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A Tarutino e a Maloyaroslavez tramonta la stella di Napoleone in Russia

di Francesco Lamendola - 27/10/2008

Napoleone ha battuto Kutusov nella battaglia di Borodino il 7 settembre 1812 (28 agosto secondo il vecchio calendario russo); ma è stata una vittoria di Pirro. I Russi non si sono sbandati, non vi sono stati che pochissimi prigionieri; ancora alla sera, Kutuzov pensava di poter riprendere l'attacco l'indomani, e mandava allo zar Alessandro un bollettino di vittoria. Ma poi, le condizioni dei suoi corpi e il numero altissimo delle perdite lo obbligano a mutare proposito; e, non volendo rischiare la distruzione del proprio esercito in una nuova battaglia, dà ordine di proseguire la ritirata su Mojaisk e Mosca.
Un consiglio di guerra decide la sorte della capitale. Considerazioni morali e di prestigio vorrebbero che essa venga difesa; ma Kutuzov considera suo dovere primario quello di conservare l'efficienza dell'esercito, unico strumento di una possibile rivincita. Viene così deciso l'abbandono di Mosca. Mentre l'esercito prosegue sulla strada di Rjazan, la quasi totalità degli abitanti (190.000 su 200.000) abbandona a sua volta le proprie case. Il 14 settembre vi entra Napoleone, ed ha inizio la vana attesa di ricevere gli ambasciatori russi con la richiesta di pace. La sera stessa dell'ingresso dei Francesi, si scatenano gli incendi, che distruggono gran parte degli edifici (6.500 su un totale di 9.200).
Il 24 è lo stesso Napoleone che, sempre più irrequieto, invia degli ambasciatori ad Alessandro, proponendogli di aprire delle trattative; ma non ottiene risposta. Kutuzov, intanto, aggira Mosca da sud allo scopo di prender posizione di fianco alla Grande Armée. Il suo obiettivo è quello di proteggere la regione di Kaluga e le fabbriche d'armi di Tula; mentre il grosso del suo esercito marcia su Krassnaia-Pakhra, i Francesi credono che egli stia ancora ritirandosi verso Rjazan.  Invece Kutuzov si porta da Krassnaia-Pachra a Tarutino, e vi resta dal 4 al 18 ottobre, procedendo alla ricostituzione delle proprie forze, che risalgono a 120.000 fucili.
Nel frattempo, si scatena la guerriglia partigiana che provoca alla Grande Armée la perdita di ben 30.000 uomini. Tutto intorno a Mosca non è possibile requisire alcuna derrata agricola: il bestiame è stato portato via, i campi sono stati incendiati. La situazione dell'occupante è sempre più critica, mentre l'inverno, inesorabile, si avvicina. Alla fine di ottobre incominciano le gelate; Cosacchi e unità leggere di cavalleria russa attaccano incessantemente le linee di rifornimento dei Francesi. Napoleone è nella più completa ignoranza circa le mosse del suo avversario: da Borodino fino al 26 ottobre, gli viene a mancare pressoché qualsiasi notizia circa i suoi movimenti.

Finalmente, dopo 35 giorni di permanenza a Mosca - o meglio, tra le sue rovine fumanti - Napoleone prende la decisione di iniziare la ritirata, respingendo la proposta del generale Daru di apprestare un grande campo trincerato e di trascorrervi l'inverno. L'imperatore teme i contraccolpi politici a Parigi; sa che, nella propria capitale, la perdita dei collegamenti provocherebbe una sollevazione politica contro di lui; teme, inoltre, che Austria e Prussia profitterebbero del suoi isolamento per capovolgere le alleanze e schierarsi nuovamente contro di lui.
La decisione di partire da Mosca viene presa il 17 ottobre, ma solo il 19 essa viene attuata, con l'ingombro di ben 40.000 carri adibiti al trasporto di viveri, munizioni, dei feriti e delle ricchezze depredate nella capitale russa.
La marcia, che si dirige su Smolensk per la vecchia strada meridionale di Kaluga, è talmente lenta,  che in 5 giorni non vengono percorsi che 100 km. Ma già il nemico ha preceduto l'evacuazione e ha sferrato il primo colpo a Vinkovo, a 8 km. dal villaggio di Tarutino, dove Murat si lascia sorprendere dal ritorno offensivo di Kutuzov.

Uno storico militare contemporaneo, il generale S. Andolenko, nella sua «Storia dell'esercito russo» (titolo originale: «Histoire de l'Armée russe», Flammarion, Paris; traduzione italiana a cura del gen. F. Amico, Sansoni Editore, Firenze, 1969, pp. 189-1919), ha così descritto questo importante fatto d'armi, che segna la prima sconfitta sul campo dell'armata napoleonica:

«Fin dalla caduta di Mosca, Alessandro invia a Kutusov le sue direttive. Mentre l'armata principale  conterrà la Grande Armée, le altre armate, restate isolate sui fianchi, si riuniranno e interdiranno sulla Beresina ogni possibilità di ritirata a Napoleone. Quando le operazioni riprendono, la situazione delle forze è capovolta. Il corpo di Steingel, sbarcato a Riga, porta la destra russa, schierata fra Riga e Poločk, a 60.000 uomini.  La riunione delle armate Tormassov e Čičagov, a 80.000 combattenti. Con i 120.000 uomini di Kutusov, le forze russe raggiungono quindi i 260.000 uomini, ai quali occorre aggiungerne 200.000 della territoriale. Queste forze sono più che il doppio di quelle che restano a Napoleone.
TARUTINO. - "Lo stato di sonnolenza e d'illusione in cui Napoleone sembrava contemplarsi, doveva aver termine il risveglio fu terribile" (Jomini). Il 30 ottobre [in realtà, 18 ottobre secondo il calendario europeo; nota nostra] Kutusov attacca Murat che sorveglia il grosso dei russi. "Murat, troppo fiducioso, non stava in guardia ed i suoi soldati, abituati ad un riposo che consideravano precursore della pace, non pensavano che esso potesse venire turbato" (Jomini). L'azione, ben preparata, è male eseguita. Le colonne perdono la strada, l'azione è scucita, Bennigsen arriva in ritardo, Baggovut è ucciso e i Cosacchi, attratti dal saccheggio dei convogli, non si preoccupano di inseguire. Tuttavia Murat perde 2.500 uccisi, 2.000 prigionieri, 38 cannoni e tutto il carreggio. "Le perdite del nemico sono considerevoli, ma esso mantiene ancora il vantaggio dell'attacco., dei nostri cannoni, della nostra posizione: in altre parole, la vittoria" (De Ségur). L'annunzio di questa battaglia decide Napoleone a lasciare Mosca. Il 31 ottobre la Grande Armée si mette in marcia su Kaluga. "Ci sono quasi tanti veicoli quanti sono i combattenti. Mai esercito moderno offrì un simile spettacolo" (Jomini). Questo movimento viene portato a conoscenza di Kutusov dal partigiano Seslavin. Il maresciallo decide di sopravvanzare Napoleone e di sbarrargli la strada di Kaluga a Maloyaroslavetz.
MALOYAROSLAVETZ. - Il 5 novembre la testa della Grande Armée si presenta a Maloyaroslavetz. Essa è subito attaccata dai Cosacchi di Platov e dal corpo di Dokhturov. Si impegna una sanguinosa battaglia, che durerà 18 ore con un accanimento inaudito. La città è presa e ripresa sete volte e rimane alla fine ai Francesi. "Tuttavia Napoleone non aveva avanzato molto. Kutusov, che aveva preso posizione a qualche distanza di là, sbarrava ancora il passaggio. Si rinunciò al progetto di sfondare verso Kaluga e ci si decise a riprendere la strada di Viazma, l'unica strada che restava ancora aperta" (Jomini). Le conseguenze di questa decisione dovevano essere disastrose. "Compagni miei, vi ricordate il campo funesto in cui si arrestò la conquista del mondo, ove venti anni di vittorie si infransero, ove cominciò la grande rovina della nostra fortuna?" (De Ségur)».

Il conte Philippe-Paul De Ségur, nella sua memorabile «Storia di Napoleone e della Grande Armata nell'anno 1812» (traduzione italiana di Vincenzo Dominici, Istituto Geografico De Agostini, Novara, 1964, pp. 344-49), ha così rievocato la battaglia di Maloyaroslavez, che vide l'eroismo di tanti soldati italiani, per cui dovrebbe essere conosciuta dal nostro pubblico non meno di quella di Nikolajewka, nella seconda guerra mondiale, in cui si prodigarono gli alpini della mitica divisione Julia:

«Il 23 [ottobre], il quartiere imperiale si trovava a Borovsk. Fu, quella, una notte tranquilla per l'imperatore; egli apprese che alle sei di sera, quattro leghe avanti a lui, Delzons e la sua divisione avevano trovato vuoti  Maloiaroslavez e i boschi che la dominano: era una forte posizione, a portata di Kutuzov, ed era l'unico punto nel quale egli avrebbe potuto tagliarci la nuova strada di Kaluga
In un primo tempo, l'imperatore pensò di assicurare quel successo con la propria presenza; fece dare perfino l'ordine di marcia. Si ignora perché poi lo abbia ritirato. Trascorse tutta quella sera a a cavallo, non lontano da Borovsk, sulla sinistra della strada, dalla parte ove supponeva si trovasse Kutuzov. Sotto una fitta pioggia esaminava il terreno come se avesse potuto diventare un campo di battaglia. Il giorno dopo, 24, apprese che il nemico contendeva a Delzons il possesso di Maloiaroslavez. Non ne fu molto scosso, per fiducia nei propri progetti o per incertezza.
Stava dunque uscendo da Borovsk, tardi e senza affrettarsi, quando gli giunse il rumore di un combattimento vivacissimo. Allora si preoccupa, corre a collocarsi su un'altura e si mette in ascolto. I Russi lo avevano forse preceduto? La sua manovra era fallita? Non era stato abbastanza rapido in quella marcia, con la quale si proponeva di oltrepassare il fianco sinistro di Kutuzov?
Dicono, effettivamente, che in tutto quel movimento comparve un po' del torpore che segue solitamente un lungo riposo. Mosca dista da Maloiaroslavez solo centodieci verste; bastavano solo quattro giorni per coprire tale distanza: ce ne vollero sei. L'armata, sovraccarica di viveri e di bottino, era pesante e le strade erano fangose. Si era dovuta sacrificare un'intera giornata per il passaggio del Nara e dei suoi acquitrini e per il riordino dei vari corpi. D'altra parte, sfilando così vicini al nemico, bisognava marciare in file serrate per non offrirgli un fianco troppo esteso. Comunque sia, possiamo datare l'inizio di tutte le nostre sventure da quel ritardo.
Intanto l'imperatore è ancora in ascolto; il rumore aumenta. "È dunque una battaglia?" egli esclama. Ogni scarica gli strazia il cuore, giacché per lui non si tratta più di conquistare, ma di conservare; egli sollecita Davout che lo segue; ma quel maresciallo giunse in prossimità del campo di battaglia solo sul fare della notte, quando il fuoco stava calando e tutto era ormai concluso.
L'imperatore assistette alla fine del combattimento, ma non poté soccorrere il viceré [Eugéne de Beauharnais]. Una banda di cosacchi di Tver fu sul punto di catturare, a poca distanza da lui, uno dei suoi ufficiali.
Scesa la notte, un generale, inviato dal principe Eugenio, gli spiegò come erano andate le cose. "Si era dovuto - disse - passare la Lugia ai piedi di Maloiaroslavez, in fondo a un'ansa che fa il suo corso e poi scalare una collina scoscesa: su quel ripido pendi, interrotto da balze a perpendicolo, sorge la città. Più oltre, si trova un altipiano circondato da boschi dai quali sbucano tre strade: una di fronte che viene da Kaluga, e due a sinistra che vengono da Lectazovo, campo trincerato di Kutuzov.
"Ieri Delzons non vi trovò il nemico, ma noin stimò opportuno collocare la sua intera divisione nella città alta, oltre un fiume e una strettoia e sull'orlo di un precipizio nel quale un attacco di sorpresa notturno avrebbe potuto gettarla. Egli rimase quindi in basso sulla riva della Lugia e distaccò due soli battaglioni per occupare la città e tenere sotto osservazione l'altipiano.
"La notte stava per finire; erano le quattro e nei bivacchi di Delzons, eccetto poche sentinelle, tutti dormivano ancora, quando improvvisamente i Russi di Doctorov escono dai boschi lanciando urla spaventose. Le nostre sentinelle sono respinte sui posti di guardia, i posti di guardia sui battaglioni, i battaglioni sulla divisione: e non si trattava di un colpo di mano, giacché i Russi disponevano di artiglieria! Fin dall'inizio dell'attacco, il rombo del cannone aveva portato al viceré, a tre leghe di distanza, la notizia di un combattimento importante."
Il rapporto aggiungeva: "che allora il principe era accorso con alcuni ufficiali e che le sue divisioni e la sua guardia lo avevano seguito precipitosamente. A mano a mano che egli si era avvicinato, un vasto anfiteatro tutto animato si era andato dispiegando davanti a lui; la Lugia ne segnava la base e già nugoli di cacciatori russi ce ne contendevano le sponde."
Dietro ad essi, e dall'alto della scarpata su cui sorgeva la città, l'avanguardia russa dirigeva il suo fuoco su Delzons: più oltre, sull'altipiano, tutta l'armata di Kutuzov accorreva, in due lunghe e nere colonne, dalle due strade di Lectazovo Si vedevano le due colonne allungarsi e trincerarsi su quel pendio spoglio, di una mezza lega di raggio, da dove dominavano e abbracciavano tutto con il loro numero e la loro posizione: esse già sbarravano la vecchia strada di Kaluga che il giorno prima era libera e che eravamo padroni di occupare e di percorrere, ma che ormai Kutuzov avrebbe potuto difendere a palmo a palmo.
Contemporaneamente, l'artiglieria nemica approfitta delle alture che dalla sua parte costeggiano il fiume; il suo fuoco spazza il fondo dell'ansa nella quale Delzons e le sue truppe sono impegnati. La posizione era insostenibile e ogni esitazione funesta. Bisognava uscirne o con una rapida ritirata o con un attacco impetuoso; ma la nostra vcia di ritirata era davanti a noi, e il viceré ordinò l'attacco.
Dopo aver superato la Lugia su uno stretto ponte, la strada maestra di Kaluga entra a Maloiaroslavez, seguendo il fondo di una forra che sale alla città. I Russi riempivano in massa quella strada incassata: Delzons e i suoi francesi vi si addentrano a testa bassa; i Russi vengono sbaragliati e respinti; essi cedono e poco dopo le nostre baionette brillano sulle alture.
Delzons, certo della vittoria, ne diede l'annuncio. Non aveva da conquistare ormai che una fila di edifici, ma i suoi soldati esitarono. Egli si fece avanti personalmente: li stava incoraggiando, con i gesti, con la voce e con l'esempio, quando una pallottola lo colpì in fronte e lo stese a terra. Si vide allora suo fratello gettarsi su di lui, coprirlo col proprio corpo, stringerlo tra le braccia e cercare di sottrarlo al fuoco e alla mischia; ma una pallottola colpì anche lui e spirarono entrambi.
Quella perdita lasciava un grande vuoto che fu necessario colmare. Delzons fu sostituito da Guilleminot il quale gettò subito cento granatieri in una vicina chiesa e nell'annesso cimitero, dove aprirono delle feritoie. La chiesa, situata a sinistra della strada maestra, la dominava; ad essa si dovette la vittoria. Per cinque volte, in quella giornata, quella posizione fu oltrepassata dalle colonne russe che inseguivano i nostri e per cinque volte le sue precise e tempestive scariche, che le colpivano sul fianco e alle spalle, fecero tentennare e rallentare il loro impeto; quando poi riprendevamo l'offensiva, grazie a quella posizione, le colonne russe si trovavano tra due fuochi e il successo dei nostri attacchi era assicurato.
Il generale Gulleminot ha fatto appena in tempo a prendere quella precauzione quando nugoli di Russi lo assalgono; egli viene respinto verso il ponte, dove si era fermato il viceré per giudicare l'andamento della battaglia e predisporre le riserve. Dapprima egli inviò rincalzi scarsi, a scaglioni successivi, e come capita sempre in tali casi, essi, inadatti a sostenere un grande sforzo, furono distrutti l'uno dopo l'altro senza un grande risultato.
Infine viene impiegata tutta la quattordicesima divisione; allora il combattimento torna a spostarsi verso l'alto e raggiunge per la terza volta la cima delle alture. Ma, appena i Francesi oltrepassano le case, appena si allontanano dal punto centrale da cui sono partiti, appena compaiono nella pianura, dove si trovano allo scoperto, dove il cerchio si allarga, essi non bastano più; allora, schiacciati dal fuoco di un'armata intera, sbigottiscono e tentennano; altri Russi accorrono senza sosta e le nostre file diradate cedono e si spezzano; gli ostacoli del terreno accrescono il disordine dei Francesi ed eccoli ridiscendere ancora una volta precipitosamente, abbandonando tutto.
Ma alcune granate avevano incendiato, alle loro spalle, quella città di legno; retrocedendo, essi si imbattono nell'incendio, il fuoco li respinge addosso al fuoco; le reclute russe, esaltate, si accaniscono; i nostri soldati si indignano; ci si batte a corpo a corpo; se ne vedono alcuni afferrarsi con una mano e colpire con l'altra, poi, vincitori o vinti, rotolare in fondo ai precipizi e tra le fiamme, senza abbandonare la presa. Lì, i feriti muoiono  soffocati dal fumo o divorati dalle braci ardenti. In breve i loro scheletri, anneriti e calcinati, assumono un aspetto ributtante, quando l'occhio vi distingue un residuo di forma umana.
Tuttavia non tutti compirono altrettanto bene il loro dovere. Si notò un comandante, gran parlatore, che dal fondo di una forra impiegava, a perorare, il tempo dovuto all'azione. Tratteneva presso di sé, in quel luogo sicuro, le truppe necessarie a giustificare anche la sua permanenza e lasciava che le altre si esponessero poco alla volta, senza coordinazione e a caso.
Restava ancora la quindicesima divisione. Il viceré la fa intervenire ed essa avanza gettando una brigata a sinistra, nel sobborgo, e una a destra, nella città. Erano reclute italiane; era la prima volta che combattevano. Salirono la china lanciando urla di entusiasmo, ignorando o disprezzando il pericolo, per quella singolare disposizione dell'animo che rende la vita meno cara nel suo fiore che nel suo declino, sia che da giovani si tema meno la morte, sentendola istintivamente lontana, sia che a quell'età, ricca di giorni e generosa di tutto, si prodighi la vita, come i ricchi le ricchezze.
Fu un terribile scontro; tutto fu riconquistato e tutto fu di nuovo perduto. Più ardenti dei commilitoni anziani al momenti di cominciare, le reclute si persero d'animo più in fretta e ritornarono fuggendo addosso ai battaglioni dei veterani che li sostennero e furono costretti a riportarli al pericolo.
Proprio allora i Russi, imbaldanziti dal loro numero, incessantemente crescente, e dal successo, scesero dalla loro destra per impadronirsi del ponte e tagliarci ogni via di ritirata. Il principe Eugenio era ridotto all'ultima riserva; egli impiegò battaglia personalmente con la sua guardia. A quella vista, e alle sue urla, i resti della tredicesima, quattordicesima e quindicesima divisione riprendono animo; compiono un estremo e possente sforzo e, per la quinta volta, la guerra è riportata sulle alture.
Nello stesso tempo, il colonnello Peraldi e i cacciatori italiani sgominavano a colpi di baionetta i Russi, che erano già in vista della parte sinistra del ponte, e senza riprendere fiato, inebriati dal fumo e dal fuoco attraversato, dai colpi vibrati e dalla vittoria, si spingevano lontano, sull'altipiano, risoluti a impadronirsi dei cannoni nemici; ma uno di quei profondi crepacci che solcano il terreno russo li costrinse a fermarsi sotto un fuoco micidiale; le loro file si scompaginarono, la cavalleria nemica li attaccò; venero respinti fino ai giardini del sobborgo. Lì, si fermano e stringono di nuovo le file; Durrieu, Gifflinga, Trezel, Francesi e Italiani, tutti difendono con accanimento gli sbocchi della città alta e i Russi, infine scoraggiati, si ritirano e si concentrano sulla strada di Kaluga, tra i boschi e Maloiaroslavez.
Così diciottomila Italiani e Francesi, raccolti in fondo a una forra, hanno vinto cinquantamila Rissi attestati sopra le loro teste e favoriti da tutti gli ostacoli che può presentare una città costruita su un ripido pendio.
Tuttavia, l'armata contemplava con tristezza quel campo di battaglia, sul quale sette generali e quattromila Francesi e Italiani erano stati feriti o uccisi. La vista delle perdite del nemico non valeva a consolare; esse non erano il doppio delle nostre e i loro feriti sarebbero stati salvati. Cvi si ricordava del resto che, in una situazione simile, Pietro I,  sacrificando dieci Russi per ogni Svedese, aveva creduto non solo di pareggiare le perdite, ma addirittura di guadagnare in quel terribile baratto. Faceva soffrire soprattutto il pensiero che uno scontro tanto sanguinoso avrebbe potuto essere evitato.
In realtà, alcuni falò sfavillanti sulla nostra sinistra, nella notte tra il 23 e il 24, avevano rivelato il movimento dei Russi verso Maloiaroslavez; eppure, s osservava, avevamo marciato fiaccamente verso quella città; inoltre vi avevamo arrischiato con negligenza una divisione, gettata avanti da sola, a tre leghe di distanza fuori portata gli uni degli altri. Dove erano finiti i movimenti rapidi e risolutivi di marengo, di Ulm e di Ekmühl? Perché quella marcia lenta e tardiva in una circostanza tanto critica? Erano stati l'artiglieria e i bagagli ad appesantirci tanto? Era la cosa più verosimile.»

I Francesi sono riusciti a passare, per cui la battaglia di Maloyaroslavez viene generalmente considerata una vittoria tattica di Napoleone; ma, dal punto di vista strategico, non c'è dubbio che fu un successo russo. Di essa si può dire quello che è stato osservato a proposito della battaglia navale dello Jutland, nella prima guerra mondiale: a vincere le battaglie non è chi rimane padrone del campo o chi infligge i maggiori danni al nemico, ma chi riesce a metterlo in una situazione strategica tale, per cui la sua sconfitta completa e definitiva è solo questione di tempo.
Al tempo stesso, è qui necessario sfatare una leggenda tenacemente coltivata da un gran numero di storici (in genere, non militari): che Napoleone sia stato sconfitto dall'inverno russo. In realtà, quando egli decise la ritirata da Mosca, era già virtualmente sconfitto. E lo era sia sul campo di battaglia - come dimostra la battaglia di Tarturino, che precede l'inizio della ritirata francese -, sia, soprattutto, per il quadro logistico e politico venutosi a determinare dopo la battaglia di Borodino, in cui era rimasto padrone del terreno, ma aveva mancato l'obiettivo di infliggere un colpo decisivo all'esercito russo, che aveva potuto ritirarsi in buon ordine e col morale alto.
Fino all'ultimo giorno della sua vita, Kutuzov continuò a parlare di Borodino come di una vittoria russa: e aveva ragione, se non in senso tattico, certo in senso strategico: perché, dopo Borodino, Napoleone non era più in grado di vincere, e il destino della sua Grande Armée era irrimediabilmente segnato. Solo se a Borodino egli fosse riuscito a distruggere l'esercito nemico, avrebbe ancora avuto delle concrete possibilità di vittoria, nonostante il pauroso allungamento delle sue vie di comunicazione e l'impossibilità di vettovagliare il proprio esercito in un Paese che preferiva bruciare i campi e i villaggi, piuttosto che lasciare qualcosa che l'invasore avrebbe potuto utilizzare.
Borodino era stata una vittoria solo apparente dei Francesi; in realtà, essa aveva segnato il principio della fine. Come faranno anche i Tedeschi nel 1941, Napoleone era stato così sicuro di concludere la campagna entro l'autunno, che non aveva nemmeno provvisto le sue truppe di indumenti invernali: terribile imprevidenza, che i soldati avrebbero pagato a carissimo prezzo.

Ha scritto il giornalista Erik Durschmied, esperto di cose militari, nel suo libro «Il generale inverno» (titolo originale: «The Weather Factor», 2000; traduzione italiana di Francesco Saba Sardi, Edizioni Piemme, Casale Monferrato, pp. 151-152):

«Per i Francesi la situazione era divenuta assai precaria, Napoleone uscì da Mosca con centottomila uomini e cinquecentosessantanove cannoni. Ma senza vettovaglie né cibarie. Si mise in marcia con l'intento di fare rifornimento di cibo strada facendo, ma non c'era nulla a cui attingere: ben poco era rimasto dopo i saccheggi perpetrati durante l'estate. La fame tormentava i soldati francesi, e incursioni a largo raggio in cerca di vettovaglie erano rese impossibili dalle pattuglie cosacche uccidevano chiunque si allontanasse dalla colonna principale.
Gli ultimi gironi di ottobre furono limpidi, le notti fredde, la temperatura scese sotto lo zero, situazione alla quale i francesi non erano preparati. Napoleone non aveva preso in esame l'eventualità di trascorrere l'inverno in Russia, e i suoi uomini indossavano le uniformi estive.  Ma la loro vera sofferenza ebbe inizio quando il sole si nascose dietro fitte nuvole la neve coprì la campagna. Il vento scatenava tormente sulle distese piatte, cavalli e uomini sprofondavano nella neve e i pali che erano stati piantati dai russi per segnare la strada diventavano invisibili nella bianca tempesta. Una lunga colonna di uomini sfiniti, affamati, febbricitanti, serpeggiava nel paesaggio invernale russo, sospinta dalla paura dei cosacchi che la tallonavano implacabilmente. Il vento ululava e la temperatura continuava a scendere. Gli uomini soffrivano di congelamenti, e non restava loro che avvolgersi volto e piedi in tele di sacco.
"Fa tanto freddo che i corvi cadono gelati dal cielo" scrisse un granatiere nel suo diario. "Abbiamo le narici tappate, la bocca piena di pezzi di ghiaccio e la neve, spinta dal vento sui nostri volti, ci acceca. Pregate per noi, perché domani potrebbe essere troppo tardi, e nessuno sa cosa sarà di noi.
I soldati della Grande Armée si trascinavano in un paesaggio di devastazione, servendosi dei fucili come stampelle. Dovunque passassero, la pista senza fine restava costellata di cadaveri., L'esercito aveva perso il proprio orgoglio. I cosacchi ne perseguivano spietatamente i resti, in groppa ai piccoli cavalli siberiani, abituati all'atroce freddo. Qualsiasi sbandato, catturato da quei terribili cavalieri, veniva spogliati nudo e spinto avanti  con le punte delle lance finché non cadeva morto.. Altri venivano inzuppati d'acqua, legati agli alberi e lasciati a congelare…»
 
E il grande scrittore Lev Tolstoj, nel romanzo «Guerra e pace», ha descritto efficacemente lo strano carattere della campagna di Russia dopo che i Francesi furono usciti da Mosca, in cui l'esercito vincitore viene inseguito e tormentato senza posa attraverso il vasto territorio nemico, fino alla distruzione irreparabile e pressoché totale (traduzione di Agostino Villa, Sansoni Editore, Firenze, 1966, vol. 3, pp.  1.633: libro quarto, parte terza, cap. XVI):

«Dal 28 d'ottobre in poi, data d'inizio delle gelate, la fuga dei francesi assunse, è vero, un carattere più tragico, di gente che si congelava e s'arrostiva a morte intorno ai fuochi, mentre in pelliccia e in carrozza seguitavano a correr via, coi tesori depredati, l'imperatore, i re e i granduchi; ma, nella sostanza, il processo di fuga e di disgregazione dell'armata francese non subì nessun mutamento.
Da Mosca a Vjaz'ma, dei settantatremila uomini che l'armata francese contava oltre la Guardia (la quale, per tutto il corso della campagna, non aveva fatto niente fuorché saccheggiare), di questa armata di settantatremila uomini non ne erano avanzati che trentaseimila (e non erano più di cinquemila, fra tutti, i caduti in combattimento). Ecco il primo membro d'una progressione secondo la quale, con esattezza matematica, si dispongono i seguenti. L'armata francese continua a liquefarsi e ad annientarsi secondo un'identica proporzione nei tratti da Mosca a Vjaz'ma, da Vjaz'ma a Smolensk, da Smolensk alla Berezina, dalla Berezina a Vilno, indipendentemenrte dal maggiore o minor grado di freddo, di pressione nemica, di sbarramenti sul cammino, e di qualsiasi altra circostanza separatamente presa. Dopo Vjaz'ma, le truppe francesi, invece che in tre colonne, s'ammassano in un solo mucchio, e così procedono fino alla fine…»

Ma l'arrivo del gelo, lo ripetiamo, non fu il fattore decisivo della disfatta della Grande Armée, che, di fattoi, era iniziata ancor prima del suo ingresso a Mosca.
Il fattore decisivo era stato la mancata distruzione dell'esercito russo nella battaglia di Borodino e, più ancora, la mancanza di viveri e la smisurata lunghezza delle vie di comunicazione, sottoposte ai continui attacchi della cavalleria nemica e dei partigiani; in poche parole: la fatale imprudenza di essersi addentrati in un territorio smisurato e l'errore di aver creduto che la conquista di esso avrebbe costretto il nemico ad arrendersi. Napoleone imparò a sue spese che un generale può anche sacrificare lo spazio per guadagnare tempo, come fece appunto Kutuzov; e che, in una guerra dominata dal fattore tempo, vince chi ha possibilità di rifornirsi, non chi si è spinto più avanti nel cuore del Paese nemico.
Tartutino e Maloyaroslavez, così, appaiono veramente come il momento di svolta della guerra: quando la stella di Napoleone comincia a tramontare sui cieli di Russia, e un nuovo capitolo di storia si apre, con la sua sconfitta, per l'Europa ed il mondo.