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Anche la poesia può essere nera o bianca, a seconda delle forze che serve?

di Francesco Lamendola - 30/10/2008


Qualche tempo fa abbiamo dedicato una serie di articoli ad alcuni aspetti del pensiero filosofico di una interessante figura di maestro spirituale del Novecento, Georges Ivanovic Gurdjieff  (cfr. «L'uomo, secondo Gurdjieff, è una pluralità, e il suo nome è legione»; «Nel pensiero di Gurdjieff la lotta dell'uomo per conquistare un centro di gravità permanente» e «Le quattro vie per l'immoralità nel pensiero di Gurdjieff», tutti consultabili sul sito di Arianna Editrice).
Un allievo di Gurdjieff - che, nella seconda parte della sua vita, si era trasferito in Francia, ove ebbe in cura anche la scrittrice neozelandese Katherine Mansfield, malata terminale di tubercolosi - è stato il poeta René Daumal, nato in un paese delle Ardenne, Boulzicourt, nel 1908 e morto a Parigi nel 1944.
Co-fondatore e collaboratore, alla fine degli anni Venti, della rivista «Le Grand Jeu», che svolse temi analoghi a quelli del surrealismo, senza però identificarsi con esso, Daumal si fece notare con alcune raccolte di versi, quali «Contro-cielo», del 1936, e «La grande gozzoviglia», del 1938;  mentre una serie di importanti saggi è stata pubblicata solo dopo la sua morte.
Nel corso della sua breve vita terrena, Daumal - che, col passare degli anni, rivela sempre di più la sua statura artistica di livello mondiale - ha condotto una tesa, ostinata e solitaria ricerca di tipo mistico-spirituale, convinto che la parola sia superiore al pensiero e che possa esprimere verità che a quello rimangono negate o solo parzialmente visibili.
Come altri intellettuali del tempo, ma partendo da una prospettiva molto originale, egli riteneva che la cultura europea si fosse irrigidita e sclerotizzata in una struttura di tipo unidimensionale, che le impedisce di esprimere le energie più fresche e vive della creatività liberata; somigliante, nella sua feroce polemica antiborghese, ai furori iconoclasti di un Antonin Artaud, ma accompagnato sempre da un altissimo ideale di che cosa debba essere poesia e cosa no.
Anzi, per usare il suo linguaggio, di che cosa sia la poesia nera e che cosa la poesia bianca: intendendo, con questi termini, rispettivamente una poesia posta al servizio di ciò che sta al di sotto dell'umano - basse ambizioni, vanità, orgoglio, menzogna, pigrizia; ed una poesia che tende al sovrumano e che si sforza di mostrare il poeta quale realmente è, povero e nudo, ma arricchito da un dono misterioso che non è frutto della sua abilità.
Mentre il poeta nero si vanta di essere lui l'autore della propria opera, il poeta bianco è modesto; e confessa apertamente la sua indigenza e debolezza, attribuendo ogni merito al dono che gli è venuto dall'alto.
Con uno slancio e un candore che sono, al tempo stesso, di matrice mistica e puritana Daumal denuncia la falsità del poeta che riduce la sua arte a mestiere e che si serve della parola insincera, ma accattivante; che, appunto, si prostituisce ai gusti più bassi del pubblico, tradendo la propria vocazione e il proprio dono in vista di meschini vantaggi materiali, quali il successo e l'appagamento della propria vanità.

Il saggio «Poésie noire, poésie blanche», pubblicato nel 1954 (dieci anni, dunque, dopo la scomparsa dell'autore), ma composto al principio della seconda guerra mondiale,  illustra approfonditamente questi concetti (da «La conoscenza di sé», Milano, Adelphi Edizioni, 1972, 1986, pp. 85-90):

«Come la magia, la poesia è nera o bianca, a seconda che serva il subumano o il sovrumano.
Le medesime disposizioni innate comandano i meccanismi del poeta bianco e del poeta nero. Alcuni le definiscono un dono misterioso, un suggello delle potenze superiori, altri un'infermità o una maledizione. Non importa. O sì, piuttosto! Importerebbe molto, ma noi non siamo ancora in grado di capire l'origine delle nostre strutture essenziali. Colui che arrivasse a capirle, se ne libererebbe. Il poeta bianco cerca di capire la propria natura di poeta, di liberarsene e di fare che serva. Il poeta nero se ne serve e vi si asservisce.
Ma che cos'è questo "dono" comune a tutti i poeti? È un legame particolare tra le diverse vite che compongono la nostra vita, tale che ogni manifestazione di una di tali vite non ne è più soltanto il segno esclusivo, ma può diventare, per una risonanza interiore, il segno dell'emozione che è, a un dato momento, il colore, il suono o il sapore di se stessi. Quest'emozione centrale, profondamente nascosta in noi, non vibra e non splende che in rari attimi. Questi attimi, per il poeta, saranno i momenti poetici e tutti i suoi pensieri, sensazioni, gesti e parole, in un tale momento, saranno i segni dell'emozione centrale. E quando l'unità del loro significato si realizzerà in un'immagine che si affermerà per mezzo di parole, allora più particolarmente diremo che è poeta. Ecco cosa noi chiameremo "dono poetico", poiché non ne sappiamo di più.
Il poeta ha una nozione più o meno confusa del proprio dono. Il poeta nero lo sfrutta per soddisfazione personale. Crede di avere il merito di questo dono, crede di essere lui a fare volontariamente delle poesie. Oppure, abbandonandosi al meccanismo dei significati risonanti, si vanta di essere posseduto da uno spirito superiore, che l'avrebbe scelto come interprete. In entrambi il dono poetico è al servizio dell'orgoglio e dell'ingannevole immaginazione.
Manipolatore o ispirato, il poeta nero mente a se stesso e crede di essere qualcuno. Orgoglio, menzogna;  e un terzo termine lo caratterizza: pigrizia.  Non è che non si agiti o non si affanni, o non ne faccia mostra. Ma tutta questa agitazione si crea da sé, e lui si guarda bene dall'intervenire, questo lui povero e nudo che non vuole essere visto né vedersi povero e nudo, che ognuno di noi si sforza di nascondere sotto le proprie maschere. È il "dono" che opera in lui, ed egli ne gioisce come un "voyeur", senza mostrarsi; se ne riveste, come il paguro dal ventre molle si rifugia, adornandosene, nella conchiglia del murice, fatta per produrre la porpora regale e non per rivestire aborti vergognosi. Pigrizia di vedersi, di lasciarsi vedere, paura di non avere altra ricchezza all'infuori delle responsabilità che si assumono, di questa pigrizia parlo - madre di tutti i vizi!
La poesia nera è feconda di illusioni come il sogno e come l'oppio. Il poeta nero gusta tutti i piaceri, si orna di tutti gli ornamenti esercita tutti i poteri - nella sua immaginazione. Il poeta bianco alle ricche menzogne preferisce il reale, anche povero. La sua opera è una lotta incessante contro l'orgoglio, l'immaginazione e la pigrizia.  Accettando il suo dono, anche se ne soffre e soffre di soffrirne, cerca di utilizzarlo per fini superiori ai suoi desideri egoistici, per la causa ancora sconosciuta di questo dono.
Non dirò: il tale è un poeta bianco, il tale è un poeta nero. Sarebbe un cadere da idee in opinioni,  discussioni ed errori. Non dirò neppure:  il tale ha il dono poetico, il tale non l'ha. L'ho io forse? Spesso ne dubito, talvolta credo di esserne sicuro. Non ne sono mai certo una volta per tutte. Ogni volta il problema è nuovo. Ogni volta che l'alba appare, il mistero è lì, intatto., Ma se un tempo fui poeta,  certamente fui un poeta nero, e se domani dovrò essere un poeta, voglio essere un poeta bianco. Di fatto, ogni poesia  umana è mista di bianco e di nero:  ma ce ne sono che tendono verso il bianco, e altre che tendono verso il nero.
Quelle che tendono verso il nero non hanno da fare alcuno sforzo. Seguono la china naturale e subumana. Non occorrono sforzi per vantarsi, per sognare, mentirsi e poltrire; né per calcolare e combinare quando calcoli e combinazioni sono al servizio della vanità, dell'immaginazione, dell'inerzia. Ma la poesia bianca va controcorrente, risale il flusso come la trota, per andare a generare alla sorgente viva.. Tiene testa, con energia e scaltrezza, alle fantasie delle rapide e dei risucchi non si lascia distrarre dal riflesso cangiante delle bolle che passano , né trascinare dalla corrente verso le dolci valli limacciose.
Come conduce questa lotta il poeta che vuol diventare un poeta bianco? Dirò come cerco di condurla io, nei miei rari momenti buoni, affinché un giorno, se sono un poeta, la mia poesia, per quanto grigia, possa emanare almeno un desiderio di bianchezza.
Distinguerò tre fasi nell'operazione poetica: quella del germe luminoso, quella della veste d'immagini e quella dell'espressione verbale.
Ogni poesia nasce da un germe, dapprima oscuro, che bisogna far diventare luminoso, perché produca dei frutti di luce. Nel poeta nero il germe rimane oscuro e produce cieche vegetazioni  sotterranee. Per farlo splendere, bisogna fare silenzio,  perché questo germe è proprio la Cosa-da-dire, l'emozione centrale che, attraverso tutta la mia macchina, vuole esprimersi. La macchina in se stessa è oscura, ma le piace proclamarsi luminosa e riesce a farlo credere. Appena messa in azione dalla spinta del germe, pretende di agire per proprio conto, per esibirsi e per il piacere vizioso di ogni sua leva e ingranaggio. Silenzio, dunque, macchina! Funziona e taci! Silenzio ai giochi di parole, ai versi memorizzati, ai ricordi raccolti casualmente, silenzio all'ambizione, al desiderio di risplendere - poiché la luce sola splende di per se stessa -, silenzio alla lusinga di sé, alla commiserazione di sé, al gallo che crede di far spuntare il sole. E il silenzio allontana le tenebre, e comincia a brillare il germe, che rischiara, non rischiarato. Ecco quel che bisognerebbe fare. È molto difficile, ma ogni piccolo sforzo riceve in compenso un piccolo bagliore di luce. La Cosa-da-dire appare, allora, nel più profondo di se stessi come una certezza eterna - nello stesso tempo conosciuta, riconosciuta e sperata -, un punto luminoso che contiene l'intensità del desiderio di essere.
La seconda fase è la vestizione del germe luminoso - che rivela ma non è rivelato, invisibile come la luce,  e silenzioso come il suono -, il suo rivestirsi con le immagini che lo manifesteranno. Qui ancora una volta, passando in rassegna le immagini, bisogna respingere e incatenare ai loro posti quelle che non vogliono servire altro che la facilità, la menzogna e l'orgoglio. Molte sono belle, e si vorrebbe mostrarle! Ma, fatto ordine, bisogna lasciare che il germe stesso scelga la pianta o l'animale di cui si vestirà, dandogli vita.
E per terza l'espressione verbale, nella quale contano non soltanto il lavoro interno, ma anche la scienza e l'abilità esterne. Il germe ha la sua propria respirazione. Il suo respiro si impadronisce dei meccanismi dell'espressione, comunicando loro la sua cadenza. Dunque, innanzitutto, siano questi meccanismi ben oliati e rilassati quanto basta  perché non si mettano a danzare le loro danze proprie, a scandire metri incongrui. E mentre piega i suoni del linguaggio al suo respiro, la Cosa-da-dire li induce così a contenere le sue immagini. Come segue questa doppia operazione? È questo il mistero. Non è per una combinazione intellettuale; : ci vorrebbe troppo tempo; né per istinto: l'istinto non inventa. Questo potere si esercita grazie al legame particolare che esiste tra gli elementi del poeta e che unisce  in una sola sostanza vivente quelle materie  così diverse che sono le emozioni, le immagini, i concetti e i suoni, La vita di questo nuovo organismo è il ritmo del poeta.
Il poeta nero fa pressappoco il contrario, sebbene si verifichi in lui l'esatta apparenza di queste operazioni. La sua poesia gli apre numerosi mondi, certo, ma mondi senza Sole illuminati da cento lune fantastiche, popolati di fantasmi, ornati di miraggi e a volte lastricati di buone intenzioni. La poesia bianca apre la porta di un solo mondo, di quello dell'unico Sole, senza illusioni, reale.
Ho parlato di quello che sarebbe necessario fare per diventare un poeta bianco. E io sono ancora ben lontano dal riuscirci! Anche nella prosa, nella parola e nella scrittura ordinarie - come in tutti gli aspetti della vita quotidiana - quello che produco è grigio, chiazzato, sporco, misto di luce e di buio.  Allora prendo subito la lotta. Mi rileggo. Nelle mie frasi vedo parole, espressioni, parassiti che non servono la Cosa-da-dire; un'immagine che ha voluto essere strana, un gioco di parole che ha voluto essere divertente, una pedanteria di un certo pedante che dovrebbe proprio starsene seduto alla sua scrivania, invece di venire a suonar l'ottavino nel mio quartetto d'archi; e, cosa notevole, nello stesso tempo è un errore di gusto, di stile o persino di sintassi. La lingua stessa sembra essere congegnata per svelarmi gli intrusi..  Pochi gli errori di pura tecnica. Quasi tutti sono errori  miei. E cancello, e correggo, con la gioia  che si può avere tagliandosi via dal corpo una parte cancrenosa»

Si sarà notato che Daumal esamina le caratteristiche della poesia nera e della poesia bianca essenzialmente dal punto di vista dell'atteggiamento soggettivo del poeta, a seconda che egli si mostri fedele, oppure no, alla purezza della missione che gli è stata affidata: quella di mettere il suo dono al servizio della propria liberazione e di quella di coloro che lo leggono.
Invece, a dispetto della terminologia adoperata per definire questi due tipi di poesia, che evoca  concetti di natura etica e religiosa, piuttosto che strettamente estetica, ben poco egli dice a proposito della natura del dono stesso, confessando anzi, apertamente, di non sapere quasi nulla al riguardo. Afferma che si tratta di un legame particolare tra le diverse vite che compongono la nostra vita, tale da rivelarci, in virtù di una emozione, il colore e il suono della nostra intera vita. Aggiunge che i poeti medesimi non hanno una precisa nozione del dono che ricevono.
In questo senso, si direbbe che per Daumal - come per Pascoli - tutti gli uomini siano, almeno potenzialmente, poeti; ma subito dopo egli sostiene che quella emozione centrale, profondamente nascosta in noi, non vibra e non splende che in rari attimi. Il compito del poeta è, allora, quello di realizzare l'unità del significato di tali attimi in un'immagine, per mezzo di parole.
Sorge a questo punto la domanda se il dono poetico in se stesso, ossia la rivelazione del legame che fa delle nostre diverse vite una realtà unitaria e la capacità di tradurre questa emozione fondamentale in immagini e, quindi, parole, possa essere utilizzato indifferentemente in termini di magia bianca o nera; se, cioè, il poeta - come il mago - sia l'unico artefice dell'utilizzo di un tale dono per il bene o per il male.
Confessiamo di essere un po' perplessi davanti alla pretesa di far ricadere sul poeta una responsabilità così grande e così totale. Se, infatti, l'albero della poesia è buono, come potrebbe dare frutti cattivi? Ma se, per ipotesi, esso fosse cattivo, come potrebbe generare frutti buoni?
Infatti, checché ne pensassero cultori di magia sul genere di John Dee, la magia consiste nel dominio di forze non soprannaturali, ma preternaturali, e nel loro impiego ai propri fini: in altre parole - e sappiamo che questa affermazione non troverà d'accordo molte persone - la magia è sempre, per sua natura, magia nera. Non esiste una magia bianca, perché le forze preternaturali delle quali il mago si serve non vengono certo dall'alto: se venissero dall'alto, esse giungerebbero in risposta a una preghiera, non in obbedienza ad un ordine.
Il mago, insomma, si serve, sempre e soltanto, dell'opera dei demoni; e, ovviamente, non può farlo senza concedere loro qualcosa in cambio del potere che essi gli assicurano. Ma i demoni non si accontenterebbero di nulla di meno, che dell'anima del mago: dunque, il mago - per quanto si possa lusingare, nel suo sconfinato orgoglio, che le cose stiano altrimenti - non è che lo schiavo delle forze del male da lui stesso evocate. È appena il caso di precisare che noi, qui, stiamo parlando di magia in termini oggettivi, indipendentemente dal grado di credenza che possiamo accordare alla sua reale efficacia. Non occorre credere nella magia, per studiare il comportamento dei maghi; così come non occorre credere al Maligno (e neanche negarlo, del resto) per sapere che il satanismo esiste e per studiarne la natura e gli scopi.
Ci domandiamo, a questo punto, se il parlare di poesia nera e di poesia bianca implichi una analogia non solo esteriore, ma di sostanza, con la magia. Se, infatti, il poeta è paragonabile a un mago, allora bisognerebbe concludere che, così come non esistono, a rigor di logica, dei maghi bianchi, ma solo dei maghi neri, ugualmente non dovrebbero esistere dei poeti bianchi, ma soltanto dei poeti neri.
Noi non lo crediamo; e ci domandiamo se questa conclusine, che pure è logica, derivi solo da un paragone infelice tra la poesia e la magia, istituito da Daumal; oppure se la poesia possa realmente venire equiparata alla magia, nel qual caso bisognerebbe concludere che, per definire le opere letterarie concepite e realizzate per fini superiori e scevre di desideri egoistici, si dovrebbe adoperare un termine diverso da quello di "poesia".
Non è, si badi, una questione puramente nominalistica.
Daumal afferma che la poesia è bianca oppure nera; e che ciò dipende dalla disposizione interiore del poeta, mediante la quale le immagini e le parole assumono una diversa coloritura. Ma, se la pratica della poesia nera nasce da una dinamica analoga a quella della magia nera, allora vuol dire che il "dono" originario del poeta è di natura non dissimile da quel potere, che è l'oggetto delle ambizioni del mago. E, se è vero - come crediamo - che il mago sia, per definizione, un mago nero, allora anche il poeta dovrà essere, per forza di cose, un poeta nero, ossia un servitore delle forze infere.
Come abbiamo visto, Daumal sostiene che

«Il poeta bianco cerca di capire la propria natura di poeta, di liberarsene e di fare che serva. (…) Accettando il suo dono, anche se ne soffre e soffre di soffrirne, cerca di utilizzarlo per fini superiori ai suoi desideri egoistici, per la causa ancora sconosciuta di questo dono. (…) Il poeta nero se ne serve e vi si asservisce.»

Vi è una evidente contraddizione fra l'idea che il poeta bianco debba "liberarsi" della propria natura di poeta, e l'affermazione che egli deve fare in modo che essa serva: come può fare ciò, se se ne è liberato? E poi, perché se ne deve liberare, dopo averla riconosciuta?
Forse perché quel dono misterioso non viene dall'alto, dal sovrumano, ma dal basso, cioè dal subumano?
E poi, perché Daumal scrive che noi non siamo ancora in grado di capire l'origine delle nostre strutture essenziali, e tuttavia, se  arrivassimo a capirle, ce ne libereremmo? Liberarcene, in che senso?
Se è un dono che viene dall'alto, perché ce ne dovremmo liberare?
In ogni caso, Daumal ammette di non sapere se esso venga dall'alto o dal basso; confessa, di buon grado, che sappiamo ben poco circa la natura del "dono poetico", tranne il fatto che esso è misterioso.
Di fatto, egli aggiunge, ogni poesia  umana è mista di bianco e di nero: ma ve ne sono alcune che tendono verso il bianco, e altre che tendono verso il nero Dice anche che è più facile, per un poeta, tendere verso il nero, perché ciò non implica la necessità di alcuno sforzo, ma solo quella di seguire la china naturale e subumana. Infatti, non occorrono sforzi per vantarsi, per sognare, mentirsi e poltrire; né per calcolare e combinare.
Se ne deduce che, per lui, la natura umana è come sospesa in bilico tra due opposte possibilità: scivolare verso il basso, senza sforzo, e sprofondare nella dimensione subumana; oppure tendere, con fatica, verso l'alto, onde innalzarsi al di sopra della condizione umana ordinaria.
Nell'uno e nell'altro caso, si direbbe che non vi sia nulla di troppo misterioso; nulla, comunque, di soprannaturale. Per abbandonarsi all'egoismo e alla menzogna, l'uomo non avrebbe che da assecondare la propria natura; per trascenderla, dovrebbe impegnarsi con tutte le sue forze; e il poeta, lo stesso.
Ma allora, perché definire la poesia "un dono"? Un dono di chi, e perché? Non basta dire che è misterioso e che la sua origine ci sfugge.
Se non stiamo giocando con le parole, un dono è qualche cosa che ci viene offerto spontaneamente da qualcuno (o da Qualcuno); non qualche cosa che ci diamo da noi stessi; non qualche cosa che appartiene alla nostra natura, e sia pure in modo "misterioso".
Se, poi, si dice - come fa Daumal - che l'uomo tende naturalmente al "nero", allora ne risulterebbe che anche il dono è di origine infera; tanto è vero che l'uomo, riconosciutolo, se ne deve liberare, e trasformarlo in qualche cosa che serva, ma non per le sue brame disordinate.
Vi sarebbe bisogno di ciò, se fosse un dono che viene dall'alto?

No, c'è qualcosa che non fila in questo ragionamento.
Se la poesia è un dono che gli uomini ricevono, allora lo ricevono da altri che se stessi; e, se è in grado di realizzare valori positivi, quali il superamento dell'egoismo, dell'orgoglio e della pigrizia, allora è chiaro che viene dall'alto.
Se, invece, questo dono viene utilizzato per perseguire fini meschini e menzogneri, allora è difficile credere che esso venga dall'alto.
In altre parole, non riusciamo a credere che il dono, in se stesso, sia neutro, e che possa essere volto tanto verso il bianco, quanto verso il nero. È un discorso che abbiamo già sentito anche troppe volte, in genere riferito alla tecnica: si dice che un certo potere sulle cose, neutro in se stesso, può essere usato per il male o per il bene.
Ma davvero la tecnica è neutrale? E la poesia, è neutrale anch'essa?
Non possiamo crederlo: per noi, essa è sicuramente un dono, un dono che viene dall'alto.
Quando la poesia celebra i trionfi dell'egoismo, dell'orgoglio e della menzogna, allora dubitiamo si tratti di poesia: può averne le apparenze; ma, nella sua essenza, sarà qualcosa di radicalmente diverso, anzi, di opposto.
C'è poesia, dunque, e non poesia; ma non nel senso puramente estetico, come sosteneva Benedetto Croce; bensì in senso etico.
È poesia quella che serve, alimenta e incoraggia le forze del Bene; ed è non poesia quella che, cercando d'indossarne le vesti, celebra le forze del Male.
Non ci sono altre possibilità.
L'uomo non ha un potere così grande, da poter avvelenare i frutti di un albero buono in se stesso; né da rendere commestibili quelli di un albero che sia velenoso.
L'uomo è solo il custode del giardino, non ne è il creatore.
Se lo fosse, egli sarebbe Dio - oppure il Diavolo, secondo i punti di vista. Invece è soltanto una creatura che può scegliere fra il bene o il male; non è, egli stesso, né il Bene, né il Male.
Questo va sempre tenuto presente, allorché siamo tentati di cadere nei due eccessi opposti dell'ottimismo o del pessimismo antropologico ingiustificati.