seattle fallirono, in parte a causa delle massicce proteste svoltesi all’esterno delle sale delle trattative, in parte a causa della riluttanza dei delegati del sud all’interno delle sale ad essere esclusi dal processo decisionale ed esecutivo. Arrivando subito dopo l’Accordo Multilaterale sugli Investimenti (MAI), finito su un binario morto grazie all’opera delle ONG – accordo che avrebbe dovuto espandere la gamma di affari in cui alle transnazionali sarebbe stata lasciata completa libertà - le proteste di Seattle hanno profondamente demolito il mito che la globalizzazione è inevitabile. 

Da allora, ci sono state proteste simili a Washington, Praga, Quebec, Genova – quasi ovunque i politici si sono riuniti per promuovere il loro ordine del giorno. Collegando consumatori, lavoro e preoccupazioni ambientali ed unendo gli interessi del Terzo Mondo con quelli delle comunità del nord, i dimostranti sono riusciti a rappresentare una larga parte di umanità. E praticamente, tutti i dimostranti chiedono un fondamentale cambiamento di direzione.

In particolare per il cibo, un tale cambiamento è chiaramente necessario. Secoli di progresso agricolo, sia nel nord che nel sud, hanno tolto ai contadini i loro mezzi di sostentamento, fiaccato la vitalità economica delle aree rurali e profondamente danneggiato l’ambiente – riducendo al contempo la qualità del nostro cibo. Sebbene la crescita del movimento per il cibo locale ispiri la speranza che questo fondamentale cambiamento sta per arrivare, il suo futuro rimane dubbio finché la politica governativa gli sarà così fermamente ostile. Se invece le politiche governative servissero a eliminare ingiusti vantaggi, i sistemi di alimentazione locale potrebbero ancora una volta fornire ovunque alla maggioranza della gente il cibo di cui ha bisogno, proprio come facevano non molto tempo fa.

 

 

(traduzione dall’inglese di Giuseppe Giaccio).

 

 

 

 

NOTE

 

Epigrafe: Peter ROSSET, The Case for Small Farms: An Interview with Peter Rosset, Multinational Monitor, luglio-agosto 2000, pp. 29-33.

1.       Ciò che può essere considerato piccolo può considerevolmente variare da luogo a luogo, dipendendo dal contesto sociale ed ecologico. In alcune regioni dei tropici, ad esempio, piccolo può significare meno di uno o due acri, mentre negli Stati Uniti una fattoria può essere di 150 o più acri ed essere ancora ragionevolmente considerata piccola. L’USDA (il ministero per l’agricoltura americano – n.d.t.) definisce la dimensione delle fattorie in base al reddito annuale, piuttosto che in base all’estensione. Piccole fattorie sono quelle che hanno un incasso lordo annuale di 250.000 dollari o meno, il che consente ampie differenze di scala entro questa categoria, dal momento che più del 60% delle fattorie negli Stati Uniti presentano un incasso lordo annuale di meno di 20.000 dollari (US Department of Agriculture, 1998 Agricultural Factbook, Washington D.C.: USDA 1998).

2.       Basato su stime FAO e Banca Mondiale. Cfr. Jules PRETTY, Regenerating Agriculture: Policies and Practice for Sustainability and Self-Reliance (Earthscan, London 1995).

3.       G.A. MINGAY (a cura), The Agricultural Revolution, 1650-1880  (Adam and Charles Black, London 1977); Organisation for Economic Cooperation and Development, Agriculture and Economics (OECD, Paris 1965): E. THOMAS, Introduction to Agricultural Economics (Thomas Nelson and Sons, London 1956); Ministry of Agriculture, Fisheries and Food, Agriculture in the UK, 1995 (London: MAFF, HMSO, 1995).

4.       In questo libro, il termine pesticida è usato genericamente, ed include insetticidi, fungicidi, acaricidi, nematocidi e mitocidi.

5.       Jules PRETTY, The Living Land: Agriculture, Food and Community Regeneration in Rural Europe (Earthscan, London 1998).

6.       Statistics Canada, Census of Agriculture, Farm Population 1991 and 1996, www.statcan.ca/english/censuag/apr26/can3.htm, 28 dicembre, 2001; Government of Canada Digital Collections, The Lure of the Farm: Trends in Farm Populations in Canada, http://collections.ic.gc.ca/potato/thennow/movement.asp, 28 dicembre, 2001.          

7.       Farm Count at Lowest Point since 1850: Just 1,9 million, New York Times, 10 novembre 1994; US Department of Agriculture, National Agricultural Statistics Service, 1997 Census of Agriculture: United States Data, Table 1: Historical Highlights, p. 10.

8.       John KELLY, Corporations, Agencies Get Lion’s Share of Farm Subsidies, Kansas City Star, 9 settembre 2001.

9.       Walston Hailed as Hero by Small Farmers, Farmers Weekly Interactive, 12 gennaio 1999, www.fwi.co.uk.

10.   Graham HARVEY, The Killing of the Countryside (Jonathan Cape, London 1996), p. 16.

11.   Peter ROSSET, The Case for Small Farms.

12.   Joel DYER, Harvest of Rage (Westview Press, Boulder, Colo., 1998), p. 110.

13.   Stewart SMITH, “Farming Activities and Family Farms: Getting the Concepts Right”, presentata al simposio “Agricultural Industrialisation and family Farms”, 21 ottobre 1992.

14.   USDA, National Agricultural Statistics Service, Agriculture Prices (Washington, D.C., USDA, NASS 1999).

15.   Joel DYER, Harvest of Rage, p. 113.

16.   Nicholas D. KRISTOF, As Life For Family Farmers Worsens, the Toughest Wither, New York Times, 2 aprile 2000, p. 1.

17.   IMF Statistics Department, International Financ