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Crisi, Pennacchi: fine del dogma dell´autoregolazione dei mercati

di Diego Barsotti - 22/10/2008

 
«Per un nuovo paradigma dello sviluppo umano che ponga l´economia come sottordinata all´ambiente»
 
 
La vergognosa pantomina governativa sul pacchetto clima energia dell’Ue, l’accelerazione sul nucleare, l’ipotesi di una nuova rottamazione e di incentivi finalizzati esclusivamente alla ripresa dei consumi, le banche che rispondo picche a Berlusconi sull’ipotesi ricapitalizzazioni…. sono tutti segnali di una politica economica vecchia, che non cerca alternative al dogma dI crescita a prescindere dalla sua qualità che ha portato alla crisi della finanza scoppiata alcune settimane fa e a quella dell’economia reale che stiamo vivendo in questi giorni (oggi borse europee nuovamente in calo dopo il tonfo di Tokyo che ha chiuso a -6,79%).

C´è chi richiama alla necessità di rimettere regole globali, chi invece sostiene che dovranno essere gli stati ad indirizzare l´economia, pur in un contesto concertato. Quali che siano le regole del "traffico dei mercati", se questo "traffico" non è orientato verso la sostenibilità si potranno anche evitare ingorghi, ma non si eviterà il baratro.

Abbiamo provato a porre la questione a Laura Pennacchi, studiosa, membro del comitato scientifico della fondazione Basso ed ex deputata Pd nel 2001 aveva scritto l’introduzione al libro del vincitore del Nobel per l’economia Joseph Stiglitz “In un mondo imperfetto – mercato e democrazia nell’era della globalizzazione”. Un libro che di fatto preconizzava dove ci avrebbe portato questo modello di sviluppo. Come legge la situazione 7 anni dopo?

«Oggi è obbligatorio valutare bene sia la crisi, sia le misure che sono state prese ai vari livelli e nei vari organismi statali e internazionali. Il punto di fondo è che questa crisi è tutt’altro che finita perché la recessione in atto infatti rischia di trasformarsi in vera e propria depressione come nel ’29: non si tratta solo di eccessi della finanzia, né soltanto di contagio dalla finanza alla economia reale, è l’intero modello di sviluppo, fatto di tante variabili, che si sta esaurendo dopo essere nato negli Stati Uniti, enfatizzato dalle amministrazioni Bush, alimentato dal signoraggio del dollaro e d un uso spregiudicato dei cambi e dei dei tassi di interesse: insomma un’innovazione finanziaria selvaggia che in America viene definito con un unico termine, plunder, ovvero saccheggio, e che ha avuto come conseguenze bassi salari, la crescita dell’indebitamento, la decrescita del welfare e che infine ha prodotto un deficit apertosi anche per la complementarietà con lo sviluppo avviato in Cina e India, Paesi spinti a diventare la fabbrica fordista del mondo, con prodotti a basso costo per i lavoratori americani sempre più indebitati. Ecco perché questa crisi è dannatamente complicata, e non è finita, perché a tutto questo si aggiungono altri due fattori: i prezzi delle materie prime e dei beni alimentari. Insomma una grande e continua sovrapposizione di bolle che ha caratterizzato lo sviluppo drogato e perverso degli ultimi decenni e che oggi manifesta tutta la sua fragilità».

Lei ha parlato nel suo intervento pubblicato un paio di giorni fa sul Manifesto, della necessità di «un drastico rovesciamento del complesso di indirizzi macroeconomici e microeconomici fin qui seguiti, un rovesciamento per cui sono vitali l´impegno per una nuova Bretton Woods per ridefinire un nuovo ordine economico-finanziario globale e il protagonismo di un´Europa rilanciata nelle sue finalità e nelle sue strutture unitarie».
«È evidente la necessità di una ristrutturazione dell’economia mondiale, per un semplice fatto: ormai per gli Stati Uniti non è più possibile riconquistare quell’egemonia che si erano costruiti sul debito. Quindi è necessario un rovesciamento su scala globale, non di sola governance, una nuova Bretton Woods, che metta in discussione non solo regole, ma politiche e programmi riassegnando quindi al pubblico un ruolo molto più incisivo. I singoli stati hanno alcune leve, ma da sole non bastano, per questo credo si debba agire usando la leva dell’Europa che oggi può vantare la superiorità del proprio modello sociale europeo per anni sottostimato rispetto all’illusorio neoliberismo degli usa».

Eppure in questa situazione generale, non sembrano emergere grandi proposte di svolta né da parte del centrosinistra, tutt’altro che concorde nel leggere questa crisi e avanzarne soluzioni, né tantomeno dalla cosiddetta sinistra antagonista. Perché?
«Non sono d’accordo. Le sinistre sono assolutamente consapevoli della necessità di una svolta, e questa parola è stata usata più di una volta. Per esempio da parte del Pd è stato proposto subito che si dovessero rimettere in discussione i diritti di proprietà bancarie. Il Pd sostiene la necessità di configurare come prioritaria l´economia reale e di intervenire su 2 versanti: da quella dei cittadini e dei lavoratori attraverso detrazioni fiscali, dall’altra rinforzando il tessuto imprenditoriale. Mi preoccupa piuttosto che dentro le sinistre c’è qualcuno che si attarda a dire che c’è bisogno non di rivedere il funzionamento di un mercato che ha mostrato tutti i suoi limiti, ma soltanto di mettere qualche regola in più.
Invece io cono convinta che servano politiche e programmi simili a quelle che intraprese Roosvelt lavorando non solo su questioni materiali ma anche sui beni sociali, sui servizi, sull’ambiente, insomma su quella qualità della vita e su quella gamba del welfare che ha caratterizzato i 30 anni gloriosi seguiti a Keynes».

Non ritiene che per superare la crisi sia necessario il rovesciamento concettuale che riconosca che l´economia è un sottosistema dell´ambiente? Ovvero che senza sostenibilità ambientale non può darsi sostenibilità economica?
«Io penso che sia proprio così. Sta già avvenendo questo rovesciamento culturale importante grazie a figure del calibro del premio nobel Amartya Sen, che hanno cominciato a porre la questione della revisione del ruolo del pil sulla base di un nuovo paradigma dello sviluppo umano. Il nuovo new deal dovrebbe caratterizzarsi proprio per questo neoumanesimo che ponga l’economia come sotto ordinata all’ambiente».

C’è chi recentemente ha sostenuto che una delle colpe degli economisti è stata quella di non avvisare in tempo che il modello di un mercato lasciato a sé stesso avrebbe finito per implodere.. Anche secondo lei gli economisti non avevano avvisato oppure sono stati altri a non aver voluto ascoltare?
«Quando nel 2001 scrissi l’introduzione al libro di Stiglitz “In un mondo imperfetto”, qualcuno mi disse che disegnavo uno scenario catastrofico. Lo stesso mi è accaduto quando nel 2004 ho scritto il libro “L’uguaglianza delle tasse” dove insistevo sul fatto che il trinomio berlusconiano meno tasse - più mercato - meno stato, cioè regole, avrebbe avuto effetti nefasti. Di questi pericoli se ne erano accorti in tanti, ma non hanno avuto ascolto e non sono stati minimamente amplificati dai media, perché c’è stata un’assoluta subalternità al dogma dell’autoregolazione dei mercati».