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Il creazionismo e i suoi critici nell'antichità

di Francesco Verde - 30/10/2008

David Sedley, Creationism and Its Critics in Antiquity

 

 

 

 

 

 

Creationism and Its Critics in Antiquity è un libro importante. La sua importanza risiede in molti aspetti ma soprattutto in uno: esso colma una (grave) lacuna nell’ambito degli studi sul pensiero antico. Ciò, ovviamente, non significa che nessun interprete prima di David Sedley abbia toccato questo argomento - si ricordano in questa sede lo studio pionieristico di W. Theiler, Zur Geschichte der teleologischen Naturbetrachtung bis auf Aristoteles (Zürich 19241; Berlin 19652) e i diversi contributi di Pease e Hankinson - ma sicuramente non esiste uno studio completo sulla questione del creazionismo e della teleologia che passi in rassegna l’intera estensione del pensiero antico. Il volume di Theiler, del resto, come si evince intuitivamente dal titolo, si occupa della nozione di teleologia fino ad Aristotele mentre Sedley include (davvero meritoriamente) le filosofie ellenistiche fino a Galeno cui è dedicato l’epilogo.

Il volume è il risultato delle Sather Lectures tenute dall’autore nel 2004 presso la University of California (Berkeley) e ora messe a disposizione del pubblico specialistico e non; ed è proprio questo un punto su cui mi preme richiamare l’attenzione. Le pagine di Sedley non sono rivolte esclusivamente a un pubblico di specialisti, magari antichisti, ma certamente a un uditorio ben più ampio; senza dubbio gli studiosi che si occupano di creazionismo nel pensiero moderno o di evoluzionismo in quello contemporaneo - in cui ovviamente entra de iure il necessario apporto delle scienze - possono trovare in queste pagine le fondamenta storiche del problema, fondamenta del tutto imprescindibili per poter usufruire di una prospettiva diacronicamente efficace e per capire che cosa significasse creazionismo nel mondo antico e da quali e quanti punti di vista venisse affrontata la questione e altresì criticata.

Prima di procedere nella ricostruzione storica del problema, Sedley chiarisce cosa intende per creazionismo, trattandosi (notoriamente) di un termine polisemico e per certi versi equivoco; creazionismo è l’insieme di quelle tesi secondo le quali la struttura del mondo può essere adeguatamente spiegata postulando un designer intelligente, a creator god (p. XVII). Si tratta, come si vede, di una precisazione decisiva per comprendere in modo corretto lo sviluppo storico-argomentativo del volume; il creazionismo, dunque, non va inteso né secondo l’accezione del Genesi nel senso di creazione del mondo ex nihilo né come tesi che ponga la creazione del mondo in un’epoca irrimediabilmente passata la cui cronologia risulta essere piuttosto indeterminata e imprecisata.

Chiarita la nozione di creazionismo che Sedley intende investigare, ci si trova immediatamente di fronte a un problema, a una sorte di vox populi molto diffusa anche fra gli studiosi – con l’importante eccezione dello Jaeger di The Theology of the Early Greek Philosophers – che, tuttavia, viene ampiamente smentita dalle fonti, l’idea cioè che, con la sola eccezione di Diogene di Apollonia, i Presocratici fossero in fondo dei materialisti che non ammettono alcuna teleologia; secondo Sedley, invece, che il mondo sia intrinsecamente governato da un potere divino è un assunto proprio e originale del pensiero presocratico (p. 2). Il fr. 11 A 22 DK di Talete, ad esempio, riferisce che per il sophos di Mileto tutto è pieno di dei, il che testimonia l’idea della presenza e dell’azione degli dei nel mondo; siamo abituati a identificare la maggior parte dei “filosofi” presocratici con la rispettiva arche (altra diffusissima vox populi che i manuali scolastici continuano a perpetrare), nel caso di Talete con l’acqua, eppure vi sono molte testimonianze indirette - che, naturalmente, come tali vanno sempre contestualizzate e confrontate, con la debita dose di cautela e di attenzione storico-critica - che giustificano la profondissima complessità e varietà del pensiero dei Presocratici, proprio come nel caso di Talete che non solo credeva che tutto fosse pieno di dei ma anche che i magneti avessero anime, dunque, che fossero, per così dire, vivi (11 A 22 DK). Questa interessante visione - che rende ragione dell’elevata originalità di questo pensatore - verso la fine del “periodo presocratico” è radicalmente capovolta dagli atomisti antichi (p. 7): mentre la maggior parte dei Presocratici (tra cui Talete) ridussero l’inanimato all’animato (come nel caso del magnete), gli atomisti operarono l’esatto contrario, riducendo l’animato all’inanimato, ossia agli atomi, un infinito set di “particelle” che si muovono eternamente nel vuoto infinito.

Un discorso a parte va fatto per Anassagora e per gli anassagorei che, come è noto, costituirono un vero e proprio movimento razionalistico all’interno dello splendore e del rinnovamento dell’Atene di Pericle al punto che qualche studioso non esclude che si possa parlare di un illuminismo ante litteram, di cui, forse, lo stesso Papiro di Derveni è un puntuale esempio. Sedley è chiaro in proposito (p. 8): Anassagora è il primo dualista che, per l’appunto, ammette l’irriducibilità della mente o intelligenza (Nous) alla materia; di qui la piena plausibilità di reputarlo a truly revolutionary thinker (p. 8). Assai giustamente Sedley ricostruisce il contesto storico in cui si sviluppa il pensiero anassagoreo; il VI secolo e gli inizi del V non furono periodi in cui il dibattito sul creazionismo fu così acceso, si può sostenere, anzi, che non vi fu un vero e proprio dibattito su questo tema. Ciononostante non si può ignorare che il pensiero anassagoreo e, in particolar modo, l’importanza attribuita all’attività del Nous (che, tuttavia, Sedley pare ridimensionare), non contribuisca a rendere questo uno dei periodi filosoficamente più “impegnativi” del pensiero antico. Sedley, in tal frangente, offre un’interpretazione innovativa del pensiero di Anassagora: gli spermata, ovvero i semi (si noti l’importanza del significato propriamente biologico), sono i principali attori della cosmologia anassagorea. In altre parole, Sedley afferma (p. 18) che le forme di vita dell’universo anassagoreo non si generano perché intelligence plans, designs, and constructs them ma in virtù dell’effettiva presenza degli spermata nella materia universale (universal stuff). È chiaro, dunque, che l’importanza dell’attività del Nous viene parzialmente ridimensionata: la presenza dei “semi biologici” nella materia permette la generazione delle forme di vita che, conseguentemente, non intrattengono alcuna relazione con il Nous (p. 19). Ma questo non significa che il Nous - inteso come cosmic farmer (p. 23) - non ricopra alcuna funzione nell’economia dell’universo, soprattutto se si tiene conto della profonda visione antropocentrica del cosmo anassagoreo (p. 24). È assai noto che, per bocca di Socrate, Platone nel Fedone critica alcuni dei nuclei cruciali del pensiero anassagoreo, sebbene lo stesso Socrate ammetta nel medesimo luogo una passione giovanile nei riguardi della scienza della natura (puntualmente registrata dalle Nuvole aristofanee). Sedley è del parere che il filosofo di Clazomene sia in verità un creazionista in un senso più forte di quanto Platone sia disposto a riconoscergli nel Fedone, nonostante rimanga, forse, assai arduo “scagionare” completamente Anassagora dall’accusa di meccanicismo. A ogni modo, al di là della critica socratico-platonica, non bisogna credere che il Nous ricopra solamente la funzione di causa motrice, in particolare, per via del ruolo centrale ricoperto dall’antropologia nella filosofia di Anassagora: il Nous non è solo la causa motrice ma è anche la causa intelligente, the planning cause that creates worlds in order to proliferate intelligent beings like itself (p. 25). Ma se questa visione fosse davvero fondata, non si riuscirebbe a capire il motivo che spinse la polis ateniese a condannare Anassagora per empietà. Proprio per rispondere a tale questione, Sedley parla, in maniera condivisibile, di scientific creationism (p. 25); nell’ottica anassagorea né il sole né la luna sono esseri divini ma questo non significa che non siano esseri altresì “organizzati”. In altre parole, non occorre intendere la causalità del Nous in termini necessariamente teologici: il Nous, infatti, è la causa suprema dell’organizzazione della materia, per questo è plausibile ammettere un creazionismo non teologico ma scientifico. Il creazionismo di Anassagora appartiene, quindi, alla sfera di dominio delle “scienze naturali” il che, per l’appunto, venne (ingiustamente) considerato un atto palese di empietà.

Il ruolo di un’intelligenza nell’organizzazione della realtà è ampiamente riscontrabile nella filosofia di Empedocle; l’aggregazione delle quattro radici, infatti, non è in grado di per sé stessa di generare forme di vita; di qui il ruolo cruciale della cosiddetta doppia zoogonia di Philia e Neikos, un dato ormai inappuntabile, almeno a partire dalla lettura del Papiro di Strasburgo e dalle importanti informazioni sulla cronologia del ciclo cosmico ricavabili da alcuni scolii bizantini alla Fisica e al de generatione et corruptione di Aristotele, scoperti e pubblicati da M. Rashed (2001) su cui si intrattiene lo stesso Sedley (pp. 67-70). L’azione di Philia e quella di Neikos, tuttavia, non hanno lo stesso valore, anzi, Sedley crede che il ruolo di Philia, in particolare nella seconda generazione degli organismi, sia irrefutabilmente superiore rispetto a quello di Neikos (p. 59): if Love is an agent of intelligent design, Strife’s portfolio is, rather, one of intelligent disruption (p. 60). Da questo punto di vista risultano facilmente individuabili i punti di contatto con la posizione anassagorea; anche l’intento di Empedocle è genuinamente scientifico, sebbene non possa essere trascurato il rilievo assunto dalla religione che contribuisce ad accomunare la posizione empedoclea con quella di Esiodo.

Come già ricordato all’inizio, l’unica monografia che si occupa esplicitamente della nozione di teleologia nel pensiero antico è quella di Theiler del 1924 che arriva fino ad Aristotele; Theiler, seguito poi da un folto gruppo di interpreti, considera Diogene di Apollonia il protos heuretes dell’Argument from Design, visione, questa, da cui Sedley prende le distanze; anzi, è bene richiamare l’attenzione sul fatto non poco importante che Theiler dedica a Diogene di Apollonia più pagine che a Platone e Aristotele messi insieme, esattamente il contrario di quanto avviene nel volume di Sedley, che gli dedica solo quattro pagine (pp. 75-78). Sedley è profondamente convinto, insomma, che Diogene di Apollonia non assuma un posto di particolare rilievo nella storia del pensiero teleologico, soprattutto a seguito della corretta lettura del fr. 64 B 3 DK; Diogene non fa altro che esplicitare what had been no more than implicit in the preceding cosmological tradition (p. 78). Ma il protagonista indiscusso del secondo capitolo è Socrate, in particolare il Socrate dei Memorabili di Senofonte (particolarmente i capitoli I 4 e IV 3). Nell'ottica di Sedley, Socrate - lo ripeto, il Socrate e i tratti che se ne possono evincere dal resoconto senofonteo - è un creazionista che, tuttavia, si differenzia molto dal creazionismo scientifico di Anassagora per avvicinarsi di più a quello, per così dire, religioso di Empedocle, senza dimenticare, però, che il pensiero empedocleo sul creazionismo possiede una cospicua dose di "scientificità". Socrate, dunque, è un anti-scientific creationist (p. 78), il che non può stupire gli assidui frequentatori delle pagine senofontee ma stupirà senz'altro gli assidui lettori dello scienziato Galeno che, come ricorda Sedley nell'epilogo, in più luoghi invoca la teleologia del Socrate senofonteo, in un atteggiamento, dunque, antiscientifico e antispeculativo, nonostante il massiccio uso scientifico di "prove" tratte dall'anatomia. Ritornando a Senofonte, questi scrive i Memorabili qualche tempo dopo la morte di Socrate (399 a.C.) e non è escluso che le righe di Senofonte siano volte a scagionare ancora una volta Socrate dalle accuse mosse da Policrate in un libello infuocato del 393 a.C. in cui Socrate diventava il nemico indiscusso e il critico mordace delle istituzioni democratiche. Per questo motivo l'immagine del Socrate senofonteo contribuisce a fare di Socrate il cittadino modello, l'exemplum virtutis, l'uomo pio, giusto e religioso che non solo non avrebbe mai potuto corrompere i giovani o peccare di empietà ma che, anzi, fece del bene all'intera città, quella stessa città che, alla fine, non riconobbe il suo valore. Come ha recentemente affermato F. Ferrari (Socrate tra personaggio e mito, Milano 2007, p. 92), il Socrate di Senofonte può essere considerato l'antitesi speculare di quello aristofaneo (e forse fu proprio questo uno dei tratti salienti che tanto colpì gli occhi di Labriola); è per tale ragione che l’accento posto da Senofonte sull'attività (teologica) del daimon socratico contribuisce effettivamente a scagionare Socrate dall'accusa di empietà. E allora da questo punto di vista il Socrate di Senofonte si pone in aperta rottura con la "tradizione creazionista" precedente: Socrate diviene, qui, il paladino indiscusso della "teologia" nei riguardi della "scienza", il che, almeno parzialmente, non è così lontano dalla critica del Fedone alla posizione anassagorea. Lì Socrate/Platone accusa Anassagora di aver confuso la causa, il Nous, con ciò su cui la causa agisce, la materia (p. 88); contro la "confusione anassagorea", nell'ottica di Sedley, si erge la figura di Socrate che, rispetto alla tradizione, ha enfatizzato non l'attività cosmogonica o aggregatrice ma il valore etico dell'intelligenza divina: da tale prospettiva - plausibile perché controllabile/riscontrabile nei testi - è noto che la bontà di Dio è un motivo ricorrente tanto nei dialoghi cosiddetti socratici di Platone quanto nei capitoli teologici dei Memorabili. Considerando, ad esempio, ancora il Fedone, in particolare il mito finale del dialogo, non solo appare con una certa chiarezza l'esistenza di un disegno divino intelligente ma anche che sono proprio le anime a essere le dirette fruitrici di tale disegno. Di qui, in una sorta di più o mena veritiera continuità, il passo verso Platone è assai breve.

Come si potrebbe facilmente intuire, una parte del volume, cospicua e  sostanziosa, per la verità, è dedicata al Timeo; Sedley è categorico: the creation story is obviously a myth (p. 99) - del resto, come è assai noto, è lo stesso Timeo a definire mythos la propria narrazione (spec. in 69b 1) - and the Timaeus is nothing if not a religious discourse (p. 100) che segue, per così dire, ragioni didattiche ed espositive (proprio come sembra affermasse Senocrate = frr. 153-157 Isnardi Parente). Ciononostante Sedley si allontana dalla posizione di Senocrate e di coloro che leggono il Timeo in maniera non letterale; è noto, infatti, che sin dall'immediata generazione dopo Platone, iniziò un vero e proprio dibattito su questo dialogo, ossia sul suo valore letterario o allegorico. "Allegorista", ad esempio, fu Senocrate e buona parte della tradizione platonica (con le felici eccezioni di Plutarco e Attico, cui, secondo Sedley, deve aggiungersi anche lo scolarca Polemone, la cui interpretazione del Timeo influenzò verosimilmente la formazione della cosmologia stoica), mentre "letteralisti" furono senza dubbio Aristotele e gli Epicurei. La lettura cronologica - dunque letterale e non allegorica - del Timeo va accolta perché è direttamente connessa al senso dell'opera artigianale del Demiurgo (pp. 106-107); insomma, il divino potere artigianale del Demiurgo e soprattutto le conseguenze morali e ancor più estetiche (p. 113) della sua opera, non possono essere considerate sulla base di una lettura allegorica e non cronologica del dialogo; a ciò va aggiunta la testimonianza, per così dire, “diretta” delle primissime linee del Crizia, su cui Sedley a ragione richiama l’attenzione. La narrazione di Timeo, in effetti, è profondamente dettagliata, troppo dettagliata per essere letta esclusivamente in maniera allegorica; perfino la presenza del male morale trova uno spazio preciso all'interno della "giustizia cosmica" descritta da Timeo: Plato's (and, he hopes, god's) notion of completeness or perfection is better satisfied by a world containing the entire natural hierarchy, especially when that hierarchy is itself used as the primary conduit of moral value (pp. 122-123). La struttura del cosmo plasmato dal Demiurgo è tanto moralmente quanto esteticamente ordinata, tutto infatti ha una propria "ragione" e tutto possiede un ruolo ben preciso; ciò significa che un mondo strutturalmente ordinato è anche perfetto? Non è impresa facile rispondere a tale quesito, tuttavia, Sedley richiama l'attenzione su un punto difficilmente contestabile: secondo la metafisica platonica - e lo si vede bene proprio nel Timeo - tutto ciò che è generato è una mera copia delle forme eterne cui appartiene l'autentica perfezione nella sua interezza. Per questo motivo Sedley tematizza il concetto di ‘compromesso’; la maggior parte dei critici ha individuato nelle pagine del Timeo un forte antropocentrismo che, però, Sedley preferisce interpretare come “psicocentrismo” (pp. 125-126). Come che sia, è innegabile che il corpo e l'anima dell'uomo ricoprano un ruolo rilevante e centrale nell'economia argomentativa del Timeo (cfr. la dettagliatissima descrizione del corpo umano a 69a 6-81e 5). E proprio per comprendere in modo esaustivo la nozione di compromesso, è utile l'esempio del cranio umano: il capo dell'uomo è stato formato con materiali sì delicati e facilmente vulnerabili, quali, tuttavia, permettono la massima capacità percettiva. Cosa comporta questo? Senza alcun dubbio, il cranio umano è stato formato in un certo modo per via della sensibilità, il che ha comportato una messa in secondo piano della sua resistenza e, quindi, della sua durata; in breve, l'esempio della forma del cranio umano è uno dei "prezzi" che il divino artigiano ha dovuto pagare, uno dei compromessi che, comunque, contribuiscono all'ordine e alla perfezione del cosmo (pp. 126-127). Proprio nella nozione di “compromesso” risiede l’originalità di Sedley; il “compromesso”, infatti, non è altro che un’alternativa all’idea, piuttosto comune fra gli interpreti, che sia la stessa esistenza/resistenza della materia a causare tali difetti, come se la materia costituisse quasi un quid anti-teleologico: perfino i “compromessi”, invece, contribuiscono all’ordine del tutto.

Il capitolo V è interamente dedicato agli atomisti, da quelli antichi (Democrito) a Epicuro. Vorrei brevemente soffermarmi sull'interessante disamina della posizione epicurea. Sedley, quale rinomato e illustre studioso dell'epicureismo, è convinto che gli Epicurei avessero adottato una lettura letterale del Timeo platonico (p. 145) che come tale rifiutarono in toto, come è ben riscontrabile dai testi di Epicuro e in particolare dal XIV libro Sulla natura. L'universo pensato da Epicuro non ammette un prima o un dopo temporali in quanto esso è eterno: The Epicurean attack on creationism differs in not presupposing a pre-cosmic state in which there was nothing at all: according to the Epicureans themselves there was already matter, and according to the creationist theory under their scrutiny there was not only matter but also a god or gods [...] If god created the world, why did he do it when he did? (p. 142). La condizione di eternità dell'universo epicureo e la stabile permanenza della materia atomica escludono che l'universo possa essere stato generato da un artefice divino in un determinato tempo; l'indistinzione di un prima e un dopo temporali, tuttavia, non elimina la possibilità di un'"evoluzione": il quinto libro del de rerum natura di Lucrezio (in particolare i vv. 843-852) ne è, infatti, una testimonianza precisa (pp. 153-158). L'assenza di una teoria creazionista e teleologica nell'epicureismo, inoltre, non indica l'esclusione di ordine dal cosmo, o meglio, dai cosmi epicurei. Cicerone, nel primo libro del de natura deorum (50), attribuisce a Epicuro la dottrina dell'isonomia che, secondo Sedley, governs the distribution of animal species and of types of atom (p. 158); non è corretto, dunque, ritenere che l'universo di Epicuro non possieda un ordine: l'assenza di una struttura teleologica non implica la conseguente assenza di ordine, il che è ben riscontrabile nell'acuta e dettagliata trattazione epicurea delle forme degli atomi. A tal proposito Sedley dedica alcune importanti pagine (pp. 161-166) alla dottrina epicurea degli elachista, le minimae partes di Lucrezio. Si tratta di pagine davvero rilevanti che richiamano l'attenzione su una delle dottrine più importanti e complesse della filosofia di Epicuro e che, di fatto, costituiscono un tassello importante nella storia del creazionismo antico. Naturalmente non è questa la sede adatta per approfondire la questione, tuttavia, trovo che le righe di Sedley dedicate al problema dei minimi siano di notevole interesse, soprattutto dal punto di vista metodologico, prospettiva questa, forse piuttosto trascurata da altri studiosi. Sedley, in buona sostanza, invita a considerare la trattazione epicurea dei minimi all'interno dell'Epistola a Erodoto, dunque, come rispondente alle difficoltà e alle argomentazioni sollevate dalla stessa epistola; da questo punto di vista, la trattazione epicurea dei minimi nell'atomo è la risposta più efficace alla teoria dell'infinità delle forme atomiche che la tradizione attribuisce a Democrito. Il che non significa affatto che i paradossi di Zenone - bersaglio privilegiato di Epicuro secondo molti studiosi - non giochino alcun ruolo in questa storia ma solo che ne costituiscono il necessario background. Di conseguenza Sedley mette in luce, a mio parere assai giustamente, come questa dottrina non solo non deve essere decontestualizzata ma, anzi, riflette in gran parte la logica argomentativa dell'Epistola a Erodoto, reagendo, dunque, all'idea democritea dell'infinità delle forme atomiche. Ribadisco ancora che questa non è la sede adatta per trattare approfonditamente la questione, tuttavia, mi permetto di essere di diverso parere su due punti toccati da Sedley:

(1) sulla base dei vv. 599-634 del primo libro del de rerum natura, penso che occorra mantenere la debita cautela nel sostenere che gli atomi epicurei siano costituiti materialmente dai minimi (p. 161);

(2) se gli atomi sono corpi tridimensionali e i minimi fanno da katametremata, ossia da unità di misura delle grandezze, bisognerebbe, forse, essere prudenti nell'affermare che Epicuro al fine di rispondere efficacemente alla tesi democritea dell'infinità delle forme atomiche fu del parere che there is a mathematically smallest magnitude (p. 161); insomma, se si ritiene che gli atomi must consist of a precise number of these smallest magnitudes (p. 161), come è possibile che queste siano di natura matematica? A tal proposito, fra la cospicua letteratura secondaria esistente, è utile rinviare alla breve discussione, piuttosto datata ma ancora efficace, fra Lendrum e Bailey, apparsa su «The Classical Review»(XXII 1908 pp. 261-262 e XXIII 1909 pp. 62-63) su questo tema.

Dopo la trattazione epicurea, Sedley si occupa di Aristotele, chiarendo subito che per comprendere fino in fondo il concetto di teleologia di Aristotele occorre enfatizzare piuttosto che minimizzare il background platonico (p. 167); anzitutto la nozione di teleologia in Aristotele, riscontrabile in più ambiti del suo pensiero, da quello fisico a quello biologico, da quello metafisico a quello etico, viene considerata come una radicale modifica del creazionismo di Platone. Aristotele, in sostanza, è convinto che il diretto intervento di dio nel mondo sia una sorta di “svilimento” della sua eterna attività contemplativa che, poi, è il pensiero di se stesso: if god must be a pure contemplator, he cannot be an administrator (p. 170) e in ciò Aristotele - come perfino Lutero metterà significativamente in luce in una delle Tischreden databile al 1542 (5440 WA) - è sorprendentemente vicino alla posizione di Epicuro. Ma Epicuro e Aristotele potrebbero essere accomunati anche dalla ragione - tutta teologica e poco scientifica - che li spinge al rifiuto del creazionismo platonico: secondo Aristotele, Platone possiede una teologia - e, dunque, una teleologia - fondamentalmente sbagliata. La causalità di Dio è presente nell'universo, esattamente come in Platone, ma con una differenza fondamentale: all the operative drives and impulses belong to the natural entities, leaving god himself eternally detached and self-focused (p. 173). Aristotele non elimina dall'universo la struttura teleologica ma, anzi, la attribuisce alla natura, il che non significa che la physis aristotelica sia completamente interscambiabile con il Demiurgo platonico. Aristotele rimane fermamente convinto dell'incorruttibilità della maestà di dio che, per l'appunto, non si occupa di null'altro se non di se stesso. La natura è intrinsecamente strutturata in termini teleologici e la teleologia è facilmente riscontrabile in tutti gli enti che appartengono alla natura: the first and most obvious difference between craft and nature, in Aristotle's eyes, is that in craft the moving cause is regularly external to the matter (p. 176). Proprio come sarà in Epicuro, manca nell'universo aristotelico una netta separazione cronologica fra un prima e un dopo; mentre nel Timeo, prima dell'opera del divino artefice, tutto era sotto il dominio incondizionato della necessità (le proprietà meccaniche e causali dei quattro elementi), dopo l'opera artigianale, il Demiurgo persuade la necessità, condizionandola. Ciò significa che l'attività del Demiurgo è "prima" in termini genuinamente temporali mentre il motore immobile di Aristotele è "primo" in termini causali (p. 194), sebbene Sedley rilevi subito che è la stessa physis a essere la prima causa in relazione al mondo; è lo stesso universo, dunque, che non possiede alcuna accidentalità, esibendo una struttura coerentemente teleologica. E nonostante le differenze abissali fra la posizione di Platone e quella di Aristotele, rimane stretto e ben fondato un punto di contatto; proprio come in Platone, è plausibile attribuire ad Aristotele una teleologia globale, "cosmica" e non semplicemente - o riduttivamente - individuale: è ancora una volta evidente il debito di Aristotele contratto con Platone.

L'ultimo capitolo del volume è dedicato all'analisi della posizione degli Stoici; già nel saggio di Sedley, The Origins of Stoic God, apparso nel 2002 nel volume collettaneo curato da D. Frede e A. Laks (Traditions of Theology. Studies in Hellenistic Theology, its background and Aftermath, Leiden, pp. 41-83), lo studioso richiamò l'attenzione sull'influenza dell'accademico Polemone (e della sua interpretazione del Timeo) nei riguardi della formazione della ‘cosmo-teologia’ stoica. Sedley, del resto, è categorico: la teleologia del Timeo - interpretato letteralmente, si intende - rimane nello stoicismo antico fondamentalmente intatta; a ciò va aggiunto un altro dato della massima importanza, il fatto che gli Stoici non "incorporano" in termini dottrinari solo il Timeo ma anche la posizione profondamente creazionista del Socrate senofonteo: non è un caso, del resto - sebbene le ragioni potrebbero moltiplicarsi-, che i primi Stoici venissero chiamati "socratici" (Philod., de Stoicis, XIII 3 Dorandi). L'idea che dio sia il principio attivo identificabile con il cosmo, che il sostrato materiale (principio passivo) sia la condizione dell'attività dell'intelligenza divina e che, nonostante la presenza dei necessari "compromessi", la vita di ognuno per essere buona deve cooperare più o meno consapevolmente alla struttura morale del mondo, costituisce il nodo cruciale e inconfondibile della teleologia stoica.   

Il volume di Sedley, come ho già detto all’inizio, è un libro importante che colma una lacuna altrettanto importante; per via dei contenuti e della ricca nota bibliografica aggiornata, questo volume costituisce un indiscutibile punto di riferimento.

Come lo stesso Sedley intuisce nelle righe conclusive, al di là delle ragioni meramente contenutistiche, sono del parere che il pregio di Creationism and Its Critics in Antiquity risieda soprattutto nella piena e profondissima convinzione che, mutatis mutandis, anche per alcuni nodi concettuali al centro del dibattito filosofico-scientifico contemporaneo rimaniamo pur sempre in debito con gli antichi.

 

Sedley, David, Creationism and Its Critics in Antiquity, University of California Press, Berkeley-Los Angeles-London 2007, pp. XVII-269, $ 29.95 (Hardcover)