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Il sogno ci rivela l'illusorietà delle barriere dello spazio e del tempo

di Francesco Lamendola - 29/10/2008


«Tre volte Randolph Carter sognò la meravigliosa città, e tre volte venne portato via mentre si trovava  ancora sull’alta terrazza che la dominava.
Riluceva, dorata e splendida nel tramonto, con le sue mura, i templi, i colonnati e i ponti ad arco di marmo venato, mentre fontane d’argento zampillavano con un effetto prismatico  su ampi piazzali e giardini odorosi, e larghe strade passavano tra alberi delicati, urne ornate di boccioli e statue d’avorio disposte in file lenti. Su vertiginosi strapiombi, rivolte verso nord, si arrampicavano invece una lunga serie di  tetti rossi, e antichi frontoni aguzzi si susseguivano lungo stradine  erbose coperte da ciottoli. Era un vero delirio degli dei, una fanfara di trombe soprannaturali, e un risuonare di cimbali ultraterreni. La circondava  il mistero, così come le nuvole si raccolgono intorno ad una favolosa montagna inviolata.
Mentre carter rimaneva senza fiato e in trepidante attesa  su quel parapetto circondato da una balaustra, fu sopraffatto dalla pienezza e dall’ansia di un ricordo  quasi svanito, da un dolore di cose perdute, e dal bisogno ossessionante di ricordare di nuovo quello che una volta era stato un luogo veramente terribile.
Sapeva che il suo significato una volta doveva essere stato  estremamente importante per lui, anche se non sapeva dire in quale epoca remota  o incarnazione l’avesse conosciuto, e neppure se fosse stato in sogno o da sveglio.
Richiamò alla memoria vaghi frammenti di una lontana giovinezza ormai tramontata, quando lo stupore e il divertimento erano racchiusi nello svolgersi elle giornate, e l’alba e il tramonto arrivavano, ricchi di aspettative e a grandi passi, al suono appassionato di canti e di liuti, schiudendo maestosi cancelli su ulteriori e sorprendenti meraviglie.
Ma, ogni notte che trascorreva su quell’alta terrazza di marmo con le sue strane urne e il parapetto adorno di fregi, e volgeva lo sguardo su quella città caria di bellezza e di immanenza ultraterrene immerse nel placido tramonto, percepiva il dominio dei tirannici dèi del Sogno. Infatti, non poteva in alcun modo lasciare quell’alto spazio, né scendere  da quella scalinata di marmo e lasciarsi andare in una caduta senza fine là dove si aprivano quelle strade ine di antichi sortilegi che lo attiravano prepotentemente.
Quando si svegliò per la terza volta su quella scalinata che non aveva ancora disceso e su quelle strade immerse nel tramonto non ancora attraversate,  pregò a lungo e con fervore gli dèi del Sogno  che meditano nascosti sulle nuvole dello sconosciuto monte Kadath, nel gelido deserto che  in cui nessun uomo osa avventurarsi.
Ma gli dèi non risposero, non mostrarono alcuna pietà, né espressero alcun segno favorevole quando li pregò in sogno e li invocò con suppliche attraverso i barbuti sacerdoti Nasht  e Kaman-Thah, il cui tempio oscuro come una caverna sorge non lontano dai Portali del mondo diurno, con al centro una colonna di fiamme…»

Così incomincia il romanzo di Herbert Phillips Lovecraf, «La ricerca onirica dello sconosciuto Kadath» (titolo originale: «The Dream-Quest of Unknown Kadath», 1927; traduzione italiana di a cura di Gianni Pilo e Sebastiano Fusco, Roma, Newton & Compton, 1993, «Lovecraft, tutti i romanzi e i racconti», vol. 3, pp. 159-160), che, a giudizio di alcuni studiosi dell’opera del “solitario di Providence”, è probabilmente la sua cosa migliore.
Vi si narra la storia di un uomo che audacemente, con ammirevole ostinazione, persegue la sua meta (vorremmo dire: il suo sogno) di raggiungere, nei mondi del sogno, appunto, una favolosa città sconosciuta, che gli è apparsa più volte ma che non ha mai avuto la possibilità di esplorare, pur desiderandolo con tutte le sue forze; e che, per riuscirvi, intraprende un avventuroso viaggio onirico di regno in regno, come in un gioco di specchi, in cui il lettore è sempre incerto se la multiforme ed umbratile realtà di quei luoghi appartenga al mondo della Veglia o a quello, misterioso ed elusivo, del Sogno.
Sappiamo che presso alcuni popoli nativi, ad esempio gli aborigeni australiani, il mondo dei sogni non è affatto meno reale di quello della vita ordinaria; anzi, è esso che sorregge l'intero edificio della realtà. E da esso discendono le cose e gli eventi che si manifestano a livello fisico (cfr. F. Lamendola, «Per gli aborigeni del Sogno, ogni creatura del mondo fa parte di uno stesso organismo», consultabile sul sito di Arianna Editrice).
Per gli aborigeni, il tempo del Sogno è un tempo che viene prima del tempo; o meglio, il Sogno esiste da prima che esista il concetto stesso del tempo. Secondo quelle ppopolazioni, il mondo era inizialmente privo di forma. La vita sul nostro pianeta fu il risultato di uno straordinario gesto creatore da parte degli Eroi del Cielo, che emersero da sotto terra per creare le montagne, i fiumi e tutti gli esseri viventi.
Ecco perché i Wandjina, gli spiriti sacri tipici di questa parte del mondo - spesso raffigurati, nelle incisioni e pitture rupestri, con sconcerto degli etnologi e degli archeologi, «curiosamente» privi della bocca -, vengono onorati nelle cerimonie religiose. Si tratta di esseri celesti che hanno origine nel Sogno, sono creatori del mondo e delle leggi che lo governano; sono loro gli Eroi del Cielo, che non corrispondono a delle divinità, ma ad entità celesti capaci di agire in qualità di guide e compagni degli esseri umani.

D'altra parte, non solo lo studio dell'etnologia dei popoli nativi, ma anche le più recenti ricerche scientifiche tendono ad avvalorare sempre più l'ipotesi che la natura del sogno non sia meno reale di quella dello stato di veglia, bensì diversamente reale; tanto è vero che nel sogno non solo non viene meno l'autocoscieza, ma neppure la percezione del mondo esterno: di quel mondo esterno cui pensiamo generalmente si possa accedere solo mediante i cinque sensi.
Lasciamo perdere, per ora, quella particolare casistica onirica che si riferisce ai sogni premonitori o, addirittura, ai sogni in cui sembra realizzarsi una precisa complementarità fra il sono e la veglia: nei quali, ad esempio, persone defunte rispondo a domande e svelano segreti, come sarebbe stato, secondo Boccaccio, il sogno con cui Dante Alighieri rivelò al figlio dove giacevano custoditi gli ultimi canti del suo «Paradiso», altrimenti introvabili.
Rimandiamo ad altro luogo una discussione su questa particolare categoria di sogni, nei quali sembra che essi interagiscano esplicitamente con il mondo della veglia, mediante riscontri oggettivi, perché questo ci condurrebbe troppo lontano.
Per ora, limitiamoci ad osservare che, anche nei sogni cosiddetti ordinari, esiste un livello di percezione della realtà che, se non è la realtà dello stato di veglia, possiede nondimeno caratteri di coerenza e plausibilità tali, da rendere assai problematico indicare per quali ragioni dovremmo considerarla come puramente illusoria. Il fatto è che, nel sogno, noi vediamo, udiamo, esercitiamo insomma i nostri sensi, non meno di quel che facciamo nella veglia; né abbiamo il potere - proprio come nella veglia - di modificare a nostro piacere la realtà circostante, che, anzi, ci si impone con la sua evidenza e con la sua cogenza.
Perciò, piuttosto che almanaccare sul grado maggiore o minore di realtà reciproca del mondo della veglia e di quello del sogno, meglio sarebbe, forse, riconoscere che sia l'uno che l'altro non sono che manifestazioni di una dimensione limitata della realtà, quella legata allo spazio-tempo ordinario; al di là dei quali, però, esiste un livello più alto, libero da tali condizionamenti.
I sogni, secondo gli antichi, erano appunto i canali mediante i quali gli dèi o gli antenati si mettevano in comunicazione con i viventi: ossia, dei canali di comunicazione tra il piano della realtà assoluta e quello della realtà relativa.
Anche gli sciamani dell'Asia centrale, della Siberia e delle due Americhe praticavano il viaggio astrale mediante le tecniche medianiche; e ritenevano che, quando il corpo giace in uno stato di forte alterazione (ad esempio, quando è afflitto da una grave malattia), nonché quando è immerso in un sonno molto profondo, abbandona il piano della realtà fisica e si trasferisce nelle regioni superiori, libero dai condizionamenti della natura fisica.
A quel punto, lo spirito dello sciamano può anche trasferirsi nel corpo di un animale, ad esempio di un uccello, e coprire vaste distanze per vedere e conoscere quello che accade in altri luoghi (ed esistono testimonianze le quali inducono a pensare che, almeno in alcuni casi, tale viaggio possa avvenire oggettivamente).

Scrive la studiosa dell'occulto francese Hélène Renard, già autrice di un libro sa quattro mani con Louis Pauwels, «L'arca di Noé e il diluvio», ne suo interessante «Diu là. Credenze e ricerche sulla vita dopo la morte» (titolo originale:«L'après vie», Philippe Lebaud Editeur, 1985; traduzione italiana di Cristina Viani, Milano, Longanesi & C:, 1986, pp. 191-94):

«Durante il sogno lo spirito sembra vivere in maniera quasi autonoma. Nello stato di veglia la coscienza della realtà ci perviene tramite i sensi. Nello stato di sogno, nel quale abbiamo ugualmente una sensazione di realtà, non sono più i sensi a trasmetterla. I sogni ci forniscono l'occasione di una sorprendente esperienza: non siamo obbligati a passare attraverso i sensi  per percepire una realtà. Non siamo cioè sottoposti alla percezione esclusiva dei cinque sensi.
Il sogno supera le barriere dello spazio-tempo.
È un'esperienza comune a tutti: il tempo del sogno non è lo stesso di quello di veglia. In sogno si svolgono in pochi attimi avvenimenti che necessiterebbero ore, allo stato di veglia, per essere vissuti nelle medesime situazioni. Si può parlare di un tempo psichico diverso dal tempo "solare" col quale misuriamo la vita in stato di veglia. Questo ultimo è in relazione con la rotazione della Terra attorno al Sole. È l'idea che ci facciamo del passato, del presente e del futuro, del momento che succede a un altro momento, a determinare la nostra esperienza del tempo "solare". Il tempo dei sogni non ha nulla a che fare con questi dati e ci fornisce la prova della relatività  del tempo, che in sé non esiste.
Sia il tempo sia lo spazio si rivelano costruzioni mentali, allo stesso modo che ciò che avvertiamo in sogno come realtà non è che una costruzione mentale.
Quindi né il mondo cosciente né il mondo sognato costituiscono la realtà ultima. Ognuno di essi è solo uno stato di spirito che li costruisce,  lo stesso spirito presente quando siamo svegli e quando sogniamo. Lo spirito crea la realtà.
Il sogno ci permette di capire che gli spettacoli, gli oggetti e i personaggi costruiti altro non sono che apparenze. È lo spirito a dare loro un aspetto di realtà: allo stesso modo la vita da svegli ci offre uno spettacolo costruito mentalmente, la cui realtà non è che apparenza.
Ci si sente autorizzato a concludere che lo spirito, essendo dipendente dal cervello,  muore insieme a esso. Ma l'uomo non è fatto solo di corpo e spirito: ha anche una "anima", cioè una parte di sé che custodisce una propria identità, una memoria della individualità, che, come è noto, conserva miliardi di informazioni accumulate  nel corso dell'esistenza terrena. Dopo la morte la nuova vita dell'anima potrebbe essere simile a quella di un sogno prolungati, come credono gli aborigeni. L'anima di un defunto iniziato potrebbe ritornare nel "Tempo del Sogno".
Gli aborigeni australiani credono che ogni essere umano possieda due anime: la prima, mortale, entra nell'essere insieme all'embrione; la seconda, una particella della vita dell'Antenato, è immortale, perché conserva in sé  la memoria totale dell'individualità.
Gli antenati totemici, eroi civilizzatori, Esseri primordiali, dopo aver modellato la Terra creato l'uomo e gli animali, insegnato all'uomo le basi della civiltà, sono risaliti in Cielo ritrovando il loro stato di eternità. Gli aborigeni chiamano questo periodo favoloso, questa età dell'oro, il "Tempo del Sogno". Solo attraverso la morte l'uomo raggiunge il suo stato di perfezione che consiste  nel ridiventare un puro essere spirituale. La morte è il passaggio  obbligato da un universo profano a un universo sacro, e lo stato di sogno è l'anello che collega il perituro mondo della materia  all'immortale mondo dello spirito. Il sogno è il mediatore fra il possibile vissuto e il possibile invisibile. Attraverso il sogno si manifesta l'invisibile…»

Se tutto questo è vero, o almeno verosimile, ecco che la morte potrebbe essere realmente il passaggio da una dimensione caratterizzata da un minor grado di realtà - come lo sono, nella credenza comune, i sogni - ad una di pienezza e di completa realizzazione.
Forse, se è vera l'ipotesi di Ernesto Bozzano, secondo la quale, alla fine della vita, si rivede istantaneamente, come in un film, ogni singolo momento di essa, ciò accade per il semplice fatto che la vita è davvero un sogno (come diceva Calderón de la Barca, e come sospettava anche lo stesso Shakespeare).
Un sogno, al di là del quale c'è la vita vera: quella che si realizza sul piano della realtà assoluta, libera da ogni condizionamento di tempo e di luogo.