Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / Il libro della settimana: Karl Mannheim, Le generazioni

Il libro della settimana: Karl Mannheim, Le generazioni

di Carlo Gambescia - 30/10/2008

Il libro della settimana: Karl Mannheim, Le generazioni, il Mulino 2008, pp. 128, euro 9,00 - www.mulino.it

Si fa presto a dire “la generazione del Sessantotto”… In quell’anno chi era nato nel 1946 ne aveva ventidue, chi nel 1950, diciotto, chi nel 1956, quattordici. Per non parlare delle scelte politiche. Ad esempio se il ventiduenne di cui sopra aveva simpatie marxiste, il diciottenne impazziva per i manifesti della Repubblica Sociale Italiana, mentre il quattordicenne, preferiva, dopo la scuola, dare quattro calci all’oratorio…
Però - ecco il punto - tutti, magari canticchiando “ Che colpa abbiamo noi”, sentivano di essere diversi dai padri e dai nonni. E soprattutto di essere stanchi di professori che ogni giorno ripetevano meccanicamente, la lezione di sempre, pensando solo al famoso ventisette del mese.
Ma basta la voglia di un nuovo modo di insegnare per accomunare concettualmente la generazione del Sessantotto?
Si dirà, non era “nuovismo” ma libertarismo. Concordiamo. Si trattava, è vero, di qualcosa di sociologicamente più profondo, all’epoca presente nel cinema, nella musica, nelle arti, eccetera, che poi sarebbe sfociato in quella rivoluzione dei diritti civili. I cui frutti, piaccia o meno, sono oggi sotto gli occhi di tutti.
Pertanto è nel libertarismo che dobbiamo trovare la nota di fondo che accomunava la generazione del Sessantotto. Facendo però una distinzione importante: si dovrebbe parlare di libertarismo come “legame generazionale”, nel senso di una comune risposta “istintiva” ai problemi del tempo ( la comune insofferenza verso un professore che spiegava stancamente, eccetera), e di libertarismo come “unità generazionale”, quale esempio di elaborazione del libertarismo, secondo il proprio credo politico: a sinistra il professore routinier veniva scacciato dall’aula, perché si puntava sulla rivoluzione; a destra lo stesso professore, pur criticato duramente, non veniva estromesso, salvo eccezioni, in nome dell’ autorevolezza insita a priori nella sua carica.
La distinzione concettuale non è nostra ma di Karl Mannheim, interessante figura di sociologo, morto cinquantenne nel 1947, kantiano mai pentito, socialista democratico e pianificatore, passato attraverso il fuoco del marxismo e del cristianesimo. Autore, tra l’altro, del celebre Ideologia e utopia (1929) e di un interessante studio intitolato Conservatorismo (1925-1927). Che consigliamo di leggere con Romanticismo politico (1919) di Carl Schmitt. Per scoprire, grazie alla bravura di due virtuosi della scienza politica, pregi e difetti del conservatorismo romantico…
Ma torniamo al punto. La distinzione è ripresa da Le generazioni. Un aureo volumetto di Karl Mannheim, uscito nell’anno di grazia 1928, ora ripubblicato, con un prefazione di Loredana Sciolla (il Mulino 2008, pp. 128, euro 9,00). Il testo andrebbe acquisito e letto solo per questa perla, che Mannheim nasconde sotto una rocciosa nota a pagina 118:

.

“ Si deve mettere il rilievo che “il poter ricominciare” [di generazione in generazione] non ha nulla a che fare con ‘conservatore’ o ‘progressista’. Non vi è nulla di più inesatto del pensare … che la giovinezza sia progressista e la vecchiaia eo ipso conservatrice. Esperienze contemporanee mostrano a sufficienza che la generazione liberale più anziana poteva essere politicamente più progressista di certi circoli giovanili (associazioni studentesche, ecc.). ‘Conservatore’ e ‘progressista’ sono categorie storico-sociologiche, orientate in base a una determinata dinamica storica… concreta, mentre ‘vecchio’ e ‘giovane’… sono pensati in modo sociologico formale. Si decide se una certa gioventù è conservatrice, reazionaria o progressista (almeno come tendenza generale), dalla misura in cui si aspetta che la struttura sociale esistente provveda alle sue possibilità di progresso sociale e culturale… Anche questa è una dimostrazione importante per la tesi principale di questo saggio… cioè che i fattori vitali (l’essere giovane o essere vecchio) non implicano per nulla i contenuti del comportamento spirituale (giovane non corrisponde necessariamente a progressista e così via)… Ogni equiparazione o collegamento di fattori biologici con fenomeni spirituali conduce da un qui pro quo, che genera solo confusione”.
.

In parole povere Mannheim spiega perché molti sessantottini, oggi sessantenni, sono rimasti libertari, e altri invece divenuti conservatori. Ma anche perché molti giovani, votino a destra, pur, o proprio, essendo libertari: non è l’età anagrafica che determina la confluenza generazionale, o almeno non sempre, ma i problemi dettati dal tempo e la capacità di rispondervi delle classi dirigenti preposte. E in base a queste risposte dall’alto variano quelle, in basso, delle generazioni.
Il problema degli anni Sessanta era l’ansia di libertà che accomunava i giovani del tempo, a prescindere dall’appartenenza politica. La classe dirigente dell’epoca non riuscì subito a capire l’importanza della questione. Di qui le battaglie per le libertà civili, intraprese da minoranze; si pensi al ruolo di socialisti e liberali di sinistra, ma anche di certi gruppi minoritari, studenteschi e non, a sinistra come a destra. Ma anche il trascinarsi per le lunghe di quella che poi verrà definita “modernizzazione dei costumi”. E che andrà ben oltre l‘accettabile riformismo sociale, soprattutto con l’arrivo della cultura dei consumi mediatizzati degli anni Ottanta.
Di qui il dividersi trasversale della generazione del Sessantotto, già nel decennio successivo, in termini di “’unità generazionale”, cioè rispondendo a problemi comuni non risolti in alto, secondo sensibilità politiche differenti in basso. Certo, restava il “legame generazionale”: ad esempio, e semplificando al massimo, si amava la stessa musica, ma la valenza antiautoritaria veniva letta alla luce dei diversi valori politici di appartenenza: ad esempio l’eguaglianza da un lato (a sinistra), la cultura delle differenze, fondata sul merito o la tradizione (a destra).
Insomma “unità” e “legame generazione” di regola non vanno insieme. A riguardo si legga quel che scrive Mannheim sulla cultura giovanile tedesca, travolta dal tornado napoleonico:

“ La gioventù tedesca attorno al 1810 viveva uno stesso legame di generazione sia che partecipasse al movimento liberale di quel tempo, sia che invece fosse su posizioni conservatrici. All’interno di questo legame di generazione però si apparteneva ad un’unità di generazione o ad un’altra a seconda se si partecipava alle intenzioni fondamentali conservatrici o liberali” .
.

A questo punto i concetti di legame e unità generazionale dovrebbero essere chiari. Ma anche, crediamo, l’importanza di rileggere questo piccolo gioiello sociologico. E soprattutto di usarlo, recependone in chiave operativa le sue distinzioni, nell’ambito delle molte ricerche in corso sul Sessantotto, anche all’interno, come si dice, di una cultura da destra maggioritaria, giustamente interessata a ricostruire i propri rapporti con il Sessantotto.
Sotto questo aspetto, pensiamo che debba essere approfondito - e qui introduciamo un altro concetto di Mannheim - anche quello di “collocazione sociale” della generazione. Ad esempio, riteniamo sia esistito un Sessantotto libertario anche in economia, nel senso, come si diceva all’epoca, di aprire i cancelli delle fabbriche alla democrazia diretta. Di qui l’importanza di studiare la dialettica tra studenti e operai appartenenti alla stessa generazione, ma con estrazione sociale diversa, e dunque “collocazione” differente. Ma anche l’importanza di capire, il ruolo svolto da certa destra giovanile anticapitalista perché spiritualista, che raccoglieva, a sua volta, giovani dalla provenienza sociale, spesso antinomica.
Vissero tutti il Sessantotto (e il post-Sessantotto) in modo simile? Ecco un’altra domanda alla quale si potrebbe cercare di rispondere con Mannheim. Il quale ci spiega come, pur appartenendo alla stessa generazione, “la collocazione può essere lasciata solo per mezzo di un’ascesa o una discesa individuale e collettiva… per sforzo personale, per congiuntura sociale oppure semplicemente per caso” . Il che non sempre era (e non è) alla portata di tutti, come lo stesso Mannheim aggiunge, qualche pagina più in là.
E diciamo pure che coloro che ce l’hanno fatta, soprattutto a sinistra, utilizzando il Sessantotto come leva per una “ascesa individuale”; inserendosi, e molto bene, nella ieri odiata società capitalistica, oggi preferiscono vantarsi del Sessantotto dei diritti civili e non di quello delle fabbriche. Chissà perché?