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La Lezione di Louis Dumont

di Michele Orsini - 29/10/2008

La storia dell’antropologia è piena di fraintendimenti di culture altre, dovute alla tendenza a cercare in esse qualcosa di familiare, fino a vedervelo anche quando non c’è, nonché di fascinazioni esotiche, tanto da suscitare, se non giustificare un’accusa di antioccidentalismo riferita alla disciplina nel suo insieme.

La gran parte delle ricerche antropologiche è stata per lungo tempo dedicata a società per così dire “primitive”, in genere numericamente piuttosto ridotte, e ha prodotto così un ricchissimo inventario di usi e costumi di popolazioni lontane. Non è un mistero che molti degli studiosi che hanno portato avanti tali lavori erano, per le loro posizioni ideologiche, portati alla critica nei confronti della società occidentale e che spesso hanno ceduto alla tentazione di esercitarla mediante il paragone tra i propri oggetti

di studio e la società d’origine.

Però le cose cambiano quando l’oggetto di studio non è più una società molto piccola, ma una grande civiltà, la cui forma influenza la vita di moltitudini di esseri umani. Esempio: i cannibali del Borneo, nonostante il forte tabù che la loro pratica infrange (rispetto alla nostra cultura) sono visti come una curiosità, quindi si sospende il giudizio, per poi indignarsi molto di più per il fatto che i cinesi cucinano e mangiano i cani, come se ciò fosse più immorale di mangiare carne di manzo o di cavallo.

Insomma in questo campo, a differenza che in altri, le dimensioni contano: il pregiudizio antioccidentale degli antropologi, aumentando la grandezza dell’oggetto di studio, si rovescia diventando filo-occidentale; si tratta della matrice dei vari pregiudizi che influenzano pesantemente l’odierna politica, come quelli antirusso, anticinese, antiiraniano e via dicendo.

I pregiudizi colpiscono sempre non soltanto le loro vittime dirette, ma anche chi non ne ha: a pagare il prezzo di questo tipo pregiudizio è stato certamente Louis Dumont (1911-1998)  che dovrebbe essere considerato uno dei maggiori antropologi di ogni tempo, ma i cui libri, non molti, ma notevoli, non hanno ricevuto tutti i consensi che meritavano.

Tutta la carriera di Dumont ruota attorno al suo Homo Hierarchus, pubblicato nel 1966 col sottotitolo Essai sur le systeme du caste (nella traduzione italiana Il sistema delle caste e le sue implicazioni). Il cuore del libro è il concetto di casta, sul quale l’Occidente ha accumulato una quantità d’equivoci, partendo dal quale Dumont giunge al confronto tra due modelli fondamentali di società: quello olistico  e quello individualistico

La forza dell’opera è nel suo doppio aspetto di studio su una realtà particolare e di fondazione metodologica di una teoria generale della, o meglio delle, società. La società indiana è studiata, nota bene attraverso l’osservazione diretta, come un fenomeno totale. Alla casta, descritta estesamente dal punto di vista istituzionale, economico e sociologico, viene riconosciuto un fondamento religioso che la colloca all’interno di un ordine trascendentale nel quale l’individuo non ha spazio autonomo. Il sistema sociale che ne risulta è armonico con la mentalità collettiva che lo caratterizza. Parallelamente la civiltà occidentale è per Dumont coerente con lo spazio che viene concesso al suo interno all’individualismo. I due tipi di società sono entrambi giustificati, per la loro conformità con i rispettivi presupposti: in un tipo di società l’autonomia dell’individuo è una minaccia per l’armonia sociale, nell’altro ne è la condizione essenziale: le ideologie fondanti sono tutte e due animate, per così dire, da ottime intenzioni e perciò il giudizio etico è in entrambe le situazioni assolutorio.

I problemi nascono quando si vuole giudicare la società di tipo olistico basandosi su punti di riferimento individualistici, si tratta di una pretesa totalitaria e Dumont lo afferma, senza tentennamenti:

 

“la tolleranza gerarchizzante tradizionale cede qui il passo a una mentalità moderna, che è una mentalità totalitaria, la struttura gerarchica è sostituita da una materia unica e rigida”.

 

La lezione di Dumont è preziosa non soltanto per gli antropologi, ma per chiunque voglia comprendere quelle società in cui a tutt’oggi il principio olistico è prevalente e ne voglia parlare con un minimo di onestà intellettuale. Quindi per tutti coloro che si interessano alla politica internazionale.

Esemplare questo passaggio:

 

“Da parte mia non credo che il paragone tra le società debba farsi sotto il segno del concetto che esse hanno della persona, perché questo, a mio avviso, è fondamentale per certe persone e non per altre, anche se ogni concetto di società implica necessariamente un determinato modo di concepire gli uomini”.

 

Per l’autore la gerarchia è il “principio di gradazione degli elementi di un insieme in riferimento all’insieme” o “una relazione che si può succintamente definire inglobamento del contrario”, riconoscendone così uno dei pregi maggiori: l’inclusione, cui si contrappone il rischio d’esclusione che caratterizza in modo crescente le liberaldemocrazie occidentali.

“Gerarchia” è diventata una parolaccia, il cui solo suono evoca atmosfere sulfuree, Dumont ci spiega che ciò avviene perché, ormai, “chi dice gerarchia dice sfruttamento”, ma riconosce:

 

“Il sistema delle caste dovrebbe sembrare meno sfruttatore, di quanto lo sia la società democratica. Se l’uomo moderno non vede ciò è dovuto al fatto che egli non concepisce più la giustizia al di fuori dell’uguaglianza”.

 

La regola generale proposta da Dumont per il confronto tra culture è questa:

 

“la comparazione richiede concetti che tengano conto dei valori che società diverse hanno scelto per sé”.

Questa è una formulazione del relativismo culturale, ovvero di una delle vette del pensiero antropologico, da non confondere col relativismo etico: rifiutare il primo è segno di una mentalità totalitaria, accettare il secondo è pura e semplice immoralità.

Gli antropologi riconoscono l'esistenza di pochissimi universali culturali, ovvero di norme che accomunano tutte o quasi le culture. Uno di questi universali, in campo etico, potrebbe essere questo: mantenere la parola data è giusto, non farlo sbagliato. Non esistono, difatti, culture che innalzino la menzogna a valore. E' allora inutile parlare della civiltà occidentale come superiore, se essa non mantiene le proprie premesse e promesse: essa si fonda sui principi della libertà e dell’uguaglianza (se non ontologica, almeno di fronte alla legge), Vi sembra forse che queste premesse vengano rispettate?