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L'incontro/scontro di Teano

di Fernando Ricciardi - 28/10/2008

 



Teano, antica cittadina del casertano adagiata sulle pendici del massiccio vulcanico di Roccamonfina, deve la sua notorietà al famoso “incontro” che il 26 ottobre del 1860, e quindi esattamente 148 anni fa, vide protagonisti Giuseppe Garibaldi e Vittorio Emanuele II di Savoia. Non esiste un solo libro di testo che non parli di tale evento considerato una pietra miliare sulla strada dell’italica unità. Lì, ogni anno, compreso quello in corso, si tengono fastose cerimonie dirette a far risaltare l’importanza dello storico accadimento. Evento che, ad onor del vero, fu ben più modesto di quello dipinto a tinte indelebili dalla ridondante oleografia risorgimentale. Trattare di questi argomenti mentre ancora risuona forte l’eco delle celebrazioni per il 200esimo anniversario della nascita del “Peppino” nazionale, non è operazione agevole. Noi, però, pur sapendo di andare contro corrente e di correre il rischio di essere additati al pubblico ludibrio, qualche cosina in merito vogliamo dirla. Ad iniziare proprio dal posto in cui si verificò l’incontro che è la piccola località di Taverna Catena, nei pressi di Vairano Scalo, nel territorio del comune di Vairano Patenora. Sul monumento rievocativo così si legge: “Qui a Taverna Catena di Vairano Patenora il 26 ottobre 1860 Giuseppe Garibaldi e Vittorio Emanuele II conclusero l’unità d’Italia”. Teano, quindi, con il famoso incontro, non ‘c’azzecca proprio niente’, per usare un termine tratto dal colorito idioma ‘dipietrese’. Ma l’errore, a ben vedere, non è poi così grave specie se paragonato al significato che si è voluto attribuire all’evento. In quel giorno a Teano o, meglio, a Taverna Catena, si concluse la famosa “spedizione dei Mille”. Ma si chiuse in maniera molto diversa da quanto è stato scritto. Garibaldi, infatti, risalito lo Stivale, avrebbe voluto continuare la sua corsa fino a Roma, per mettere fine al potere temporale della Chiesa e dar vita ad una sorta di repubblica meridionale sganciata dal Papa e da casa Savoia. Il che trovò subito la netta opposizione della monarchia sabauda che mise in campo tutte le sue energie per stoppare sul nascere il progetto. E così, mentre Garibaldi, reduce dal disastroso periodo della dittatura napoletana dove dimostrò tutta la sua imperizia negli affari di governo, dopo aver respinto con immane fatica la controffensiva borbonica sul Volturno, si inoltrava nel cuore della Terra di Lavoro, il re di Sardegna, occupate le Marche e l’Umbria, scendeva con il suo esercito verso Napoli. Ma non per salutare e per ossequiare il comandante dei Mille, quanto, piuttosto, per stoppare bruscamente la sua avanzata verso Roma. La qualcosa rischiava di compromettere seriamente i rapporti con la Francia. L’incontro di Taverna Catena si protrasse per una ventina di minuti in una atmosfera di reciproca freddezza, diffidenza e di palese antipatia. Garibaldi dovette chinare la testa, passare la mano e avallare, obtorto collo, la politica piemontese. Ormai la sua missione si era esaurita. Demolito a spallate lo stato borbonico, doveva ritirarsi in buon ordine, senza suscitare eccessivo clamore. E così avvenne. Un paio di settimane dopo, deluso e amareggiato, il buon Peppino abbandonò Napoli e si ritirò ‘in esilio’ a Caprera. Era il 9 novembre del 1860. “Questi (Garibaldi) si congedò dai suoi uomini da solo e senza squilli di tromba perché Farini (luogotenente generale di Napoli) aveva perfino proibito il famoso inno… Farini vietò al Giornale Officiale di dare notizia della partenza di Garibaldi per Caprera”: così scrive Indro Montanelli nella sua ‘Storia d’Italia’.
Lo stesso Garibaldi non fece niente per nascondere la sua delusione. Aveva perfettamente capito di essere stato l’esecutore materiale dei diabolici piani del re sabaudo e del perfido Cavour. Il che gli faceva scoppiare il cuore di rabbia. Nel 1868, in una lettera all’amica Adelaide Cairoli, così commentava: “Gli oltraggi subiti dalle popolazioni meridionali sono incommensurabili. Ho la coscienza di non aver fatto del male. Nonostante ciò non rifarei la via dell’Italia Meridionale, temendo di essere preso a sassate, essendosi là cagionato solo squallore e suscitato solo odio”. Una rivisitazione chiara ed inequivocabile di tutto il perverso meccanismo che condusse all’unità d’Italia. Ecco perché quello di Teano (anche noi continuiamo imperterriti a perseverare nell’errore) non fu un incontro bensì uno ‘scontro’ le cui drammatiche conseguenze (si pensi al fuoco violento della rivolta contadina nelle regioni del sud) caratterizzarono tutti gli accadimenti del travagliato decennio post-unitario. I personaggi, del resto, erano fatti per non piacersi.
E se Garibaldi detestava profondamente Vittorio Emanuele, il monarca niente faceva per mascherare la sua avversione per il ‘ribelle’ nizzardo. Non a caso così scriveva al fido Cavour: “… come avrete visto ho liquidato rapidamente la sgradevolissima faccenda Garibaldi sebbene, statene certo, questo personaggio non è affatto docile né così onesto come lo si dipinge e come voi stesso ritenete. Il suo talento militare è molto modesto come prova l’affare di Capua e il male immenso che è stato commesso qui, ad esempio l’infame furto di tutto il denaro dell’erario, è da attribuirsi interamente a lui che s’è circondato di canaglie, ne ha seguito i cattivi consigli e ha piombato questo infelice paese in una situazione spaventosa”. Anche alla luce di questi documenti, per la verità noti da sempre, non sarà il caso di riconsiderare un po’ il tutto? E se a Teano, o lì nei pressi, le cose fossero andate in maniera molto meno nobile di quanto la storiografia ufficiale volle far trapelare? Meditate, lettori, meditate…