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Guido Miglioli, le leghe bianche e il movimento contadino della Valle Padana

di Francesco Lamendola - 25/10/2008


Il movimento contadino italiano comincia a organizzarsi nell'ultimo decennio del XIX secolo,  quando già quello operaio ha iniziato a darsi una propria fisionomia e ad impostare i propri obiettivi di lotta nel quadro della società post-unitaria.
La nascita del movimento contadino è stata il risultato delle profonde trasformazioni verificatesi nelle classi rurali, mentre le divisioni esistenti all'interno di esso ha avuto un ruolo essenziale nel favorire l'egemonia dei «bianchi», in un mondo agrario ove la cultura cattolica era largamente diffusa e costituiva l'unico, radicato elemento comune fra le diverse situazioni dei modi di produzione esistenti nella Penisola: dalla moderna agricoltura capitalista delle aziende agricole del Nord, alla diffusa mezzadria del Centro, al latifondo ancora largamente presente nel Sud dell'Italia e nelle isole.
La figura più emblematica del movimento agrario cattolico della Valle Padana fu, senza dubbio, quella del cremonese Guido Miglioli (Pozzaglia di Cremona, 1879-1954), grande protagonista della organizzazione delle leghe bianche e delle lotte sociali dei contadini.
A partire dal 1904 egli si impegnò attivamente nell'attività politica e sindacale a favore delle classi rurali, animato dal desiderio di riscattarle da una condizione di povertà e sfruttamento quasi intollerabile, come egli stesso ha poi ricordato (cit. in E. Bonifazi - A. Pellegrino, Società e democrazia, Bulgarini Editore, Firenze, 1992, p. 220):

«Si accese in me quell'appassionato desiderio di battaglia fra i contadini cremonesi, che era rivolto a sollevarli, colla organizzazione e coll'azione, da un deplorevole stato di servitù a più umane condizioni di lavoro e di vita».

Miglioli era persuaso dell'importanza determinante dei contadini nella vita politica del Paese ed era contrario ad ogni divisione al loro interno, ritenendo che le ragioni dell'unione dovessero prevalere affinché potessero far sentire con più forza la loro voce nel contesto della società italiana.
A tal fine, pensava che fosse necessario educare intellettualmente e moralmente le masse contadine, mediante iniziative di tipo educativo e culturale; e rafforzare l'organizzazione delle leghe, sviluppando cooperative, casse di mutuo soccorso e opere di previdenza.
Eletto deputato in Parlamento nel 1913, interpretò il diffuso desiderio di pace da parte del mondo  contadino, battendosi strenuamente per la neutralità, allo scoppio della prima guerra mondiale; cosa che gli attirò le ire furibonde dei nazionalisti, che non esitarono a tacciarlo dell'epiteto infamante di "disfattismo" Al termine della guerra, nel 1918, egli si adoperò affinché venissero presi provvedimenti per il reinserimento dei soldati smobilitati nella società e venisse affrontato il nodo improrogabile delle riforme, a cominciare da quella agraria.
Il punto più alto del disegno sindacale migliolino venne raggiunto con la firma del cosiddetto "Lodo Bianchi", il 10 agosto del 1921, dopo una dura stagione di lotte che videro anche lo scontro fisico tra le leghe bianche e i loro avversari agrari.
Durante il "biennio rosso", mentre le campagne erano agitate dalle occupazioni spontanee da parte dei braccianti e, poi, dalle prime violenze squadriste, Miglioli non esitò a far proprio lo slogan comunista "la terra ai contadini".
Fu tra i fondatori del partito Popolare di don Sturzo e cercò, senza successo, di far sì che esso prendesse il nome di Partito del proletariato cristiano, proprio per scoraggiare l'adesione dei cattolici conservatori, e per sottolineare la necessità di una linea d'azione comune con le forze popolari di sinistra.
Egli, pertanto, fu il più rigoroso e coerente interprete dell'anima "di sinistra" del movimento cattolico, quella ispirata all'esperienza della democrazia cristiana di Romolo Murri, e nettamente contraria alle tendenze conservatrici e clericali, le quali volevano spingere i cattolici nella direzione opposta.
Davanti al dilagare del fascismo agrario, Miglioli si batté con altrettanto fervore perché si giungesse a un patto d'azione comune tra le leghe bianche e le leghe rosse, tra le amministrazioni comunali cattoliche e quelle socialiste, onde fronteggiare il pericolo che le accomunava.
Egli ebbe anche un incontro con Antonio Gramsci e Giuseppe Di Vittorio, coi quali convenne che l'unica linea di resistenza possibile era quella dell'unità sindacale di tutte le forze antifasciste. Tale convergenza sarebbe poi sfociata  nel patto d'intesa del 1° maggio 1922 fra cattolici e socialisti cremonesi: un atto politico di eccezionale importanza, che, però, aveva il torto di giungere quando ormai il fascismo era già in condizioni di spazzare via ogni forma di resistenza organizzata. Se l'unità d'azione sindacale fra cattolici e comunisti fosse stata raggiunta prima, forse le cose sarebbero andate diversamente.
Del resto, va notato che il patto era destinato a rimanere sulla carta, perché le direzioni di entrambi i partiti, il cattolico e i socialista, si affrettarono a sconfessarlo ufficialmente.
Espulso, nel gennaio 1925 - cioè, all'epoca della "dittatura a viso aperto" e delle leggi speciali fasciste contro le opposizioni - dal partito Popolare con la motivazione di aver sostenuto la lotta di classe, in contrasto con la dottrina cristiano-sociale  (ma, in realtà, per ingraziarsi la clemenza di Mussolini: gesto inutile, che non salvò quel partito dal destino di tutte le forze politiche non fasciste).
Costretto a lasciare Cremona per Milano, ove subì varie aggressioni fasciste che per poco non gli costarono la vita, espatriò clandestinamente in Svizzera la notte di Natale del 1926, dopo che, rientrato da un primo viaggio in Unione Sovietica, era stato spiccato un mandato di cattura contro di lui in seguito all'attentato subito da Mussolini a Bologna il 31 ottobre di quell'anno.
Cominciò, a quel punto, il lungo esilio di Guido Miglioli, che vide spostarsi dall'U.R.S.S. (ove ebbe modo di studiare l'agricoltura sovietica, quale collaboratore della Confederazione Italiana del lavoro), a Parigi (ove fu uno dei capi dell'antifascismo all'estero), a molti altri Paesi d'Europa; finché, arrestato dalla Gestapo nella capitale francese, fu rispedito in Italia, ove subì la condanna al confino.
Partecipò poi alla Resistenza e vide il nascere di un nuovo partito cattolico, la Democrazia Cristiana, molto diverso da quello che egli avrebbe auspicato; per cui ne rimase al di fuori, in posizione severamente critica, accettando dignitosamente un isolamento quasi completo.

Scrivono Bonifazi e pellegrino nel testo citato (pp. 222-223):

«Il migliolismo è stato sempre definito un "movimento contadino",  ma la definizione sembra quanto meno unilaterale, poiché esso è stato particolarmente un "movimento del proletariato agricolo" sviluppatosi nell'alto cremonese e nel cremasco. Ciò non vuol dire che il movimento ignorasse i contadini - coltivatori diretti, affittuari e proprietari - nei confronti dei quali ha sempre avuto una posizione di estrema attenzione. Nei primi del novecento l'azione delle leghe bianche si sviluppò soprattutto nell'ambito contrattuale, per cui la conquista e il miglioramento dei primi patti colonici  di zona furono gli obiettivi quasi esclusivi del movimento cattolico, che in questa azione si trovò spesso in conflitto con la  gerarchia ecclesiastica, che non ne approvava gli eccessi classisti.
«Il motivo centrale del conflitto fra cattolici e socialisti risiedeva essenzialmente in una diversa impostazione di politica contrattuale  nelle campagne: i cattolici si battevano  per l'aumento del salario in natura e per la compartecipazione al fine di legare i lavoratori alla terra e portare avanti ka lotta per la trasformazione dei rapporti contrattuali e di proprietà; i socialisti, al contrario, si battevano per "proletarizzazione" completa dei lavoratori agricoli dipendenti e per sopprimere ogni forma di compartecipazione, considerando questa loro linea coerente con una visione collettivistica dell'organizzazione produttiva dell'agricoltura. Tuttavia il nucleo centrale del pensiero migliolino sulla riforma agraria maturò a partire dal 1919 quando, dopo la conquista delle otto ore di lavoro per i salariati e i braccianti cremonesi, egli lanciò la sua piattaforma per la riforma fondata sulla parola d'ordine: "La terra a chi la lavora". In realtà la piattaforma elaborata da Miglioli  non andava al di là della rivendicazione di una forma di associazione tra lavoratori e conduttori delle aziende agricole, ma il suo significato politico va collocato in quel momento storico preciso. Miglioli articola la sua piattaforma nei seguenti punti:
1. che l'assunzione e il licenziamento dei contadini nel fondo sia devoluta ad un ente superiore;
2. che venga determinato il numero dei coloni in ragione del perticato, con esclusione dal lavoro delle donne e dei fanciulli:;
3. che venga affidata ad un ente la facoltà di fissare l'equo canone di affitto delle terre, di assumere il conduttore stesso, di valutare il capitale che gli uscenti saranno obbligati a lasciare sul fondo;
4. che siano regolati con appositi patti i rapporti tra il conduttore del fondo e i coloni e i compensi fissi spettanti a ciascuno di essi;
5. che siano fissate le norme per la ripartizione dell'utile finale effettivo fra coloro che hanno prestato pera nell'azienda.
«Miglioli considerava questo rapporto associativo, una tappa intermedia verso la conquista della terra. Per raggiungere questo obiettivo, egli sapeva che era necessario partire da una realistica valutazione della situazione politica e dei rapporti delle forze in campo. La conquista della terra doveva essere proiettata nella prospettiva di un rivolgimento politico generale che portasse le forze proletarie, cattoliche e socialiste, finalmente unite, alla direzione dello stato.»


Riteniamo di fare cosa utile, per una miglior comprensione della figura e dell'opera di Guidoi Miglioli, riportare per intero il testamento spirituale dell'uomo politico cremonese, pubblicato da F. Lenori in No alla guerra, ma terra! pp. 270-75, e citato nel libro di Mauro Felizetti Guido Miglioli testimone di pace, Agrilavoro Edizioni, Roma, 1999, pp. 127-131).

«…In terzo luogo è necessario che io spenda alcune parole per chiarire, a cloro che non l'avessero chiara, la mia posizione sul problema della pace, che una parte della D. C., afferma sia troppo legata a quella dei comunisti e socialisti. Io non dico che la politica e la storia si identificano, ma la politica si fa anche conoscendo la storia. Basterebbe una, sia pure modesta, ricerca storica, magari attraverso gli atti parlamentari che sono alla portata di tutti, per ridicolizzare tale obiezione. Io ho sempre sostenuto la pace, da sempre, perché credo, come cristiano e come rappresentante del mondo contadino nel bene primario e supremo della pace. Mi sono battuto contro la guerra di Libia, mi sono battuto ala Camera per la pace e contro l'intervento anche in un momento storico in cui il mio isolamento era più grande di quello attuale, nel momento in cui l'Italia entrava in guerra contro l'Austria e l'Ungheria. Ero in tale posizione di minoranza a difendere la pace da sembrare quasi anacronistico, quando anche molti degli attuali dirigenti del movimento operaio erano interventisti! Tutta la mia azione all'estero, anche lì spesso del tutto isolata, fu in favore della pace: ho combattuto la guerra contro l'Abissinia, sono stato perseguitato in tutti i paesi d'Europa per aver combattuto contro la guerra hitleriana.
«Quando sono entrato nel Fronte democratico popolare, ci sono entrato alla testa del Movimento cristiano per la pace, in quella che mi sembrava allora una formula politica di una certa efficacia per  combattere il fronte conservatore coagulato attorno alla D. C. e difendere proprio la unità delle masse popolari come base della pace. Ho fatto degli errori? Certamente ne ho fatti; ma non quello che alcuni dirigenti democristiani mi imputano di aver fatto, ossia di aver sostenuto l'alleanza delle forze popolari cattoliche con i socialisti e comunisti. Tale alleanza, l'ho detto e lo ripeto, è un fatto politico e come tale va vista. Io l'ho sostenuta nell'interesse delle forze popolari, la D. C. l'ha sostenuta anch'essa nel dopoguerra, ma solo per il breve periodo che era indispensabile per non fare affondare la borghesia italiana.
«Ho sbagliato per quanto riguarda il Fronte a non accorgermi a sufficienza che tale formazione era sorta prevalentemente dall'alto e non da un moto popolare, che univa forze eterogenee socialdemocratiche e marxiste su un piano esclusivamente elettorale e che molti settarismi avrebbero impedito una sia pur modesta rappresentanza parlamentare alle forze popolari cattoliche.
In sostanza i principi che hanno sostenuto tutta la mia lunga azione sono stati i seguenti: 1) senza una reale unità d'azione di tutte le forze contadine ed operaie è impossibile una seria trasformazione sociale; 2), senza un concreto, anche se operativo, incontro , fra il movimento popolare cattolico e quello socialista, non è possibile che in Italia si possa stabilmente creare un serio sviluppo democratico. È fatale che un incontro fa le forse popolari cattoliche e quelle marxiste avvenga in Italia, e avverrà, l'importante è che esso non sia legato a formali esperienze di vertice; 3), la pace, che sia il frutto di una vera unità popolare, è supremo bene per tutti e per i cattolici un dovere profondo. Essa oggi però non è raggiungibile se non si rompono gli schemi della guerra fredda e non si arriva ad una pacifica distensione comune. Perciò il mio appello, se io un appello posso fare, vuole essere in questi limiti: cercate le strade di questa unità di lotta delle forze popolari, cercatele specialmente fra i contadini che sono la base della democrazia e della pace. Le forme di questa lotta debbono essere create con coraggio e senza personalismi e falsi pudori, bisogna avere il coraggio di essere in minoranza per anni.
«Spesso sono le minoranze che aiutano le grandi masse a fare la storia.
Io vorrei ricordare, con l'autorità di chi ormai è più vicino al silenzio che alle parole del tempo, a tanti che ora sono nella D. C. e che hanno con me combattuto e sofferto, come questi ideali, per i quali hanno lottato e sofferto, valgono il rischio di mettere in crisi certe strutture interne di partito e di governo.
«Che cosa ha impedito alle masse popolari cattoliche, tropo spesso, di dare il loro contributo alla evoluzione democratica del nostro paese? La utilizzazione di residue, storicamente comprensibili difficoltà di dialogo con il mondo laico per creare il falso mito dell'unità dei cattolici e per impedire o fare rapidamente tramontare una vera politica di alleanze.
Ho già detto come l'unità dei cattolici non sia mai realmente esistita. Epperò capisco come la gerarchia ecclesiastica possa desiderare che di fronte ai grandi problemi religiosi ed etici, anche nella situazione presente, i cattolici siano uniti. L'Italia è poi in una particolarissima situazione da questo punto di vista, per evidenti motivi. Ma per questo ci sono altri organismi, dall'A.C.I. alle A.C.L.I. Io credo però che il movimento cattolico in politica non possa uscire dai precisi limiti posti dal fatto di essere un movimento politico.
«Storicamente la prima D. C., e in particolare il Partito Popolare Italiano hanno segnato dall'inserimento dei cattolici come tali nello Stato italiano. Sempre dal punto di vista storico l'attuale D. C. doveva segnare, dopo la lotta antifascista e la Resistenza con la Costituente, il reinserimento del movimento cattolico nel moto di ricostruzione di una democrazia in Italia. In politica ci sono evidentemente molto spesso obiettivi che, esclusivamente politici nella loro immediatezza, discendono anche da impostazioni teoriche ma che hanno dei limiti in situazioni ideologiche precise. L'unità dei cattolici in politica non può avere, in nessun modo,  al di là di occasionali situazioni politiche, basi ideologiche.  Si tratta solo di un fatto di tattica politica. I capi d'industria e gli operai potranno anche contingentemente trovare degli interessi comuni quando si deve abbattere il fascismo, come potranno, forse, sul piano ideologico avere sentimenti religiosi comuni da difendere, ma gli interessi politici concreti comuni non possono essere che di breve durata e gli interessi religiosi non possono accomunarli che in particolari determinate situazioni. Uno stesso partito non può riunire stabilmente latifondisti e braccianti solo perché sono cattolici.
«Affermare questa unità significa, oltre il limite contingente ed oltre la occasionale eventuale buona fede, volersi servire di falsi scopi ideologici per frenare il moto di rinnovamento popolare.
Per quanto riguarda le alleanze, esse, giova ripeterlo,  hanno un limite ideologico e uno politico. Palare di incontri ideologici tra cattolici  e marxisti è entro certi limiti astratto (oltre un civile "discorso"»), pericoloso e improduttivo. Questo non significa  che ci si debba negare la possibilità di concrete alleanze politiche quando servono. Tanto è vero che  questo è sistematicamente avvenuto quando era impossibile non essere travolti senza l'unità di tutte le masse popolari e avverrà a non lunga scadenza finalmente quando lo imporrà la politica delle alleanze. Quanto poi alla passiva accettazione  per ragioni ideologiche da parte di un cattolico dell'interclassismo e alla impossibilità della accettazione, sempre per un cattolico, del metodo della lotta di classe, a parte il fatto che molto spesso questi termini vengono usati impropriamente e che ci sono sempre più nella politica e nell'ideologia dei movimenti socialisti, profonde revisioni di questa tematica, bisogna comunque affermare che il problema così è male posto. L'accettazione, da parte di un cattolico dell'interclassismo e la non accettazione della lotta di classe non significa, comunque, che la collaborazione di classe debba avvenire nell'interno dello stesso partito. In Inghilterra ci sono dei protestanti conservatori e dei protestanti progressisti: credo che siano tutti contro la lotta di classe e per la collaborazione tra le classi ma non penserebbero mai di militare nello stesso partito: gli uni sono conservatori e gli altri laburisti. Il fatto che un cattolico che accetti la collaborazione tra le classi o l'interclassismo debba, se è bracciante,  avere gli stessi interessi economici e politici di un latifondista e militare nello stesso partito, è semplicemente insostenibile. Bisogna perciò affrontare con coraggio la politica di alleanze.
«Certo la difesa della pace porterà fatalmente il mondo cattolico e quello socialista a riproporre, al di à del tatticismo, problemi di collaborazione, come li pose la lotta al fascismo che fu risolta solo con l'unità d'azione di tutte le masse popolari. Certo la Chiesa, vi sono già fin d'ora segni non dubbi, non potrà non ricercare tutte quelle strade che permettano fecondi incontri anche con i non cattolici, e questo avrà profonde ripercussioni anche in Italia. Ma bisogna preparare i terreno anche con delle testimonianze. Bisogna promuovere e sostenere tutte quelle forze cattoliche che, usate da una politica moderata, vogliono viceversa dare nuove strutture a un nuovo Stato.
Io capisco che è difficile ma so che è necessario.
«Il contributo delle forze popolari cattoliche, specie contadine, è indispensabile e bisogna trovare formule politiche perché esso ci sia. Ma la D. C. non potrà che avere, sempre più,  una "linea" clerico-moderata.
È indispensabile che non si accetti in nome di un falso interclassismo senza limiti e di una falsa unità di tutti i cattolici, l'asservimento delle forze popolari cristiane ad una politica di conservazione e non si chieda ai contadini cattolici di rinunciare a lotte unitarie contadine. Bisogna essere onesti con se stessi. È inutile ammantare con false coperture ideologiche problemi chiaramente politici. «Per le forze popolari contadine la collaborazione con le altre forze popolari è ineluttabile se si vuol fare una certa azione politica.  In Italia prima o poi si dovrà collaborare col movimento proletario e con la sua avanguardia se si vorrà uscire, come si dovrà, dalle rabberciate strutture di uno Stato sostanzialmente retrivo e conservatore. Non si tratta di promuovere solo discorsi teorici sulla compatibilità o sulle tolleranze, a livello ideologico, tra cattolicesimo e marxismo. Si tratta di studiare quando e in che modo dovremo riproporre per tempo, e non a rimorchio, quelle alleanze che abbiamo già fatto in stato di necessità. I C.L.N., la guerra di liberazione, la Costituzione, le abbiamo fatte con la collaborazione con i socialcomunisti. Senza di loro non le avremmo potute fare. Allora non parliamo su precisi temi politici di incompatibilità di principio solo quando fa comodo a certe determinate  forze politiche.- Si tratta di vedere  in una chiara e responsabile visione politica e non a livello di veti astratti con chi si deve collaborare e come, per fare in Italia una democrazia reale e per inserire sempre più le forze popolari, specie quelle contadine, nello Stato.
«Del resto anche molti settarismi e certi miti nel campo marxista dovranno prima o poi cadere.
I problemi dell'agricoltura nei paesi socialisti si vanno avviando verso situazioni critiche. È molto che io lo vado dicendo e parlando recentemente con Kolarov, nel mio ultimo viaggio in Europa orientale, ne ho avuto conferma.
L'Unione Sovietica avrà complessi problemi interni da risolvere per suo conto e darà certo non poche possibilità di incontro agli Stati Uniti quando questi si accorgeranno della assurdità di proseguire negli schemi folli della guerra fredda.
E allora? Noi cattolici rimarremo sempre a rimorchio, in Italia, sia in politica interna che in politica estera? Invece di aiutare la Chiesa ci faremo, come sempre, precedere da essa anche sul terreno contingente sfruttando le illuminate intuizioni di Chi la guida?
Grandi doveri e grandi responsabilità pesano su chi in qualsiasi modo e in qualsiasi momento ha rappresentato o rappresenta forze del movimento cattolico e si è servito o si serve del cristianesimo come bandiera politica.
«Il cristianesimo non deve essere una bandiera politica, ma le nostre lotte, le lotte fatte dalle avanguardie cristiane per inserire le masse cattoliche nello Stato non debbono essere tradite.
Invece di affondare nel sottogoverno e nell'opportunismo quotidiano si scuotano quanti pur militando  nella D. C. si sentono profondamente motivati dal bisogno di rappresentare quello che è ancor oggi il movimento popolare cristiano. Invece di fuggire nell'assenteismo o di rifugiarsi in posizioni politiche di comodo o avventate, si rimettano con coraggio a lavorare quanti nella sinistra cristiana credettero e lavorarono. Le forme contingenti di lotta le crea la politica quotidiana quando si hanno chiari doveri e obiettivi.
«Io ripeto quello che dissi molti anni addietro: l'antitesi alla guerra è una "nuova ", e lo ripeterò anche quando non potrò più come ora neanche parlare sottovoce mas solo testimoniare con la mia esperienza ormai compiuta.»

Da queste righe, limpide e dignitose, emergono con forza, proprio perché non gridate, tutta la coerenza e la capacità profetica di un uomo politico (ma chissà se avrebbe gradito la definizione di "uomo politico") che non esitò a percorrere per tutta la vita un cammino erto e solitario, dominato dal senso del dovere e dalla volontà di inserire le masse popolari, specialmente contadine, nello Stato italiano, rispetto al quale erano rimaste in gran parte estranee; contribuendo, così, nel medesimo, alla loro emancipazione e alla democratizzazione dell'intera società.
Nella D. C., come risulta chiaramente dalle sue parole, egli vedeva un doppio pericolo: quello di un interclassismo ipocrita, teso a mascherare la radicale diversità di obiettivi perseguiti da lavoratori e padroni; e quello di una religiosità strumentale, utilizzata come bandiera all'ombra della quale perpetuare una autentica rottura all'interno delle classi lavoratrici,
Per Miglioli, che - da cristiano - rifiutava la lotta di classe, ma che - da interprete delle esigenze di riscatto del mondo contadino - desiderava l'unità d'azione sindacale di tutti i lavoratori, cattolici e marxisti, la D. C., così come si era venuta configurando nel secondo dopoguerra, non avrebbe fatto altro che contribuire alla spaccatura delle forze popolari e al perpetuarsi di aspetti antidemocratici esistenti in uno Stato le cui basi sociali erano ristrette, perché nutriva una congenita diffidenza verso l'inserimento delle masse nella vita pubblica e perseguiva la conservazione di privilegi e forme di sottogoverno da parte di una classe politica staccata dal vivo tessuto sociale.
Era una visione, la sua, dotata di straordinaria lungimiranza, che nasceva da un'acuta analisi della realtà italiana e dalla concreta esperienza di una intera vita spesa nel perseguimento dei propri ideali: dalle lotte sindacali delle leghe bianche durante l'età giolittiana, ai tempi difficili della prima guerra mondiale, alla crisi dello Stato liberale e all'avvento del fascismo, attraverso la ventennale opposizione alla dittatura di Mussolini e la tragedia della seconda guerra mondiale.
Quella di Miglioli era una generosa utopia: non quella, che si sarebbe mostrata caduca, del cattocomunismo, ma quella di un Paese che abbatte gli inutili steccati ideologici e nel quale le vive forze sociali trovano le vie del dialogo, nel comune sforzo - e sia pure dialettico - di dare delle risposte concrete ai problemi reali della società, a cominciare da quello del lavoro e delle sue forme organizzative.
Insomma, una concezione onesta, quasi puritana, della politica, fondata su saldi principi morali e ancorata a una visione pacifica e collaborativa della società, rispetto alla quale ultima l'eccessivo peso delle ideologie può solo costituire un fattore di ritardo; così come lo era quella "guerra fredda" che stava scavando un solco di divisione nella classe lavoratrice, di cui avrebbero approfittato unicamente le forse della conservazione.
Una concezione  utopistica, anche: come si vede dall'ingenuo paragone con la situazione politica inglese, nella quale protestanti laburisti e protestanti conservatori si confrontano sui temi concreti della società, partendo da diverse esigenze e prospettive sul terreno sociale ed economico; e che mai si sognerebbero di fondersi in un unico partito interclassista, in nome del comune sentimento religioso. Ingenuo, perché la strategia dei capi della Democrazia Cristiana andava in tutt'altra direzione, e perché non teneva conto di tre fattori decisivi, quali la presenza del Vaticano, gli interessi strategici degli Stati Uniti e l'orientamento filosovietico del Partito Comunista Italiano, che rendevano il "caso italiano" decisamente anomalo.

Quando morì, nel 1954, Guido Miglioli era praticamente un sopravvissuto.
Proprio in quegli anni, la rapida industrializzazione del Paese e il boom economico avrebbero seppellito per sempre il suo disegno politico-sindacale: con il mondo contadino avviato a scomparire, la direzione del movimento dei lavoratori sarebbe passata interamente ai ceti operai, e l'Italia avrebbe conosciuto un quarantennio di "democrazia bloccata" fra due opposte intransigenze ideologiche: quella del P.C.I. e quella della D.C., che non avrebbe fatto altro che perpetuare la spaccatura all'interno del mondo del lavoro, sancita dalla nascita della C.I.S.L. (a maggioranza cattolica) e della U.I.L. (a maggioranza repubblicana e socialista) dal corpo della vecchia C.G.I.L., che rimase a maggioranza comunista.
Un sopravvissuto che aveva saputo vedere più lontano degli altri; certo più lontano degli Andreotti, dei Forlani e dei De Mita; e anche, a nostro parere, più lontano dei De Gasperi, dei Fanfani, dei Moro.
Insomma, Miglioli fu un gigante: cosa di cui ancor oggi, a mezzo secolo dalla scomparsa, quasi nessuno s'è accorto, perfino fra gli esponenti della cultura politica di matrice cattolica.
Ma anche questo, in fondo, è normale.
In un mondo di nani, di furbetti, di opportunisti, di corrotti, i giganti passano inosservati.
Sono troppo grandi per entrare nel campo visivo di costoro.