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Antiche radici per una nuova rinascita. La natura: una realtà fatta di simboli viventi

di Viator - 29/10/2008

 

La prima domanda da farsi per entrare subito nell’argomento è la seguente: cosa è l’arte? Nessuno sa veramente cosa sia, pertanto rassicurati e resi audaci da questa incertezza possiamo tranquillamente suggerire e proporre che per noi l’arte è il sogno dell’anima; così ad una parola misteriosa ne abbiamo aggiunte altre due non meno misteriose perché nessuno sa veramente cosa siano il sogno e l’anima. Sogno, anima ed arte sono uniti tra loro come le perle di una collana ed anche se non potremo mai vederle, toccarle o dare di esse una definizione soddisfacente, questo tuttavia non deve demoralizzarci, inaridirci, portandoci a credere che tali cose non esistano.
In fondo, definire vuol dire porre un limite entro il quale qualcosa viene circoscritto, ma tutto ciò che va oltre questo limite, l’immensità che lo circonda, sfuggirà sempre a qualsiasi definizione; in definitiva delimitare vuol dire ammettere, sancire questa ignoranza: dell’oceano immenso che abbiamo di fronte percepiamo solo l’ultima onda che si frange sulla riva; ecco perché la ragione può solo approssimarsi a quelle realtà attraverso le quali l’uomo, microcosmo, partecipa all’infinito macrocosmo di cui è immagine. Del resto l’esistenza di questo “altro” è deducibile empiricamente dalla stessa vita dell’uomo.
L’uomo infatti non può vivere unicamente per mangiare, lavorare, divertirsi, assicurarsi il benessere economico, ha necessità di altro, altrimenti continua a fare tali cose ma cessa di essere uomo e muore prima di morire. Questo “altro”, lo si chiami spirito, dio, arte, sentimento, è ciò che veramente conta e si trova dentro il cuore dell’uomo e quando l’uomo recupera la chiave per aprire questo scrigno allora egli realizza se stesso ed in lui, come in un limpido specchio, si riflette la perfezione e la bellezza dell’Universo.
Un tempo, quando il mondo era giovane, questo tesoro si trovava a portata di mano, gli aedi, così si chiamavano allora i poeti, andavano di regione in regione e davanti al focolare, il re seduto sulla stessa panca di legno del suo contadino, cantavano le imprese degli dei e degli eroi e tutti ascoltavano quelle parole e le nuvole del cielo diventavano volti di dei incorniciati d’azzurro e come la fiamma riscaldava il corpo, così quei versi e quelle visioni riscaldavano l’anima e quegli uomini vivevano la felicità di essere uomini. Le cose, non da oggi, sono cambiate. Plutarco racconta che un grido d’angoscia percorse la tarda antichità: “Pan, Pan il grande è morto!”. Questo grido oracolare conserva un significato, racchiude e trasmette un messaggio, un arcano. Le oscure caverne interiori dove abita il dio con i suoi istinti potenti, le sue passioni vitali sono demonizzate ed ostruite, il cordone animico che legava l’uomo alla natura ed alle sue teofanie viene spezzato. Il panico, il “tremendum” di fronte all’esperienza del sacro, la fascinazione come nutrimento dell’anima, sono scomparse, le pietre sono solo pietre, gli alberi solo alberi, gli dei si sono ritirati, la spuma del mare non è più Afrodite, la civetta non è più Atena, l’ondeggiare delle canne palustri non è più il sussurrare di ninfe. Si, le cose sono cambiate, i focolari sono spenti, le megalopoli, le autostrade, i grattacieli hanno disperso i poeti, l’anima, fredda, efficiente, razionale, diventa arida, metallica, un’angoscia sottile e impalpabile ogni giorno come ruggine corrode le scintillanti costruzioni delle nostre certezze, la banalità, la massificazione, spengono l’intelligenza, la creatività, l’originalità e la vivezza del pensiero.
Diventiamo vili, la malattia, la vecchiaia, la morte ci terrorizzano, lo stare insieme diventa solitudine in una folla anonima in cui tutti fingono di non essere soli; più possediamo più vogliamo possedere per riempire un vuoto che diventa più vuoto ad ogni possesso; pretendiamo di aver spiegato o di poter spiegare con il razionalismo ogni cosa e, dato che alla fine non c’è più nulla da spiegare, tutto ci annoia. I valori si invertono, si demonizzano: il coraggio diventa violenza, la decisione brutalità, la dignità protervia, malati di egolatria non vediamo al di là del nostro interesse. Confondiamo la civiltà con il progresso tecnologico ed il benessere materiale, come se un uomo pensasse di valere perché il suo stomaco digerisce con efficienza una grande quantità e varietà di cibi. Il ritmo frenetico del produrre/consumare ci deruba dell’unica irrecuperabile ricchezza che conti: il tempo e così la morte, come diceva Seneca, ci sorprende dopo essere stati in vita senza aver vissuto.
Con arrogante ignoranza, presumiamo che la nostra contemporanea sia la più alta forma di civilizzazione ed in base ad essa pretendiamo di giudicare con superiorità e degnazione le altre civiltà sia attuali sia del passato, irridiamo delle loro credenze, delle loro religioni, pretendiamo di capirle in base ai nostri schemi mentali arrivando a paradossi assurdi, ridicoli, inconcepibili come quelli di un giovane professore universitario europeo che dopo pochi anni di dottorato in Indologia pretendeva di spiegare i Veda ad un bramano, ad uno studioso la cui cultura nella interpretazione di quei loro testi conta una tradizione ininterrotta di più di tremila anni. In questa decadenza è ovvio che anche l’arte subisce una crisi perché l’arte è fatta dall’uomo, è espressione dell’uomo e rappresenta ciò che l’uomo sente, crede e vuole. La crisi dell’arte si manifesta soprattutto nel soggettivismo e nella instabilità; mai come oggi nel campo dell’arte vi è un’avvicendarsi rapido e tumultuoso di estetiche, tendenze letterarie, correnti e scuole pittoriche che durano solamente pochi ed effimeri anni o che scompaiono già all’atto di iniziare. In tale humus l’artista si ritrova isolato, il volere, il “dovere” emergere individualmente attraverso un riconoscimento esteriore, qualunque esso sia, diventa imperativo a scapito anche della spontaneità dell’ispirazione.
Da questo estraniamento individualista è nata anche la credenza, in buona parte falsa, dell’artista come personaggio eccentrico, bizzarro, incomprensibile, mutevole, inaffidabile, tormentato, malato, psichicamente instabile, qualcuno da cui in fondo, per il benpensante, è prudente stare alla larga. In quanto detto non c’è naturalmente nessuna velleità di esprimere giudizi sul valore di singoli artisti, ma solo il tentativo di individuare una tendenza culturale, la quale in ogni caso conserva il merito, e non è cosa di poco conto, di essere testimonianza di quella crisi della quale si è cercato di individuare i caratteri, mostrandocela nuda davanti agli occhi senza i veli della retorica e della ipocrisia, a volte anche in amplificazioni parodistiche e volutamente provocatorie ed aberranti, quasi a voler disarticolare un corpo affinché ogni sua parte venga messa sotto gli occhi dello spettatore per disallucinarlo e costringerlo a prenderne coscienza, (si pensi a certe tendenze del post-astrattismo, della pop-art, dell’iperrealismo ed a correnti similari). Precarietà, dipendenza da contingenze ed opinioni mutevoli, fanno dell’arte qualcosa di simile ad una moda, ed è proprio in ciò il carattere precipuo della crisi dell’arte, in quanto la moda nasce quando la creatività non trova più la forza e la profondità per elevarsi e centrarsi in uno stile.
Lo stile nasce dall’individuo per andare sempre al di là dell’individuo; esso procede da un approfondimento spirituale interiore ed autonomo e si manifesta, secondo le parole di F. Nietzsche come “un eloquenza della potenza mediante le forme per le arti figurative, e mediante le idee e le parole per le manifestazioni artistiche letterarie”; in esso non c’è più il bisogno spasmodico di un riconoscimento esterno quale testimonianza e conferma di un valore, ma unicamente la volontà di imprimere al mondo, al divenire, al contingente, il carattere dell’eterno. Solo a queste altezze l’arte diventa forza creatrice di una civiltà e testimonianza di essa oltre il tempo.
Che sarebbe l’Egitto senza le sue piramidi, la Grecia senza il partenone, Roma senza i suoi templi , le sue strade, i suoi ponti, i suoi acquedotti, i suoi archi, le sue terme, le sue basiliche, il Medioevo senza i suoi castelli, i suoi monasteri, le sue abbazie, le guglie mistiche e audaci delle sue cattedrali, i suoi palazzi imperiali? Chi si sognerebbe di affermare che l’arte del Rinascimento o l’arte Classica furono una moda? Nessun popolo vive più a lungo delle testimonianze della sua cultura e nessuna cultura travalica il tempo se non diventa forza creatrice. Solo così il divario tra artista e società viene cancellato perché l’arte deve poter essere fruita non da una ristretta cerchia di amatori o da conventicole criptiche di critici, ma deve far partecipe di sé tutto un popolo; ogni cittadino di Atene poteva ammirare le opere di Fidia; Beethoven compose le sue sinfonie affinché fossero ascoltate nelle piazze e nei ritrovi pubblici.
Del resto non bisogna dimenticare che l’arte, tra le varie forme di espressione dello spirito, è quella di gran lunga più vicina all’uomo: tuttora milioni di persone fanno ore di fila per ammirare la Gioconda; nessuno si sognerebbe di mettersi in coda davanti ad un’aula universitaria di Fisica per farsi spiegare la teoria della relatività.
Arte come creatività, dunque, ma da dove l’artista deve attingere gli elementi con i quali manifestare nella propria opera questa creatività? Cos’è che nella storia sfugge alla macina implacabile del tempo? Il mito: è dal mito che l’arte deve trarre la sua ispirazione, deve soddisfare la sua sete di eternità; e come l’arte è il sogno dell’anima, così il mito è il sognare di un popolo; e come nel sogno emergono le tendenze innate, le pulsioni profonde dell’uomo, così nei miti si manifestano i valori perenni, le vocazioni essenziali, i destini di un popolo. Tutto ciò che una civiltà realizzerà nel suo divenire è già prefigurato, presentito nei miti archetipici di quella civiltà, quasi come una immanente “voluntas Dei”, un progetto atemporale che si potrà realizzare in maniera più o meno completa a seconda delle mutevoli contingenze storiche; e se il tempo consuma le manifestazioni esteriori di un civiltà, i miti, come “regioni dell’anima”, rimangono, dormono dentro di noi ed il “sognare”, metaforicamente inteso come ispirazione artistica, è il modo con il quale continuano a parlarci. Nei poemi omerici è nel sogno che gli dei compaiono ai mortali per consigliarli, ispirarli, guidarli ed è nel sogno, nel tempio di Esculapio, che il dio si mostra agli infermi per guarirli dai loro mali. Il mito, dunque, come radice culturale e fonte di ispirazione, ma tra i molti, a quali di essi possiamo rifarci nell’ambito della nostra tradizione culturale occidentale? Pan, Apollo, Dioniso, Prometeo, Ulisse, ci sembrano essere alcune delle figure nelle quali sono racchiuse simbologie tra le più rappresentative. Ovviamente ognuna di esse contiene molteplici e complessi significati; ci si limiterà a tratteggiarle nelle loro linee essenziali che potranno eventualmente essere in seguito diversificate ed approfondite. Per quanto riguarda Pan, il suo nucleo mitico è trasparente. Il risveglio ed il ritorno del dio-capro corrisponde al recupero nell’uomo di tutta quella dimensione istintuale ed immaginativa dell’anima e della psiche rimossa ed atrofizzata dal razionalismo, (il sub-conscio, in termini psicanalitici, con l’avvertenza che il sub-conscio di Pan non è quello della psicanalisi, perlomeno di quella freudiana), che rende di nuovo possibile un contatto vivente, “magico” con la natura. La natura non è morta, è la nostra istintualità, la nostra anima, la nostra immaginazione malata, introvertita, mortificata, che ce la fa apparire morta. Ricollegandoci nella nostra profondità al nostro “daimon” il velo si squarcia, la natura torna ad essere quella che è sempre stata, una realtà fatta di simboli viventi dentro e fuori di noi e gli dei, al canto di Pan, torneranno a manifestarsi nell’assolutezza e nell’innocenza di tutte le creature. Ma affinché ciò avvenga, affinché Pan si risvegli è necessario porsi di fronte alla natura con un nuovo atteggiamento, nudo, essenziale, desentimentalizzato: cercare in essa non il piacevole, il riposante, l’idilliaco, ma la matrice magico-simbolica, il mistero, l’infinitamente lontano, il primordiale; non la serenità di bei giardini e boschetti ben curati, ma la grandiosità, l’elementarità: ghiacciai, deserti, selve tenebrose, cime inaccessibili, rocce, soli implacabili, correnti impetuose, lo sgomento notturno di lande solitarie e selvagge, il panico meridiano che fa immota ogni cosa pietrificata in un silenzio arcano ed irreale. Si è usata varie volte la parola magia; a tal proposito una considerazione ed un chiarimento. La considerazione è che all’origine della civiltà l’arte, perlomeno quella figurativa, ha avuto un indubbio significato magico. Le pitture rupestri del neolitico di mandrie di animali, cervi, cavalli, bisonti, non avevano una funzione estetica, ma con quelle raffigurazioni, attraverso un rapporto simpatetico, si credeva che si sarebbe manifestato un potere che avrebbe resa propizia, sicura ed abbondante la caccia. Il chiarimento è che con la parola magia non intendiamo affatto rifarci a tutte quelle pratiche e fisime occultistiche-divinatorie così di moda al giorno d’oggi, ma riproponiamo una tradizione culturale che risale perlomeno agli gnostici ed ai neo-platonici, (Plotino, Giamblico, Porfirio, Apollonio di Tiana) e che fu ripresa dalla cultura rinascimentale, (Pico della Mirandola et alii) nella quale con magia s’intendeva lo sviluppo armonico e completo di tutte le facoltà umane, procedente di pari passo con la conoscenza delle leggi dell’Universo, dato il rapporto analogico esistente tra l’uomo ed il tutto. Affinità culturali tra l’arte e correnti di pensiero inquadrabili in un contesto “magico” sono peraltro numerose ed anche recenti, riportiamo le parole di A. Breton nel secondo manifesto del surrealismo nel 1929 “Le ricerche surrealiste presentano quanto al loro obbiettivo una notevole analogia con le ricerche alchemiche; la pietra filosofale è in sostanza ciò che deve permettere all’uomo, all’artista, di prendere una rivalsa sulle cose”. Per la valenza mitica di Apollo e Dioniso, l’opera di Nietzsche “La nascita della Tragedia” rimane tuttora insuperata ed è ad essa che facciamo riferimento. L’anima greca, secondo l’interpretazione di Nietzsche, oscilla e si muove tra due poli, tra due visioni del mondo, tra due modi di affrontare e concepire la vita, simboleggiati appunto da queste due divinità. All’inizio, secondo la cosmogonia greca, è il caos primordiale.
Immerso in questo abisso incommensurabile, inconoscibile, in questa voragine senza fondo e senza nome (“Apeiron”, ciò che non ha limite, così chiamavano i greci questo nulla), l’angoscia dell’uomo è intollerabile. “La cosa migliore è non essere mai nati”, in questa risposta data dal saggio Sileno al re Mida, che chiedeva di sapere quale fosse per l’uomo la cosa più desiderabile, si palesa la più ancestrale verità dell’anima greca, nata da questa tremenda presa di coscienza. Per sostenere l’uomo, per occultare questa angoscia, è necessario l’intervento di un dio e questo dio è Apollo, in quanto è lui che “fa luce nelle tenebre”. Tramite Apollo l’angoscia dell’uomo si sublima e, sublimandosi, diventa volontà: volontà di cosa? Volontà di dare una forma, di porre un limite a ciò che non ha limite, di agire in uno spazio, un tempo, un ordine, di tracciare limiti invalicabili al caos, all’irrazionale, al nulla. La vita acquista uno scopo, un senso, una finalità. Gran parte della filosofia e della scienza greca nascono e si spiegano da questa volontà di porre nella ragione, nel nous, nel limite, nel cosmos il valore supremo. La rigida maestà dell’arte dorica, l’aspra sdegnosità dell’etica, l’aristocratico orgoglio dell’elleno verso lo straniero, il barbaro, la durezza inflessibile dell’educazione guerriera di una città come Sparta, la scarsa considerazione verso la donna e l’elemento femminile in genere, testimoniano nel tempo l’assolutizzarsi di tale volontà. La tangibilità, la solidità della materia rappresentano la sincope dell’angoscia primordiale del vuoto; la scultura e l’architettura saranno pertanto le espressioni artistiche proprie ad Apollo. Si, la vita ora ha uno scopo, un significato, una ragione, un “logos”, ma tutto questo comporta un prezzo da pagare, il dualismo: il giorno opposto alla notte, il cosmos opposto al caos, la luce opposta alle tenebre. Tutto ciò che è profondità, irrazionalità, tutto ciò che non ha legge né scopo né ragione perché non può averne, dato che la vita, nella sua nudità, è legge, scopo e ragione a se stessa, non può essere cancellato, preme contro i confini segnati da Apollo ed al di là di questi confini-illusori irrompe inarrestabile Dioniso, il dio che danza, Dioniso con la sua vertigine, la sua ebbrezza, la sua natura selvaggia, menadica, orgiastica; la vita, con i suoi misteri, la sua insondabilità, i suoi mille indecifrabili volti, la sua ciclica vertigine di nascita e morte reclama i suoi diritti. Di nuovo quindi il caos, l’irrazionalità, l’angoscia ottenebreranno l’animo dell’uomo? Ed ecco che avviene il miracolo, il miracolo che rende insuperata la civiltà di quel pugno di uomini abbarbicati su una manciata di isole pietrose e coste selvagge scavate dal mare: i due istinti si armonizzano, la tensione si placa, la durezza dorica si stempera nell’ebbrezza dionisiaca, l’irrazionalità ed il caos si giustificano nell’etica apollinea, e da questa armonia, sul filo sottile di questo equilibrio nasce la catarsi della tragedia e la figura dell’eroe tragico; tragico in quanto sublime, sublime in quanto totalmente, profondamente umano, l’uomo che non ignora, non vuole più ignorare il nulla, il fato, ma ad esso oppone la consapevolezza della sua nobiltà, la forza della sua anima, la dignità del suo dolore, il suo dire sì alla vita in tutti i suoi aspetti, totalmente, assolutamente, divinamente. Per quanto riguarda Prometeo il suo mito rientra a pieno titolo nelle categorie di questo eroismo tragico, insieme ad altri e fondamentali significati che qui non è il caso di evidenziare. Tutti conoscono la sua vicenda che pertanto non è il caso di ricordare. Quello da evidenziare, come nel mito di Ulisse che pure merita una trattazione a parte per le molteplici simbologie delle sue avventure, è il manifestarsi di un’altra caratteristica fondamentale dell’uomo occidentale: la sua volontà, il suo bisogno di ricerca, di avventura, la sempre inappagata sete di conoscenza. E chi se non l’artista può far sua questa via? Chi se non l’artista, novello Ulisse e Prometeo può avventurarsi oltre le colonne d’Ercole della mediocrità, della stupidità, del conformismo, della ignoranza, dell’egoismo, e di là, esplorando regioni arcane e sconosciute, riportare agli uomini il fuoco nascosto degli dei? Riassumendo: ritorno magico e vivente alla natura, tensione eroica sublimata nell’armonia tra razionalità apollinea ed ebbrezza dionisiaca, volontà e capacità di affrontare l’ignoto, amore per l’avventura. In tali caratteristiche ravvisiamo i principi per una rinascita artistica e culturale consona alla nostra tradizione.