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India: cibo, non acciaio

di Manuela Cartosio - 30/10/2008

 

Giovedì scorso dalla base di Sriharot, nello stato dell'Andra Pradesh, l'India ha mandato in orbita la sua prima sonda lunare. Qualche giorno prima, nello stato del Jharkhand, migliaia di contadini adivasi, "armati" di archi e falcetti, avevano manifestato contro la costruzione sulle loro terre di una mega acciaieria. E ieri a Dhinkia, nello stato dell'Orissa, centinaia di contadini, donne e studenti hanno ribadito il loro no a un' altra grande acciaieria, progettata dalla Sud coreana Posco. Si tratta del più grande investimento estero in India: 12 miliardi di dollari. La Corte suprema indiana ad agosto ha dato il suo ok al progetto della Posco, ma la sentenza non ha fermato una protesta che va avanti dal 2005.
Definire l'India il paese dei contrasti è un luogo comune terribilmente vero. «Vogliamo cibo, non acciaio», è lo slogan delll'ultimo conflitto che in India vede contrapposte le popolazioni contadine, in questo caso tribali, agli insediamenti industriali. La Tata ha appena gettato la spugna nel Bengala Occidentale (la produzione della low cost Nano è stata trasferita altrove) e subito inizia un braccio di ferro con l'altro gigante indiano, il gruppo Mittal che, dopo l'acquisizione della francese Arcelor, è diventato il numero uno mondiale della siderurgia. Arcelor Mittal progetta di costruire nel Jharkhand un impianto in grado di sfornare 12 milioni di tonnellate d'acciaio l'anno. Costerà oltre 8 miliardi di dollari e occuperà una superficie di 4.450 ettari. I soldi da investire non sono un problema per Mittal. Il problema è la terra da cui le popolazioni tribali non vogliono separarsi.
«Non daremo un pollice di terra a Mittal», afferma la signora Dayamani Barla, leader del movimento contro la mega-acciaieria. In tutte le sedi, e di recente anche in Svezia dove ha partecipato a un incontro sui diritti delle popolazioni indigene, Dayamani Barla ripete che non è una questione di prezzo o di congrui indennizzi. «Per una comunità tribale la terra non è un bene da alienare, ma un'eredità da proteggere e da passare alle future generazioni». Da quei 4.450 ettari di campi e foreste gli abitanti di una quarantina di villaggi non ricavano solo sostentamento, traggono da lì anche «identità, dignità, autonomia». Accettare d'essere spostati altrove equivarrebbe a spezzare il rapporto con la terra degli avi. Per questo nel conflitto contro Arcelor Mittal sono disposti a mettere in gioco tutto, «compresa la loro vita».
Parole pesanti e intenzioni drastiche che mal si conciliano con l'ottimismo del Partito del Congresso del Jharkland, favorevole all'insediamento dell'acciaieria. «Creerà molti posti di lavoro, quando le popolazioni locali vengono informate dei benefici che ne deriveranno smettono d'osteggiare il progetto», sostiene un parlamentare locale del Congresso. Mittal, per ora, non sembra intenzionata a forzare i tempi. «Non vogliamo rubare la terra a nessuno», assicura un portavoce del gruppo interpellato dalla Bbc, «aspetteremo finché il problema verrà risolto».
La protesta anti-Mittal, come quella anti-Tata, è guidata da una donna (a proposito di contrasti: nell'India che seleziona i nascituri in base al sesso c'è una forte tradizioni di donne al comando). Ma mentre Mamata Bannerjee, che ha costretto la Tata ad abbandonare il Bengala Occidentale, è una politica scafata dotatasi di un partito personale, Dayamani Barla è la portavoce di un movimento dal basso. Di umili origini, è diventata la prima giornalista adivasi nello stato del Jharkhand. Si guadagna da vivere gestendo un piccolo tea shop.