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Gelmini, no… Gelmini, sì… Noi sì che abbiamo cultura… da vendere

di Francesco Boco - 23/10/2008

 

 

 

 

“Il Sapere non è mercanzia, Gelmini e Tremonti vi spazzeremo via”.

 

 

E’ una delle tante voci che si sollevano dai cortei degli ultimi giorni. La protesta del 2008 fa il verso ai sessantottini dilagandosi a macchia d’olio. Milano, Firenze, Napoli, Torino, un fronte comune al grido “No 133″. La situazione dell’università italiana è tragica ma dopo la riforma scolastica è tragi-comica.

 

 

Il primo comma dell’art. 34 della Costituzione garantisce che “la scuola è aperta a tutti”, il terzo comma afferma “i capaci e i meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi”.

 

 

I punti salienti della legge 133 sono:

 

 

1. riduzione del FFO
2. blocco turn over al 20%
3. possibilità per le università di diventare fondazioni private.

 

 

Questo non sembra un paradosso?
L’istruzione è diventata un paradosso?

 

 

Ma andiamo con ordine. I finanziamenti al FFO (Fondo di Finanziamento Ordinario) saranno decurtati di circa il 25% entro il 2012. Lo Stato per far fronte all’improvvisa mancanza di fondi darà la possibilità (diciamo pure una scelta obbligata) alle università di trasformarsi in fondazioni private.
Si tratta della possibilità da parte delle aziende di investire una porzione degli utili nelle università acquisendo il potere decisionale e amministrativo.

 

 

Le conseguenze di questa trasformazione sono preoccupanti: l’azienda che investe il proprio utile inevitabilmente dovrà ricavarne un guadagno, questo le permetterà di intaccare la libertà della ricerca universitaria rendendola dipendente dagli interessi di mercato. Inoltre, con il passaggio a fondazioni private, le università potranno chiedere qualsiasi cifra agli studenti senza dover rispondere a nessun tetto prefissato portando, in breve tempo, l’istruzione ad una brutta copia del modello anglosassone.

 

 

Questo nella totale non curanza dell’art. 33 della Costituzione secondo cui “L’arte e la scienza sono libere e libero ne è l’insegnamento”. Ma, soprattutto, la costituzione di università di serie A (frequentate dai pochi ricchi) e di serie B lede un principio ancor più fondamentale, quello di eguaglianza e pari dignità tra i cittadini. Sempre la stessa legge impone il blocco del turn over al 20% il che vuol dire un’assunzione ogni cinque pensionamenti. Ma facciamoci pure beffa del ricambio generazionale o dell’aggravamento del precariato, di tutta una classe sociale formata da ricercatori e dottorandi che raggiungeranno prima l’età pensionabile che l’assunzione. La riduzione del numero dei docenti a questo punto è palese a meno che la matematica non diventi un’opinione. E se i docenti vengono meno che fine faranno i corsi di laurea?
Aboliamo pure quelli che ci sembrano inutili, a chi importa delle inclinazioni, dei desideri, delle ambizioni, del futuro degli studenti? Continuiamo a nasconderci dietro la retorica del “Questa legge mette al centro lo studente”, certo, al centro di un marasma scolastico.

 

 

Eppure da questa legge qualcosa di buono di può tirar fuori, non assisteremo più alla fuga di cervelli, ora avremo direttamente l’omicidio di cervelli.

 

 

Angela Addorisio

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Un nuovo 68?

 

 

La nostalgia è una brutta bestia. Colpisce soprattutto chi ha rimpianti, chi nella sua giovinezza non ha realizzato ciò che voleva, magari per mancanza di coraggio o perché non ha saputo cogliere l’attimo fuggente. Comunque sia, la recenti proteste di studenti universitari che sembrano movimentare la vita accademica nostrana, hanno in alcuni solleticato i ricordi dei “begli anni andati”, si è insomma iniziato a ipotizzare un nuovo ‘68, una nuova stagione di ribellismo creativo.

 

 

I dati numerici parlano di manifestazioni non molto partecipate, a dire il vero, e la presunta politicizzazione degli studenti è pressoché inesistente. Al di là delle cifre, il fatto significativo è che comunque ci sono giovani disposti a ribellarsi e a scendere in piazza. Ma per cosa? La risposta sarà, nella maggioranza dei casi: «non lo so, sono qui con i miei amici». Per ribellarsi, scrive Sofri, non c’è bisogno di un motivo e per scendere in piazza non ci vogliono giustificazioni razionali.

 

 

Gli studenti che ancora hanno un’oscura e poco chiarificata voglia di scendere in strada e fare casino dimostrano che, nonostante la lobotomizzazione televisiva e il livellamento educativo, c’è ancora una faglia vitale, ancora una risorgiva di creatività e di entusiasmo energetico. Ha ragione chi dice che, si dovesse realmente trattare di una nuova stagione di proteste giovanili, non bisogna lasciare alla sinistra reazionaria l’occasione di metterci il cappello, in una manovra volta a frenare e neutralizzare ogni vitalismo. La spontaneità di chi si ribella, di chi ne ha piene le palle della routine, indica che speranze di libertà e responsabilità ancora esistono. Forse finirà il tempo delle deleghe e del grigiore clientelare.

 

 

La sinistra anti-vitalistica sta già cercando di soffiare sulla situazione, probabilmente in vista della superflua manifestazione del 25 ottobre. I giornali di area fanno eco, ma sbagliano due volte: nel parlare di numeri e consensi politici inesistenti nella realtà e, soprattutto, sbagliano perché nel tentativo di farne una questione partitica e politica nel senso peggiore, dimostrano il chiaro intento di chiudere le prospettive, se mai ce ne fossero, degli studenti universitari. Dimostrano cioè di voler ridurre la voglia di ribellarsi a semplice opposizione. Già si sentono dichiarazioni di ragazzi scesi a manifestare “contro la Gelmini” e “contro i tagli alle università”. Tutto ciò è patetico e sconfortante. Chi si allinei a un tale modo di concepire la protesta studentesca ne depotenzia le possibilità, ne frena l’istinto vitale genuino. Così s’intrappolano le energie migliori, così le si inscatola ad uso e consumo di personaggi interessati solo al proprio tornaconto e creare un qualche fastidio al Governo.

 

 

Tralasciando il fatto che gli sprechi in sede universitaria, come evidenziato da più parti, sono sconcertanti e vanno dunque frenati, l’unica possibilità che questo ribellismo studentesco ha di durare nel tempo e portare frutti è quella di farsi promotore di una idea rivoluzionaria della didattica e della società. Una protesta “per”, non contro.

 

 

Martin Heidegger osservava le proteste sessantottine e vi scorgeva lo stesso spirito che negli anni della Rivoluzione Conservatrice aveva animato lui e i suoi camerati. Una voglia di rinnovamento profondo, dai risvolti comunitari e spirituali assieme. La proposta del filosofo tedesco fu dunque quella di rendere meno rigida la gerarchia universitaria, con maggiore compartecipazione degli studenti e campi estivi in cui professori e studenti potessero davvero condividere conoscenze insieme.

 

 

Fuori da ogni ipocrisia e sogno utopico, se queste energie irrazionali e sanamente vitali produrranno un ribellismo di un qualche interesse, sarà solo perché alle parole d’ordine di partito si preferiranno la spontaneità creativa e l’impulso energetico al rinnovamento.

 

 

Sempre che, questi studenti, non smettano di protestare perché devono andare a pranzo.

 

 

 

 

 

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