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Ben più importante del fatto di esistere è lo sforzo di essere reali

di Francesco Lamendola - 22/10/2008

Che esistere ed essere reale non siano sinonimi, la cultura moderna lo ha acquisito da tempo e ne ha fatto oggetto di appassionata riflessione.
Luigi Pirandello ha posto una tale problematica al centro del suo percorso intellettuale: nei Sei personaggi in cerca d'autore si vede come il personaggio letterario sia, per certi aspetti, molto più reale del suo autore o degli attori che lo interpretano, perché, pur non possedendo l'esistenza, possiede però l'essenza, ossia quella intrinseca unità, compattezza e coerenza che quelli non hanno,  né possono avere. Ne Il fu Mattia Pascal un uomo, che si è fatto credere morto, scopre che il suo personaggio, vale a dire quell'io inautentico che svolgeva il suo ruolo sociale, è tanto più reale di lui, da rendergli impossibile la vita anche dopo il suo ritorno al paese natio; tanto che si riduce a portare i fiori sulla sua stessa tomba, e a rifugiarsi in una vita puramente letteraria (virtuale), scrivendo le sue memorie. Nell'Enrico IV, poi, il personaggio si sovrappone per sempre alla persona, ossia all'individuo in carne e ossa, allorché una serie di drammatiche circostanze obbligano quest'ultimo ad assumere definitivamente e senza residui la «maschera» che aveva indossato, per gioco, nel corso di una festa in costume medioevale: quella dell'imperatore tedesco dell'XI secolo, protagonista del famoso episodio di Canossa.
Tutto questo, ripetiamo, è stato ormai acquisito dalla cultura moderna; la quale, del resto, vive la  consapevolezza della disgregazione dell'io come uno degli aspetti centrali, sul quale la filosofia, la letteratura, il cinema e le arti visive continuano a confrontarsi e a interrogarsi.
Non si tratta di una tematica nuova alle concezioni filosofiche dell'Oriente; nel buddhismo Theravada, come abbiamo più volte avuto occasione di far notare, non esiste l'idea di un io unitario e coeso, bensì quella di un gruppo di operazioni mentali continuamente mutevoli. È nuova, invece, alla cultura occidentale, e invano se ne cercherebbero tracce consistenti e consapevolmente sviluppate prima che il cogito cartesiano la ponesse sul tappeto, sia pure per risolverla in senso razionalistico e ottimistico.
Il tarlo del dubbio., però, era penetrato nei recessi più oscuri della coscienza occidentale: e, a partire da quel momento - ossia a partire dalla Rivoluzione scientifica del XVII secolo - ha cominciato a lavorare con febbrile intensità, giungendo a minare le basi stesse della credenza in una coscienza unitaria ed autoconsapevole, fino agli esiti paradossali del teatro di Pirandello o della narrativa di Miguel de Unamuno.
Fino a quando l'uomo conserva la fede in un progetto cosmico di cui è parte essenziale, ma che lo trascende ed invera la sua esistenza, rendendola  significativa, un tale dubbio non si affaccia se non in casi isolati e particolari. Ma quando egli smarrisce il senso del proprio essere nel mondo, viene a sgretolarsi anche la coscienza nella unitarietà del proprio io e si fa strada, sempre più incalzante, il dubbio radicale circa la propria stessa realtà.
Non aveva Calderón de la Barca (sempre nel XVII secolo) posto il dubbio che la vita umana non sia altro che un sogno? E non aveva Shakespeare, nel suo Amleto, posto la radicale domanda se sia meglio l'essere o il non essere, per l'ente chiamato uomo? E, nel Sogno di una notte di mezza estate, non aveva suggerito che anche la più intensa esperienza affettiva dell'uomo - l'amore - altro non sia che un sogno illusorio, all'interno di quel breve sogno che chiamiamo vita? E il protagonista del Don Chisciotte di Cervantes non aveva finito per considerare i personaggi e le situazioni dei romanzi cavallereschi più reali, e infinitamente più affascinanti, della cosiddetta vita vera, fino al punto di perdere completamente il contatto con quest'ultima, per inseguire il sogno di identificarsi con quell'altra?
Si faccia caso alle date: tutto ciò avviene nell'epoca della Rivoluzione scientifica, quando si afferma il nuovo paradigma culturale della modernità, basato su una concezione della natura materialistica, meccanicistica, riduzionistica e sulla pretesa, da parte del soggetto, di poterne penetrare l'essenza per via esclusivamente razionale; più precisamente, per via logico-matematica, implicitamente svalutando e declassando ogni altra forma di conoscenza.

La cultura post-moderna ha cercato di convivere con questa crisi del fondamento coscienziale; e, dopo averla introiettata e averne fatto uno dei propri pilastri filosofici (e sia pure di tipo nichilista), ha voltato pagina ed è andata avanti per la sua strada - o forse indietro, dipende dai punti di vista - senza più darsene troppo pensiero.
Strana pretesa!
È come se lo scettico radicale pretendesse di continuare a vivere la vita di tutti i giorni, come nulla fosse, dopo aver revocato in dubbio ogni più elementare certezza, contraddicendo tutte le sue affermazioni intorno alle aspettative «ingiustificate» sul principio di causa ed effetto, a cominciare da quella che domani sorgerà il sole; anzi, che vi sarà un domani., Perfino lo scettico Hume era arretrato davanti a una simile pretesa, e l'aveva dichiarata inconciliabile con le esigenze primarie della vita (anche se non confutabile sul terreno della logica).
E così, il cancro del dubbio radicale, non curato e non affrontato, continua a lavorare nascostamente nelle profondità della coscienza contemporanea, intorbidendo e avvelenando le sorgenti stesse della vita.

Nel precedente articolo L'essere umano cerca nell'Altro il fondamento e il possesso di se stesso (sul sito di Arianna Editrice) avevamo delineato un ritratto dell'io che cerca di realizzarsi, possedendosi pienamente, attraverso la scoperta della propria estraneità interiore - il termine è di Armando Rigobello - e la tensione al di là del proprio «limite» ontologico.
Da un punto di vista esistenziale, questa ricerca di inveramento si potrebbe considerare come il tentativo, da parte dell'io, di divenire più reale a se medesimo, non con un semplice (semplice, si fa per dire) atto di autoconoscenza, come quello auspicato e predicato da Socrate; bensì come una trasformazione profonda e radicale di se stesso, alla luce della ritrovata unità con l'Essere dal quale esso trae il senso della propria esistenza. Proprio quel senso, cioè, che era andato perduto nella coscienza occidentale a partire dalla cosiddetta Rivoluzione scientifica.
Questo, in una prospettiva di tipo spiritualistico e trascendentale.
Ci sono anche altri modi concepire la cosa, ossia il movimento dell'io che cerca di conquistarsi un maggiore grado di realtà.
Fra coloro che vi si sono cimentati, ricordiamo il filosofo americano Robert Nozick - insegnante di filosofia all'Università di Harvard e già noto al pubblico italiano per libri come Anarchia, Stato e Utopia (Firenze, 1981) e Spiegazioni filosofiche (Milano, 1987) -, col suo ultimo saggio La vita pensata.
Scrive, dunque, Robert Nozick in un capitolo de La vita pensata (titolo originale: The Examined Life, 1989; traduzione italiana di Giulia Boringhieri, Arnoldo Mondadori Editore, Milano, 1990, pp. 138-143), significativamente intitolato Essere più reali:

Noi non siamo semplici sacchi vuoti da riempire di felicità o di piacere; noi  anche la natura e il carattere del sé sono importanti, anzi, ancora più importanti. È facile attribuire al sé uno «stadio finale», una particolare condizione che esso dovrebbe raggiungere e mantenere. Altrettanto importanti dei costituenti e della natura del sé sono, tuttavia, i modi in cui esso si trasforma. E non solo perché è importante raggiungere quel risultato finale. Come una nazione è formata in parte dai suoi processi di cambiamento costituzionale, compresa la possibilità di emendare la costituzione, così il sé è formato in parte dai suoi processi di cambiamento. Il sé non si limita a subire questi processi, bensì li foggia  e li sceglie, li avvia e li governa. Una parte del valore del sé risiede nella sua capacità di trasformarsi e quindi (in misura considerevole) di crearsi; una parte risiede anche nella speciale struttura dei suoi processi. Il sé fa bene, penso, ad autoconcepirsi parzialmente come l'agente non-statico del proprio cambiamento, come la sede di determinati processi di trasformazione, processi che in seguito potranno essere sostituiti da altri ancora. Forse, al livello più alto, ci saranno alcuni costanti processi di cambiamento, tuttavia anche questi un giorno potrebbero essere applicati a loro stessi e così subire un auto-cambiamento.
Poiché la nostra vita si snoda nel tempo, abbiamo la possibilità di sperimentare e mettere alla prova varie scelte, oppure di modificarle. Possiamo anche coltivare più intensamente alcuni tratti della nostra personalità senza dover rinunciare per sempre agli altri; questi aspetteranno il loro momento. Possiamo quindi proporci di avere un sé che si sviluppi, che con l'andare del tempo includa e integri i suoi tratti più importanti. Questo può spiegare in che senso alcuni compiti e tratti particolari siano più adatti a determinate età e fasi della vita che ad altre. Essendocene molti che devono trovare posto, forse alcuni sono soddisfatti più pienamente e più facilmente se vengono prima (o dopo) altri; forse alcune sequenze si svolgono più facilmente di altre.
Certe volte una persona sente di essere più reale. Voi lettori smettete per un momento di fare domande, e rispondete invece a questa: quando vi sentite più reali? (E ora smettete di pensarci, invece di rispondere. Qual è la vostra risposta?).
Qualcuno potrebbe pensare che la domanda è confusa. In tutti i momenti in cui la persona esiste, esiste, e quindi deve essere reale.  Nondimeno, anche se forse non possiamo ancora dire qual è la nozione di realtà a cui facciamo riferimento, possiamo però distinguere vari gradi di realtà.
Consideriamo, innanzitutto, i personaggi letterari. Alcuni sono più reali di altri. Pensiamo ad Amleto, Sherlock Holmes, Lear, Antigone, Don Chisciotte, Raskolnikov. Nessuno di loro esiste, eppure sembrano addirittura più reali di certe persone che conosciamo e che esistono. Il punto non è che questi personaggi letterari sono reali perché sono «verosimili», perché sono individui che potremmo incontrare sul serio. La loro realtà consiste nella loro vivacità e incisività, nella coerenza con cui sono mossi o afflitti da un determinato fine.  Anche quando non hanno ben chiaro il loro obiettivo, lo stanno comunque mettendo a fuoco o sono presentati (come Flaubert presenta Madame Bovary) con estrema chiarezza. Questi personaggi sono «più reali della vita», sono scolpiti più nettamente, con meno particolari estranei, incongruenti. Le caratteristiche che esibiscono ne fanno nuclei più concentrati di organizzazione psicologica. Simili personaggi letterari diventano simboli, paradigmi, modelli, epitomi. Sono fette estremamente concentrate di realtà.
Gli stessi aspetti che rendono alcuni personaggi letterari più concentrati di altri, fissandoli in un'immagine paradigmatica, si trovano anche al di fuori della letteratura. Opere d'arte, dipinti, pezzi musicali o poesie spesso sembrano fortemente reali;  la nettezza con cui sono scolpite le loro caratteristiche li fa emergere dallo sfondo degli oggetti indistinti e vaghi a cui siamo abituati. Con la loro organizzazione più serrata e coerente, o per lo meno più evidente e più interessante, essi costituiscono totalità più integrate. La bellezza delle opere d'arte o degli spettacoli naturali, l'equilibrio dinamico della loro forma, li rende più vividi, più reali del solito guazzabuglio che conosciamo. Forse è che le cose sembrano essere esattamente come dovrebbero, hanno una perfezione tutta loro. O forse è che esse, proprio per le loro qualità, trattengono e ripagano più durevolmente l'attenzione che dedichiamo loro. In ogni caso le percepiamo più equilibrate e più nitide; le percepiamo più vividamente. Anche caratteristiche diverse dalla bellezza, come l'intensità, la potenza, e la profondità, danno luogo a questa vivezza di percezione. Gli artisti cercano, penso, di creare oggetti che siano, in un modo o nell'altro, più reali.
Anche i matematici delineano oggetti e strutture in cui proprietà molto nette si intrecciano in una rete fittamente stratificata di possibilità, relazioni,, implicazioni combinatorie. Chiedere: «Le entità matematiche esistono?» - la domanda che fanno i filosofi della matematica - non coglie il senso della loro vivida realtà. I Greci non poterono mancare di essere affascinati da questi oggetti e dalle complesse combinazioni che essi esibivano con tanta precisione e nettezza, anche quando si trattava di numeri «irrazionali», che erano incommensurabili. Stando alla tradizione, Platone riteneva che le Forme  - che secondo le sue teorie erano le entità più reali - fossero (come) numeri. La sfera della matematica, con la sua chiarezza, attira la nostra attenzione per questa sua realtà.
Così come alcuni personaggi letterari sono più reali, lo sono anche alcune persone. Socrate, Buddha, Mosé, Gandhi, Gesù… queste figure catturano la nostra immaginazione e attenzione in virtù della loro maggiore realtà. Sono più vivide, concentrate, focalizzate, delineate, integrate, internamente belle. In confronto a noi, sono più reali.
Anche noi, però, siamo più reali in certi momenti che in altro, più quando siamo in un certo modo piuttosto che in un altro. Sovente le persone dicono di sentirsi più reali quando stanno lavorando con molta concentrazione e attenzione, quando le loro attitudini e capacità sono impegnate con successo; si sentono più reali quando si sentono più creative. Alcune dicono durante l'eccitazione sessuale, altre quando sono lucide e imparano cose nuove. Siamo più reali quando tutte le nostre energie sono focalizzate, la nostra attenzione è concentrata, quando siamo attenti, nel pieno dell'efficienza, e usiamo i nostri (positivi) poteri. Concentrandoci intensamente mettiamo più a fuoco anche noi stessi.
Consideriamo una seconda domanda: quando vi sentite più voi stessi? (È diverso dal chiedere quando vi sentite più un sé, e anche dal chiedere quando vi sentite più vivi). La risposta non sarà esattamente la stessa di quando vi sentite più reali. Le persone si sentono più se stesse quando sono «in contatto» con alcuni aspetti di loro stesse che di solito non sono significativamente presenti alla loro coscienza, quando si lasciano prendere da emozioni inusuali e li integrano  con le parti di sé che conoscono meglio. Camminando pensierosi per un bosco, contemplando il mare, meditando, o durante una conversazione intima con un amico, le parti più profonde di noi sino portate alla consapevolezza e integrate con il resto, e quel che ne risulta è una maggiore serenità del sé, la percezione di un sé più sostanziale.
Questo aumento di (consapevolezza dell') integrazione di parti precedentemente isolate del sé permette di agire con più vigore e con una intensa coincentrazine su una banda piùùampia, e quindi di sentirsi più reali.
La sfera del reale. Di ciò che possiede più di un certo grado di realtà, non coincide con ciò che esiste. I personaggi letterari possono essere reali pur non esistendo; le cose esistenti possono avere solo il grado minimo di realtà richiesto per esistere. È possibile situare il limite inferiore della realtà al livello dell'esistenza; niente di ciò che è meno vivido e nitido di ciò che esiste potrà essere definito reale.. Ma la realtà ha diversi gradi, e la realtà che qui ci interessa particolarmente sta al di sopra di questo limite inferiore minimo.
Secondo questa concezione, la realtà ha molti aspetti; esistono varie dimensioni che possono conferire un più alto grado di realtà. Avere una posizione o un punteggio superiore in una di tali dimensioni (ferma restando la posizione sulle altre dimensioni in questione) significa avere un più alto gradi di realtà. Queste altre dimensioni possono avere a che fare con la chiarezza della messa a fuoco e la vivacità dell'organizzazione, ma non si limitano a questo. Abbiamo già citato la bellezza a proposito delle opere d'arte, più una cosa è bella, più ha realtà. Un'altra dimensione della realtà è, penso, il (maggior) valore. Più è grande il valore intrinseco di una cosa, più questa ha realtà. Anche una maggiore profondità conferisce più realtà, come una maggiore perfezione e una maggiore espressività. Avremo modo di indagare queste e altre dimensioni, e la struttura secondo cui si combinano, in seguito.
Quel che vorrei dire è che voi siete la vostra realtà. La nostra identità consiste in quelle caratteristiche, in quegli aspetti e in quelle attività che non solo esistono, ma sono anche (più) reali. Quanto più una caratteristica è reale, tanto più ha peso nella nostra identità. In parte la nostra realtà consiste nei valori che perseguiamo e a cui ci atteniamo, nella vivacità, intensità e integrazione con cui li incarniamo. Ma i nostri valori da soli, perfino il nostro stesso valore, non sono tutta la nostra realtà; la nozione di realtà in generale include anche dimensioni diverse dal valore. Quando dico che noi siamo la nostra realtà, voglio dire che la sostanza del sé è la realtà che esso riesce ad acquisire. L'immortalità potrebbe consistere in questo: che ciò che sopravvive alla morte è la nostra realtà, qualsivoglia realtà siamo riusciti a realizzare.

Al termine di questa citazione (chi voglia farsi un'idea completa del pensiero di questo Autore, tuttavia, deve proseguire nella lettura integrale del suo volume), non possiamo fare a meno di notare che la problematica dell'«essere più reali» sembra impostata dal Nozick più su un terreno di tipo psicologico, che propriamente filosofico.
Sembra - cioè - che, per lui, la tensione verso un maggiore grado realtà da parte degli esseri umani si debba intendere come la conquista di un maggiore grado di coerenza, incisività, efficacia: ossia le caratteristiche di un personaggio letterario ben riuscito (ancora Pirandello!); il quale, se è davvero ben riuscito, risulta più reale di una «semplice» persona, che ha il torto di essere fatta anche di contraddizioni e debolezze.
A noi sembra, invece, che lo sforzo di divenire più reali, che dovrebbe far parte del nostro sforzo complessivo di essere più noi stessi, non vada inteso tanto in senso psicologico, quanto in senso ontologico. O meglio, il maggior grado di realtà psicologica passa attraverso un maggior grado di autoconoscenza e autorealizzazione dell'io: ma questo è solo il primo gradino.
La fase successiva consiste nello sforzo di dare maggiore realtà alla nostra natura di esseri umani in quanto tale; ossia nell'essere fedeli al compito che ci è stato dato, di realizzare in noi stessi il principio della nostra umanità: ovvero nel cercare una risposta radicale a una radicale domanda di senso, che è costitutiva del nostro essere.
E noi, in quanto esseri umani, siamo questa radicale domanda; e tanto più siamo uomini, quanto più siamo in grado di porcela con chiarezza, e quanto più siamo disposti a metterci in giuoco per dare ad essa una risposta.
L'ultimo gradino del processo ascendente (l'ultimo per modo di dire: non c'è un «ultimo» gradino nella scalata dell'evoluzione spirituale) consiste nella scoperta, gioiosa e sconvolgente - e che può solo essere oggetto di un sofferto percorso personale e solitario, non già di una semplice applicazione di ricette preconfezionate - che noi siamo sia la domanda, che la risposta; e che la risposta, quindi, è già in noi, anzi, era in noi ab initio, ma non riconosciuta e non espressa.
Noi, infatti, siamo già nell'Essere: questa è la nostra gloria, la nostra bellezza; questo è il senso ultimo del nostro esistere - e anche del nostro soffrire, inciampare, cadere e rialzarci.
Noi siamo già nell'Essere, perché il nostro essere ne è una scintilla e, al tempo stesso, una viva testimonianza.
A noi sta solo la scelta se vogliamo fare in modo che esso sia una testimonianza di luce, oppure di opacità e di tenebra.