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L’invisibile armonia: teoria universale della religione o fiducia cosmica nella realtà?

di Raimon Panikkar - 02/11/2008

 

 

Introduzione

di Paolo Calabrò

"The Invisible Harmony: A Universal Theory of Religion or a Cosmic Confidence in Reality?" è il capitolo terzo del libro a cura di L. SWIDLER, Toward a Universal Theology of Religion, Orbis Books, Maryknoll, NY 10545 , 19882), mai tradotto in italiano prima d'ora. Si tratta di un contributo interessante soprattutto perché qui Panikkar affronta il complesso e delicato tema del pluralismo in maniera semplice, esaustiva e ricca di esempi*. Ma c’è dell’altro. Panikkar – che non ha quasi mai utilizzato il termine "imparativo"– ne caratterizza qui l’uso in dialettica con "comparativo": non ci può essere nessuna vera comparazione, sostiene Panikkar, al "livello ultimo" del dialogo tra le religioni, perché essa presupporrebbe una omogeneità irrintracciabile tra i rispettivi orizzonti di comprensione. Soltanto nell’ambito dello stesso mito si può dare comparazione; ma nel dialogo interreligioso, dove i miti sono reciprocamente irriducibili, non ci può essere altro che filosofia imparativa, disposta ad ampliare il proprio orizzonte di comprensione imparando dall’altro. Una filosofia quindi che è in grado di apprendere perché è disposta ad imparare oltre che ad insegnare: infatti, «apprendere è diventare discepolo e non maestro»§.

Una filosofia dalla forte connotazione "personale", dove il singolo "dialogante" si mette in gioco integralmente, con le sue convinzioni, le sue abitudini, i suoi imperativi, e arriva a toccare il nocciolo ardente di ciò che "non è negoziabile". Qui si ritrova il dialogo come metodo proprio della filosofia, il pluralismo come base del dialogo, il cosmoteandrismo, sullo sfondo, come cornice metafisica dell’intera impresa. Perché di impresa si tratta per l’uomo, e della più ambiziosa: tenere insieme il mondo, in lotta con gli altri uomini e con gli stessi dèi. Responsabilità e sfida per un essere la cui grandezza non è

* Come già segnalato (cfr. P. CALABRÒ, introduzione a R. PANIKKAR, "Il pluralismo della verità", «Dialegesthai» online, ISSN 1128-5478, luglio 2008 (visibile in internet all’indirizzo http://mondodomani.org/dialegesthai/rpa01.htm), nonostante il pluralismo sia uno dei fondamenti del suo pensiero, Panikkar vi si è raramente dedicato appieno. Lo scritto qui presentato è un’eccezione, che si aggiunge al terzo capitolo del libro La torre di Babele. Pace e pluralismo, Cultura della pace, San Domenico di Fiesole (FI) 1990, nonché al citato articolo "Il pluralismo della verità". Va segnalata inoltre l’ottima introduzione alla filosofia di Panikkar, A. ROSSI, Pluralismo e armonia, l’altrapagina, Città di Castello (PG) 1990.

Che compare per la prima volta in italiano in R. PANIKKAR, L’esperienza filosofica dell’India, Cittadella, Assisi (PG) 2000.

«Le religioni sono il luogo naturale delle questioni ultime»: ID., La torre di Babele, cit. p. 119.

§ ID., La nuova innocenza, vol. 3, CENS, Milano 1996, p. 145.

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l’assenza di limiti, ma la capacità di riconoscerli e di toccarne la vetta. Questa filosofia ha un messaggio irrinunciabile da offrire: tale impresa è veramente alla portata dell’uomo, ma nessun uomo può compierla da solo. Abbiamo bisogno gli uni degli altri: per conoscere il Tutto e noi stessi. Nessuna "rivelazione", né generale né particolare, né scritta né orale, né tradizionale né innovativa, né razionale né estatica, potrà altrimenti condurci alla verità tutta intera: solo l’altro è esperienza di rivelazione**.

** L’altro come esperienza di rivelazione è il titolo dell’ultimo libro di PANIKKAR, intervista a cura di A. Rossi, l’altrapagina, Città di Castello (PG) 2008.

Ho curato la traduzione del testo dall'inglese (e delle occasionali citazioni dal francese). Le note a piè di pagina (con numeri ordinali) sono mie; le note a fine testo (con numeri cardinali) sono di Panikkar. Ove possibile, ho aggiornato la bibliografia originale, segnalando le traduzioni in lingua italiana. Le traduzioni dal greco di Eraclito e Filolao (ove non diversamente specificato) sono tratte da H. DIELS, I Presocratici. Testimonianze e frammenti, Laterza, Roma-Bari (a cura di G. Giannantoni). Le traduzioni dal greco di Platone (ove non diversamente specificato) sono tratte da PLATONE, Opere, Bompiani, (a cura di G. Reale).

Questa traduzione appare per gentile concessione di Leonard Swidler: http://jesdialogue.org/ (copyright © 1987 Leonard Swidler. Tutti i diritti riservati).

Raimon Panikkar (Barcellona, 3 novembre 1918), sacerdote cattolico ed esperto di studi interculturali di fama internazionale, è autore di più di quaranta libri (quasi tutti tradotti in lingua italiana) e di diverse centinaia di articoli. Laureato in filosofia (Madrid, 1946), chimica (Madrid, 1958) e teologia (Roma, Pontificia Università Lateranense, 1961), ha insegnato, dal 1967, religione comparata ad Harvard e storia delle religioni e filosofia della religione all’università di Santa Barbara, in California. Ha ricevuto in Italia nel 2001 il premio Nonino "a un maestro del nostro tempo". A maggio 2008 è uscito, per i tipi della Jaca Book, il primo volume dell’Opera Omnia in italiano. Attualmente vive a Tavertet, in Catalogna.

L’invisibile armonia: teoria universale della religione o fiducia cosmica nella realtà?

di Raimundo Panikkar

Harmonia aphanes phaneres kreitton.

L’armonia nascosta vale più di quella che appare.

ERACLITO, FRAMM. 54

INTRODUZIONE

La mia presentazione sarà succinta, dialettica ed essenziale. Succinta, perché, in quanto basata su studi precedenti, pubblicati e non, mi permetterà di rinviare ad essi la giustificazione delle mie affermazioni1. Dialettica, perché, temo, rappresento una visione minoritaria e posso avanzare la mia proposta solo confrontandola con le tendenze dominanti tra gli esperti del settore. Essenziale, perché essa affronta il problema a partire dalla struttura fondamentale dell’essere umano, dalla prospettiva di una antropologia metafisica, si può dire, e non da un punto di vista sociologico e pragmatico.

In una prima parte esaminerò i motivi che spingono il sapere occidentale moderno verso la ricerca di una teoria universale della religione. In una seconda parte farò la critica della "teoria universale". In una terza, proverò ad offrire un’alternativa.

Per cominciare, è necessario un commento di carattere generale. Sono pienamente cosciente che non ci sono Est ed Ovest, non c’è un cristianesimo monolitico, né un induismo standard, che le tradizioni umane nonché gli stessi esseri umani sono molto più olistici di quanto la maggior parte delle nostre disquisizioni intellettuali tendano ad assumere. In ognuno di noi si può scorgere un Est e un Ovest, un credente e un non credente, un uomo e una donna e così via. Ogni essere umano è un microcosmo ed ogni cultura umana rappresenta l’umanità intera. Il vero
atman di (in) ognuno di noi è brahman. La natura-Buddha giace al fondo di ogni essere. Noi tutti siamo chiamati verso l’alto a condividere la natura divina. Quindi, il piano del mio discorso è teso a rilevare da un lato i venti predominanti, le linee-guida, lo Zeitgeist dominante e dall’altro le più profonde strutture dell’essere umano e della realtà.

Io includo nella nozione di "teoria universale" tutti quegli sforzi vòlti al raggiungimento di una comprensione intellettuale globale, che si chiamino "esperanto ecumenico", "teologia mondiale", "teoria del campo unificato" o anche un certo tipo di "religione comparata" e di "ecumenismo". Ciò che li accomuna è il nobile sforzo di ridurre l’immensa varietà delle esperienze umane ad un singolo linguaggio comune, che possa ben rispettare le differenti forme dialettiche di espressione e di vita, ma che in qualche modo le sussuma tutte e consenta una comprensione e una comunicazione tra esse su di una scala universale. La teoria universale assume che un certo tipo di razionalità sia eredità generale dell’umanità e, in più, che sia l’unico tratto specificamente umano. Essa assume che siamo esseri umani in quanto siamo creature razionali, essendo in definitiva la ragione la nostra prerogativa; così la stessa ragione deve teoricamente essere capace di risolvere tutti i problemi che affliggono la razza umana.

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Il nocciolo di questo studio è una sfida a tutto ciò. E tuttavia, l’alternativa non è il solipsismo da un lato o l’irrazionalismo dall’altro, vittime rispettivamente di un individualismo deprimente o di un sentimentalismo superficiale. Ho già detto che qui vengono chiamate in causa tutta un’antropologia e tutta una metafisica. Il sorgere di tali problemi dovrebbe essere materia di studi interculturali, e che siano realmente interculturali e non una collezione di modi di pensare più o meno esotici o sconosciuti da esporre.

Il lettore tenga presente che non farò menzione dei soliti nomi di sociologi, antropologi e filosofi che trattano i problemi tradizionali dell’evoluzionismo, dello strutturalismo, della sincronicità e simili. C’è una natura umana comune? L’evoluzione, o lo strutturalismo, offre una base per comprendere il nostro fenomeno? Sarebbe stato molto istruttivo prendere posizione nelle discussioni contemporanee, ma ho optato per non entrare nei dibattiti eruditi, per due motivi principali. Il primo è che per farlo nella maniera corretta sarebbe necessaria una trattazione quasi indipendente parallela alla presente – e ciò è stato fatto diverse volte
2. L’altro e più importante motivo è che la mia prospettiva esige di essere più interculturale e "metafisica" di quanto tali studi di solito siano, motivo per cui essi restano nell’ambito della problematica dell’erudizione occidentale di oggi (e di ieri).

Non sto criticando qui la teoria di un particolare studioso o di una certa corrente; sto sottoponendo ad analisi il senso dell’impresa stessa. Tuttavia, a causa del carattere fortemente olistico del nostro essere, anche le nostre teorie sono più estese di quanto generalmente immaginiamo. Per cui, se alla mia critica si replica mostrandomi che ciò che dico è proprio ciò che qualcun altro voleva dire, in quanto implicito o scontato nella sua intenzione, sarò lieto di aver ottenuto un simile chiarimento.

ANALISI DELL’INTENTO

Continuazione della sindrome occidentale

La spinta verso l’universalizzazione è stata senza dubbio una caratteristica della civiltà occidentale fin dai greci. Una cosa che non sia universale sembra non essere davvero valida. L’ideale di umanità dei greci, il dinamismo interno del cristianesimo, le imprese degli imperi occidentali, l’emancipazione della filosofia dalla teologia finalizzata a slegarsi da una confessione particolare, la definizione di moralità di Kant, la visione cosmologica moderna e così via, sono tutti esempi espliciti di esigenza di universalità. Plus ultra fu il motto della Spagna imperiale, e seguendolo gli spagnoli poterono raggiungere l’America. Governo mondiale, villaggio globale e prospettiva globale, cultura planetaria, rete universale d’informazione, mercato mondiale, il presunto valore universale di tecnologia, democrazia, diritti umani, stati nazionali e così via – tutto mira allo stesso principio: universale significa cattolico, e cattolico significa vero. Ciò che è vero e buono (per noi) è (anche) vero e buono per chiunque. Nessun’altra civiltà umana ha raggiunto l’universalità che ha l’Occidente. La strada era stata spianata sin dai fenici, prefigurata dagli imperi cristiani e resa di fatto possibile geograficamente dal complesso tecnocratico della civiltà attuale. Effettivamente, questa caratteristica non è assente del tutto in altre civiltà, ma non è così spiccata, sviluppata e potente. La credenza di essere i migliori, tipica anche della cultura cinese, è diversa dalla credenza di essere universali – e quindi universalizzabili, esportabili in ogni tempo e luogo.

Inoltre, questa caratteristica non è del tutto negativa; tuttavia, essa è anche ambivalente e spesso ambigua. Il destino dell’Occidente decolla e precipita con questa spinta fondamentale. Essa è visibile nelle religioni abramiche, non esclusi il marxismo e il liberalismo, così come nell’universale dominio della tecnologia, la moderna cosmologia

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scientifica e l’universale sistema economico. Il proselitismo, così come i messianismi e gli espansionismi d’ogni tipo, implica anche una convinzione di rappresentare valori universali, la quale impone pertanto ai suoi detentori (carichi del suo fardello) di condividere, comunicare, convincere ed infine conquistare (per il bene dei conquistati). Questa caratteristica è visibile anche nell’aspetto psicologico dell’homo occidentalis ed è chiaramente rilevabile nello spirito più genuino della filosofia occidentale. L’affermazione "una volta per tutte" dell’evento cristiano (cfr. Eb 7,27) e la sua pretesa di universalità sono forse la manifestazione più chiara di questo spirito. Dal punto di vista della storia delle religioni possiamo dire che solo gli dèi occidentali (Yahweh, Allah, Mammona,...), che come la maggior parte delle divinità erano divinità tribali, divennero il Dio universale – e ciò nella misura in cui il cristianesimo rinuncia perfino al nome proprio di Dio o accettarono quello ebraico. La maggior parte delle religioni ha uno o più nomi propri per Dio o per gli dèi. Il cristianesimo usa il nome comune "Dio", sebbene il Nuovo Testamento distingua tra Theos e ho Theos. In una parola, la forza dell’Occidente è legata a questa spinta all’universalizzazione. Essa ha prodotto sia risultati gloriosi sia conseguenze nefaste. Ma non è questo che mi interessa adesso. L’unica cosa che mi interessa è rilevare questo tratto specifico.

Per dirla tutta, il Figlio del cielo cinese o il cakravartin indiano, il dharma buddhista o il li confuciano hanno un’intrinseca rivendicazione di validità incondizionata, così come la filosofia di Nagarjuna avanza una pretesa analoga quando critica tutte le possibili visioni del mondo o drstis. Ma nella maggior parte dei casi quella universalità fu più una metafora e un’espressione di potenza e grandezza che un a priori. Si trattò spesso di un senso di superiorità, non di universalità. C’è qualcosa di democratico nella credenza di essere universalizzabili. Quale monarca della storia, per fare un altro esempio, ha rivendicato una giurisdizione universale sul mondo intero, senza neanche l’intenzione della conquista, come fecero i papi del Rinascimento? Quale filosofo comincia la sua riflessione dalla domanda circa le autentiche condizioni di possibilità assoluta, come Kant? Gli eretici sono stati macellati in Asia e in Africa perché giudicati dannosi e da punire, non perché la verità era considerata una e li si voleva salvare, come nell’Inquisizione. In breve, c’è qui qualcosa di speciale nella civiltà occidentale. "Tutto ciò che esiste, esiste quindi perché è uno" (Omne quod est, idcirco est, quia unum est), disse Boezio nel suo pensiero sintetico (PL 64, 83 b) a proposito dell’Occidente. Questo unum non è l’ekam dei Veda ed ancor meno lo ekam evadvitiyam delle Upanishad (CU VI, 2, 1), circondato da asat, non-essere (RV X, 129, 2). Questa sete di universalità fa parte del mito occidentale. Ciò che è particolarmente difficile da mostrare, perché è facile scoprire il mito degli altri, ma non quello in cui si vive. Una lunga storia (di trenta secoli) in breve: la tendenza autentica della ricerca di una "teoria universale", anche se espressa con tutto il rispetto e l’apertura possibili, tradisce a mio avviso la stessa

forma mentis, il prolungamento della stessa spinta – il desiderio di comprendere, che è anche una forma del desiderio di potere, da cui il bisogno avvertito di avere ogni cosa sotto controllo (intellettuale, in questo caso). Non ho detto che questa caratteristica sia sbagliata. L’ho soltanto collocata in un particolare contesto e sottoposta a un esame iniziale di sociologia della conoscenza. Non è un caso che questo bisogno di universalizzazione sia sentito proprio in Occidente e soprattutto oggi.

L’oggi dovrebbe essere più chiaro della precedente riflessione generale sul carattere della mentalità occidentale. Probabilmente in nessun’altra epoca della storia umana abbiamo avuto a disposizione tante informazioni sul modo in cui i nostri simili hanno vissuto e vivono. Ne è passato di tempo da quando potevamo ritenere che l’oikumene fosse il mare nostrum, da quando si credeva che le lingue delle razze umane fossero settantadue e le religioni vere fossero solo quelle dei "popoli del libro", quando potevamo parlare di cristianesimo da una parte e di tutte le altre religioni dall’altra. Oggi siamo sommersi da una valanga di dati. Come orientarsi in questa giungla di informazioni? Il bisogno di

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I Gioco di parole difficilmente traducibile in italiano: "dream" (sogno) and "drama" (dramma).

intelligibilità diviene imperativo. Non possiamo vivere come se fossimo autosufficienti, nel nostro cantuccio. "Lo Spirito del Signore riempie l’universo" (Spiritus Domini replevit orbem terrarum; Sap 1,7), cantava la liturgia cristiana a Pentecoste. Oggi le onde della radio e della televisione riempiono l’universo.

Sto dicendo che nell’odierna situazione mondiale non possiamo avere l’innocenza delle tribù amerindie, assumendo che gli altri adorino più o meno lo stesso Grande Spirito e siano governati da sentimenti cosmici analoghi. Abbiamo bisogno di conoscenza, di conoscenza dell’altro, per la nostra sopravvivenza e per la nostra identità. La spinta verso una teoria universale è ben comprensibile. Si aggiunga a ciò il desiderio di comprendere l’altro (e meglio se stessi) senza commettere gli errori causati in passato dall’intolleranza e dal fanatismo, e sembra che ci sia solo da rallegrarsi. L’intenzione è più che giustificata; dubito però che costituisca un rimedio adeguato.

Poiché generalmente impariamo più dagli altri ambiti, i cui oggetti sono per noi troppo pericolosi, potrei citare soltanto come esempio l’ideale delle scienze fisiche. Fu il sogno – ed il dramma
I – di Einstein, il progetto di "teoria del campo unificato" com’egli la chiamava. In essa, l’insieme delle leggi che governano la gravitazione e l’altro insieme di leggi che governano l’elettricità sarebbero dovuti ricadere all’interno della stessa formula matematica. Faraday aveva avuto successo nel "convertire il magnetismo in elettricità", unificando così quei due gruppi di fenomeni. Einstein in seguito unificò la gravitazione, il tempo e lo spazio. Non c’è da meravigliarsi che il passo successivo sembrasse essere l’unificazione totale. Tuttavia, stiamo ancora aspettando la formula. Forse nemmeno in matematica e in fisica può essere tutto ridotto all’unità (si pensi a Gödel e Heisenberg). Dovremmo ascoltare questo monito.

In breve, il mio sospetto è che questo dirigersi verso una "teoria universale", sia esso in fisica, in religione o in politica, appartenga alla medesima spinta occidentale. E ripeto che questo tratto, nonostante i suoi frutti spesso amari e gli odierni rischi che ci minacciano, non è del tutto negativo, e che ad ogni modo con esso dobbiamo fare i conti, essendo probabilmente la più potente delle forze presenti oggi nel mondo. Ma insisto anche nel dire che questa spinta non è universale, per cui non costituisce un metodo adeguato a risolvere i problemi umani, sia perché non è veramente una teoria universale (la razionalità può essere di diversi tipi), sia perché, soprattutto, nessuna teoria è universale (la razionalità non definisce esaustivamente l’essere umano). In più, il fenomeno della religione di certo non è qualcosa di esclusivamente teorico. Ma forse è il caso di ricordare la mia promessa di essere succinto, dialettico ed essenziale.

La ricerca inevitabile

La cosa importante per noi non è stabilire se la ricerca cui Einstein ha dedicato la sua vita fallirà o meno, né se una teologia universale della religione convince o no. La cosa importante è realizzare che, a quanto pare, la cultura occidentale non ha altro modo di raggiungere la pace della mente e del cuore (chiamata, in maniera più accademica, intelligibilità), che riducendo ogni cosa ad un singolo schema con il requisito della validità universale.

Potrei dirlo con una battuta, descrivendo la tragedia dell’ubriaco di ritorno alle prime luci dell’alba il quale, avendo perduto le chiavi di casa, si attarda a cercarle nei pressi di un lampione ancora acceso; alla domanda del poliziotto che gli chiede se è sicuro di averle perdute proprio lì, l’ubriaco risponde: "No, ma qui c’è più luce". Noi cerchiamo al di sotto dell’unica luce che abbiamo.

Ora, tutto ciò che mi propongo qui è mostrare che esistono altri lampioni nella città dell’umanità e che la lanterna occidentale non è l’unica che abbiamo. Ovviamente, si risponde che non è questione di lanterna occidentale, ma dell’umana lanterna della

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ragione, l’unica fonte di intelligibilità, e che – a meno che non si vogliano interrompere tutti i rapporti umani, il commercio, la comunicazione – dobbiamo accettare quella singola luce. Spingendo l’esempio un po’ più avanti, vorrei suggerire che per trovare la chiave della casa della saggezza dovremmo fare più affidamento sulla luce del giorno, e che solo quella luce sovra-umana del sole può essere lanterna comune per l’intero universo, e non i lampioni artificiali, che si tratti del gas della ragione, dell’elettricità dell’intuizione, dei neo-gas del sentimento o quant’altro. Ebbene, che fare poi se la chiave la smarriamo di notte? Ma non voglio avanzare qui una proposta teologica.

Senza identificare Cartesio con il nostro ubriaco, posso richiamare la fallacia logica. Per il padre della filosofia occidentale moderna, tutto ciò che vedo in maniera chiara e distinta (si ricordi, sotto alla lanterna) – ovvero, con piena evidenza – deve essere vero. Posso concedere qui, per amore della discussione, che ciò deve essere la verità. Ma da questo non segue che la verità sia
solo ciò che vedo in maniera chiara e distinta. L’evidenza può essere il nostro criterio di verità ma, in primo luogo, non posso assumere a priori che ciò che io vedo in maniera chiara e distinta sia visibile allo stesso modo anche dagli altri. In secondo luogo, la verità può essere più ampia, più profonda o anche altrove rispetto a dove io (o noi) la vedo in maniera chiara e distinta. Qui dobbiamo ricordare il paradigma della filosofia occidentale presente fin dagli inizi: "Di tutte le cose è misura l’uomo; di quelle che sono in quanto sono, e di quelle che non sono in quanto non sono" (Panton chrematon metron anthropon, einai. Ton men onton hos esti, ton de ne onton hos ouk estin), come disse Protagora (riportato da Platone, Teeteto, 151e-152a).

Questo non è necessariamente semplice umanismo, come spesso si dice. Può anche essere teologia tradizionale, perché anche se Dio parla, dovrà utilizzare un linguaggio umano e dipenderà in ultima istanza dalla nostra comprensione delle parole divine. Il mio disaccordo qui non è con l’anthropos, con l’uomo e nemmeno con l’antropocentrismo – sebbene lo contesti; il mio disaccordo è con il metron, con la tendenza a misurare ogni cosa e ad estrapolare, spinti dal desiderio di conoscere ogni cosa, dando per scontato che ogni cosa sia conoscibile. In termini ontologici: non è necessario che il pensiero esaurisca l’Essere. Oggi, secondo le premesse dell’Occidente, la spinta verso una "teoria universale" viene salutata con favore ai fini del mettere ordine fra le tante visioni del mondo. In questa cornice potrebbe essere il miglior modo di esprimerlo. Ma la realtà è più ricca. La "divina oscurità" di Gregorio di Nissa non ha avuto seguito in Occidente. Essa divenne la "notte oscura dell’anima" in san Giovanni della Croce ed è svanita nell’inconscio della psicologia moderna, dopo l’illuminazione di Meister Eckhart. Questo è il punto. Ammesso che una ipotetica teologia universale della religione fosse possibile, sarebbe un contributo molto positivo alla comprensione del fenomeno della religione

solo per coloro che vivono all’interno del processo culturale nel quale tutte queste parole hanno un senso, ovvero per quelli che in un modo o nell’altro si rifanno al mito della storia, che accettano l’intellectus agens (nous poietikos) di Aristotele e dei filosofi arabi, l’intuizione cartesiana, la rivoluzione critica kantiana, l’analisi marxista o un monoteismo assoluto. Si tratta di un club notevole e potente, ma non è per tutti. Effettivamente, nessuno ha oggi in mente di circoncidere gli altri ai propri modi di pensare, al fine di raggiungere l’universalità. In breve, lo sforzo teso a una teoria universale è un modo di esprimere la molteplicità dell’esperienza religiosa dell’uomo, soltanto uno dei modi per farlo. Esso ha un valore formale, esprime il genio dell’Occidente. In ogni caso, non vogliamo più colonialismi intellettuali.

Non vorrei venire male interpretato. Lo sforzo teso a una teoria universale è un’impresa nobile, nonché proficua. Molte incomprensioni vengono superate quando si ricerca una lingua comune, molte oscurità vengono dissolte. La collaborazione diviene possibile e le religioni vengono purificate di tanti orpelli, fanatismi, chiusure mentali. Sarebbe totalmente sbagliato interpretare la mia critica come non costruttiva, come se non avesse di mira gli stessi obiettivi e non andasse nella stessa direzione della "comprensione", della tolleranza e della stima reciproche. Potrebbe sembrare che anch’io

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sia in cerca di un mito universale – per quanto, non sarebbe la stessa cosa. Il mito emerge e non può essere escogitato a bella posta; il mito è polisemico ed irriducibile a una interpretazione. Il mito non sostiene nessuna teoria particolare.

Ciò cui sono in ultima istanza contrario è il dominio totale del
logos e la subordinazione dello Spirito – per dirla nei termini del cristianesimo trinitario – ovvero sono contro ogni forma di monismo – per dirla in termini filosofici. E benché contrario a tutto ciò, ripeto, non ignoro la funzione e il potere del logos, questo "compagno di viaggio" dell’intera realtà, coestensivo con essa, ma non esaustivamente identificabile con essa.

Mi si lasci ricapitolare i miei timori prima di intraprendere una critica più positiva. La ricerca di una "teoria universale" promuove genuinamente il dialogo, ma corre il grande rischio di imporre il proprio linguaggio o la cornice al cui interno il dia-logos deve aver luogo. Essa rivendica il proprio essere una lingua universalis, che diventa riduzionismo, a dire il meno. In secondo luogo, essa assume che la religione – o, in un senso più ampio, le tradizioni umane – siano, se non riducibili, almeno traducibili in logos (e probabilmente un certo tipo di logos), ciò che conferisce al logos una supremazia sullo Spirito. Ma perché tutto dovrebbe essere messo in parole? Perché l’accettazione senza comprensione – che io leggo nel simbolo cristiano di Maria (Lc 2,19-51) – non è anch’esso un atteggiamento umano ugualmente possibile?

CRITICA

Il problema del pluralismo

Ho l’impressione che la maggior parte di coloro che parlano di pluralismo, associandovi un significato positivo, non sia consapevole abbastanza delle conseguenze di vasta portata che il pluralismo implica: la detronizzazione della ragione e l’abbandono del paradigma monoteistico. È come quando si parla con leggiadria di tolleranza degli altri, senza considerare che il problema reale della tolleranza inizia con il perché e il come tollerare l’intollerante. "La tolleranza che si ha è direttamente proporzionale al mito che si vive ed inversamente proporzionale all’ideologia che si segue"3. Questa potrebbe essere la Legge della Tolleranza.

Il pluralismo nel suo senso ultimo non è la tolleranza di una diversità di sistemi sotto un più ampio ombrello; esso non dà luogo a nessuna sovrastruttura. Il pluralismo non è un supersistema: chi o quali princìpi potrebbero infatti gestirlo? Il problema del pluralismo sorge quando ci troviamo a confrontarci con visioni del mondo reciprocamente inconciliabili o con sistemi ultimi di pensiero e di vita. Il pluralismo ha a che fare con posizioni umane ultime, irriducibili, prive di ponti di collegamento. Se due visioni danno luogo a una sintesi, non possiamo parlare di pluralismo. Noi parliamo allora di due differenti, complementari – sebbene apparentemente opposti – atteggiamenti, credenze o quant’altro. Non prendiamo sul serio l’esigenza di ultimità delle religioni, delle filosofie, delle teologie e delle posizioni umane ultime se operiamo per un supersistema pluralistico. In quel caso, ovviamente, tutti noi vorremmo essere pluralisti e non così mentalmente chiusi come i musulmani, i cattolici, i marxisti o chiunque pensi ancora che le proprie analisi e i propri modi di vedere siano ultimi – almeno nel proprio orizzonte. È facile essere pluralisti se gli altri abbandonano la loro rivendicazione di assolutezza, primato, universalità e simili: "Noi pluralisti abbiamo assegnato a ciascun sistema la sua nicchia; noi siamo quindi davvero universali". Questo, sostengo io, non è pluralismo. Questo è un altro sistema, forse migliore, ma che rende superfluo il pluralismo. Abbiamo pluralismo solo quando ci confrontiamo con sistemi ultimi, che si contraddicono e si escludono mutuamente. Non possiamo, per definizione, oltrepassare logicamente una situazione pluralistica senza infrangere il principio di non contraddizione e senza negare il nostro insieme di codici: intellettuali, morali, estetici, ecc.

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II In inglese pious è utilizzato in senso dispregiativo per intendere "ipocrita" o anche "bigotto".

III "Time capsule" è detto in inglese un recipiente contenente informazioni circa il momento storico attuale e lo stato della conoscenza, depositato sottoterra o comunque in un luogo appartato, a fini scientifici o a beneficio della posterità.

In altre parole, assumere che gli hindu o i cattolici sono così ottusi, ciechi o fanatici da non capire che anche altri hanno le stesse (o simili) rivendicazioni ultime, vuol dire commettere un’ingiustizia nei confronti dell’autocomprensione dei migliori intendimenti di queste religioni. Esse sanno bene che la rivendicazione di assolutezza, per esempio, è uno scandalo per il pensiero umano e che essa non implica mancanza di rispetto verso l’altro o diretta condanna di altre visioni. Ci sono al mondo anche oggi posizioni assolutistiche equilibrate e ben congegnate che sono mutuamente inconciliabili. E quando si ha a che fare con tradizioni di vecchia data, non si può essere ragionevolmente soddisfatti dell’atteggiamento prolettico di una vaga "speranza" – vorrei piuttosto dire "aspettativa" – che nel futuro i nostri dissensi svaniranno o troveranno soluzione: essi sono durati troppo a lungo perché possiamo credere che un bel giorno i vaishnaviti riconosceranno infine che gli shivaiti hanno ragione. Questa pia speranza (lo dico senza ironiaII) è un atteggiamento molto vigoroso, finché dura.

L’ecumenismo cristiano offre un buon esempio: ciò che una volta era considerato impossibile diviene – un paio di decenni dopo – un fatto. Ma questo modello non può essere estrapolato così facilmente, perché non tutti condividono necessariamente la convinzione che la storia sia il luogo della realtà o abbia un punto centrale di riferimento, come Cristo. In altre parole, uno studio interdisciplinare non è ancora interculturale.

C’è di più. Un sistema pluralista in quanto tale non può essere compreso. Il pluralismo è solo un concetto formale. Certe persone sensibili non riescono a comprendere come sulla terra ci possano essere così tanti uomini che ritengono che tutto sia materia, o che ci sia Dio, o che le razze inferiori o i meno intelligenti non dovrebbero essere al servizio di quelli superiori, e così via, perché dette persone sono convinte fermamente del contrario. Tuttavia veniamo costretti dalle circostanze a coesistere con tali sistemi o visioni del mondo. Non è possibile costruire nessun sistema superiore che inglobi entrambi. Che Dio esista o non esista, che l’individuo abbia o meno un valore ultimo, che il cosmo sia un organismo vivente o non lo sia. Nonostante tutto il desiderio e lo sforzo di capire, siamo in disaccordo gli uni con gli altri; non riusciamo nemmeno a capire come sia possibile sostenere ragionevolmente un’opinione contraria alla nostra. Possiamo avere la nostra interpretazione personale ed interpretare ad esempio dati problemi come falsi problemi. Rimane nondimeno un fatto che gli altri possano non condividere la nostra credenza in una
coincidentia oppositorum.

In breve, ci sono alcuni atteggiamenti umani fondamentali alla base delle diverse tradizioni umane che sono mutuamente inconciliabili. Alcuni sono animisti ed altri scienziati positivisti: le due visioni del mondo non possono essere entrambe vere. O sì? La questione del pluralismo appartiene a questo livello ultimo; non dovremmo prenderla alla leggera. È permesso torturare un individuo, il quale altrimenti non parlerebbe, al fine di salvare cinquantamila persone che stanno per saltare in aria nelle prossime ore? Non possiamo dire sì o no, né rifiutarci di rispondere, perché non rispondere equivale qui a dare comunque una risposta.

Questo esempio contiene la situazione del mondo odierno, racchiusa come in una "capsula temporale"
III. La mia ipotesi può essere giusta o sbagliata, ma non sono certo fuori strada. Tale è la serietà del problema del pluralismo. Non possiamo rinviare a un escatologico lieto fine la soluzione di tutte le antinomie, né possiamo affidarci all’ultima scoperta scientifica o teologica di qualche guru che ci dica cosa fare. Per quell’epoca, non i cinquantamila del mio esempio ma milioni di esseri umani saranno già morti dalla fame, o a causa di guerre fratricide.

Il problema del pluralismo è di primaria importanza e ha molte sfaccettature. Una di esse è quella del bene e del male. Mi concentrerò qui sulla questione della verità. Cosa le

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IV Grido di battaglia di Voltaire. Letteralmente: schiacciare l’infame.

accade di fronte a così tante, disparate e incompatibili, convinzioni ultime? Supponiamo di aver esaurito tutte le clausole di salvaguardia a nostra disposizione. Sappiamo che il contesto è essenziale, che prospettive diverse conducono a differenti visioni, che temperamento, cultura e simili, sono testimoni di diversità stupefacenti. Nella misura in cui i canali del dialogo sono aperti, nella misura in cui l’altro non tira le conclusioni ultime, non c’è bisogno di parlare di pluralismo; ci si batte ancora per trovare una verità comune. Si parla perciò di dialogo, tolleranza, differenza d’opinioni e anche di competizione tra visioni del mondo all’interno dell’arena umana. Si riconosce un legittimo multiprospettivismo. La questione del pluralismo compare solo quando tutte le porte sono state chiuse, quando si ritorna presso se stessi e si deve decidere di écraser l’infâmeIV, o di permettere a se stessi di venir invasi dal male, nella forma della tolleranza dell’errore e del male ultimi o della lotta ad essi, o perfino soccombendovi.

Se la storia dell’umanità è una successione di guerre, e se la guerra appare oggi così terribile, la nostra istanza del pluralismo non è estranea a questa difficile situazione in cui l’uomo si trova. Qual è il posto delle filosofie ispiratrici degli Hitler e degli Stalin in una "visione del mondo pluralista"? Non c’è "visione del mondo pluralistica"; ci sono semplicemente visioni del mondo incompatibili.

Uno dei presupposti della teoria universale è che tutti i problemi siano risolvibili in sede teoretica. Sono completamente a favore dello sforzo di cercare di risolvere i problemi e con pazienza, buona volontà e intelligenza molto può essere ottenuto. Bisogna provare e riprovare, instancabilmente. Ma bisogna riconoscere due cose. Una è che l’interlocutore può interrompere le relazioni, fermare il dialogo, divenire pericoloso, obbligarmi a prendere delle decisioni e ciò non necessariamente a causa di qualche progetto malvagio, bensì a causa della logica interna del sistema. Non tutti quelli che intrapresero delle guerre erano criminali, non tutti quelli che predicarono crociate erano corrotti, non tutti quelli che credevano nelle inquisizioni e nelle schiavitù di vario tipo erano subumani – sebbene al giorno d’oggi sia impossibile giustificare tali atti o atteggiamenti, che verrebbero condannati come delle totali aberrazioni.

Ora, non c’è alcuna garanzia che tutti i problemi umani siano (debbano essere) risolvibili teoreticamente. Probabilmente non è così, neanche in matematica, lasciata da parte nelle complesse situazioni esistenziali in cui le contraddittorie visioni umane sono radicate. L’universo potrebbe non avere la coerenza logica supposta da Laplace o dalla credenza in una Deità monoteistica per la quale nulla è inintelligibile. Questi sono già presupposti religiosi non condivisi da tutte le tradizioni umane. Quelli che pensano diversamente da noi dovrebbero venir esclusi da una teoria universale?

Una seconda cosa di cui dovremmo prendere consapevolezza è di tutt’altra natura; si tratta del presupposto non discusso – preso per buono, "pre-supposto" – che la verità è unica piuttosto che pluralistica.

Il pluralismo della verità è un’ipotesi molto più seria e perturbante dell’ovvio riconoscimento di
prospettivismo e relatività. Ammettere che la verità è relativa alla prospettiva non dovrebbe dar luogo ad alcuna difficoltà, sebbene a questo livello ultimo il problema emerga sottoforma di questione di quale sia la prospettiva in grado di offrire la migliore visione delle cose. Questa ovviamente non può essere, di nuovo, un’altra prospettiva, senza che si dia un regressus ad infinitum.

Anche la relatività della verità, una volta distinta dal