Il pluralismo della verità (Dialegesthai)
di Raimon Panikkar - 02/11/2008
Introduzione di Paolo Calabrò
«The Pluralism of Truth» è un articolo pubblicato da Panikkar nel 1990 sulla rivista di studi interreligiosi
«World Faiths Insight». L'articolo non è mai stato tradotto in italiano prima d'ora ed è interessante per
almeno due motivi. Il primo è che, pur essendo il pluralismo un cardine della filosofia di Panikkar, questi
lo affronta dettagliatamente ben di rado (l'unica eccezione di rilievo è il terzo capitolo del libro La torre diBabele. Pace e pluralismo, Cultura della pace, San Domenico di Fiesole (FI) 1990), lasciandolo sullosfondo o sorvolando sulle sfaccettature teoriche, cui preferisce di solito altri temi fondamentali, come il
dialogo o la pace.
Il secondo motivo è che il pluralismo, oggi, non è più solo una terza alternativa da porre accanto ai più
classici monismo e dualismo; il pluralismo è un nuovo sguardo alla realtà che questo tempo ci richiede, se
non vogliamo che l'incontro con l'altro, il diverso -- che di fatto è già avvenuto ed avviene sempre più
frequentemente nella nostra società globale -- rischi di degenerare ogni volta da incomprensione a
scontro.[1] Il pluralismo è l'atteggiamento che ci spoglia della presunzione di essere i depositari dellaverità e colloca l'altro sul nostro stesso piano, fiducioso che -- seppur non si arrivi a un'intesa, in sede
teorico-dialettica -- sia comunque possibile giungere a un accordo. Il pluralismo è la convinzione che ci
possa essere un posto per tutti e che la pace sia possibile (e tutt'altro che utopica) nella misura in cui ci
adoperiamo per «fare» questo posto comune.
Se è vero che ogni seria dichiarazione di pace deve iniziare con l'elenco di ciò a cui si è disposti a
rinunciare, come scriveva Heisenberg un secolo fa, è anche vero che la rinuncia non è sempre qualcosa di
doloroso e mortificante: ad esempio, rinunciare al proprio complesso di superiorità e alla imbarazzante
convinzione di essere gli unici ad avere ragione mentre tutti gli altri hanno torto, può essere positivo e
liberatorio.
Il pluralismo non è né una teoria, che codifica in anticipo tutto ciò che bisogna correttamente pensare, né
un mero slancio di generosità: come tutte le cose che coinvolgono l'essere umano in prima persona, esso è
una prassi che si alimenta a una teoria e una teoria che sfocia in una prassi. Nel presentare ciò che il
pluralismo è (soprattutto la sua appartenenza all'ordine del logos quanto a quello del mito) e ciò che nonè (prendendo le distanze dal prospettivismo, dalla pluralità, dalla pluriformità e dal relativismo),
Panikkar propone un approccio teorico che è qualcosa di più di un semplice modo di pensare: esso è bensì
un modo di essere, e di essere «all'altezza delle sfide del mondo contemporaneo».
Ho curato la traduzione dall'inglese del testo; le note sono mie. L'articolo, visibile in internet all'indirizzo
http://www.dhdi.free.fr/recherches/horizonsinterculturels/articles/panikkarpluralism.doc, è apparsooriginariamente su «World Faiths Insight», n. 26, 1990, pp. 7-16, rivista edita dal World Congress of
Faiths, www.worldfaiths.org. La rivista ha ora un nuovo nome, «Interreligious Insight»:
www.interreligiousinsight.org.
Il pluralismo della verità
1. La condizione umana
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1.1. Panorama geografico
Vorrei riflettere sullo sconvolgimento geografico del mondo moderno. Fino a un secolo fa l'80% delle
persone non si spostava di più di cinquanta miglia dal proprio luogo natale. Oggi in Nord America ogni
famiglia cambia luogo di residenza ogni quattro anni e mezzo. Milioni di persone attraversano l'Atlantico.
In otto ore si può essere a Kathmandu e qui, oggi, si ritrova un'enorme varietà di razze, lingue e religioni.
Lo sconvolgimento geografico sfocia nel rimescolamento di popoli e culture, ma anche in tensioni e
conflitti. Ora ci mescoliamo, siamo pronti a tollerare l'altro, non ci scandalizziamo più di niente, imitiamo,
rifiutiamo o siamo turbati ma, dopo tutto, dobbiamo accettarlo e adattarci come possiamo. Cerchiamo la
nostra strada all'interno di questa giungla di varietà d'opinioni e comportamenti d'ogni tipo. Siamo
costretti ad avere a che fare con l'altro e così, a dispetto delle nostre rispettive maschere (che indossiamo
per autodifesa), quasi non possiamo fare a meno di provare a capirci gli uni con gli altri.
1.2. Il problema della comprensione
In altri tempi gli uomini comprendevano di non comprendersi reciprocamente. Essi comprendevano di
non comprendere quei tipi esotici, quegli strani costumi e quelle religioni straniere, ma poiché non li
incontravano ogni giorno, ciò non costituiva una grande sfida. Gli stranieri vivevano in terre incantevoli,
giungle primitive o ghetti abbandonati, ma sempre lontanissimi, geograficamente o spiritualmente. Di
quando in quando qualche antropologo ci raccontava delle storie, che trovavamo più o meno interessanti,
simpatiche o irritanti. Le scaramucce avvenivano solo tra religioni vicine, spesso colorite di problemi
economici e politici, o tra intellettuali preoccupati dalle conseguenze della discordia religiosa.
Ora i problemi sono sotto i nostri occhi e noi abbiamo bisogno di comprenderli. Mi si passi l'unico,
filosofico gioco di parole in lingua inglese che mi concedo: comprendere vuol dire «stare-sotto» alla cosa
compresa, essere posseduti dal suo fascino, starne al di sotto in ammirazione, magari con scetticismo.[2] Èun atteggiamento esistenziale, siamo davvero al di sotto del potere del rischioso atto di conoscenza
(inter-legere). Come dicono esplicitamente le Upanishad e Tommaso d'Aquino (sulla scia di Aristotele),conoscere significa identificarsi con la cosa conosciuta. Oggi, a causa dello spostamento di significato della
nozione di conoscenza, introdotto e diffuso dalle cosiddette scienze naturali moderne, il conoscere è stato
ridotto alla capacità di prevedere, calcolare e dominare. In una parola, noi intendiamo per «comprendere»
lo «stare sopra». Se noi «stiamo sopra», non facciamo che applicare le nostre categorie e sovrastrutture;
ciò allo scopo di individuare l'oggetto, non più di capire la cosa. È forse necessario aggiungere qui una nota
sulle categorie kantiane e sulla critica ante litteram di Shankara, con la sua nozione di adhyâsa
(imposizione dall'alto)?
Sto solo gettando le basi per indicare che c'è un inevitabile problema epistemologico al fondo della nostra
questione.
Se noi «stiamo al di sopra», come una certa «conoscenza» scientifica che si pretende universale,
approcciamo alla realtà da una posizione sovrastante le cose stesse. Non stiamo in ascolto delle cose,
obbedendo loro; noi integriamo oggetti all'interno del nostro schema mentale. Noi «stiamo sopra» un
piano più elevato: Ragione, Scienza, Rivelazione o qualunque altra cosa alla quale, ovviamente, «noi»
abbiamo un accesso privilegiato. L'intelligibilità discende allora da un singolo principio superiore. D'altro
canto, se comprendiamo davvero riconosceremo umilmente che, mentre noi accediamo ad una fonte di
intelligibilità, altri possono similmente accedere ad altre fonti, o a flussi diversi della stessa fonte. La storia
dell'umanità ci ha mostrato che l'Uomo ha molti modi di comprendere se stesso. Possiamo noi ignorare le
diverse autocomprensioni umane e ritenere valida unicamente la nostra interpretazione? Possiamo
individuare gli oggetti, ma qui non abbiamo a che fare con un oggetto, bensì con l'Uomo, la cui natura
precipua è di essere dotato di autocomprensione, cosicché la conoscenza dell'Uomo include la conoscenza
delle autocomprensioni dell'Uomo, e non soltanto la conoscenza delle nostre interpretazioni di un certo
oggetto chiamato anthrôpos. Questo è il problema.
All'inizio del secolo, un siciliano venne catturato, ammanettato e portato in tribunale. Sembrava fosse
innocente, ma non proferì al giudice una sola parola in sua difesa. Più tardi, quando l'avvocato gli chiese
perché non avesse parlato, disse: «Come avrei potuto parlare con le mani legate?» Per lui la parola era
ancora qualcosa di più del mero significato; era gesto. Come avrebbe potuto parlare senza utilizzare
contemporaneamente la lingua e le mani?
1.3. Una comprensione universale?
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Abbiamo sofferto e ancora soffriamo talmente tanto a causa del fanatismo politico, religioso e culturale,
che siamo legittimamente assetati di una comprensione universale. Un tipico esempio ne è la sindrome del
villaggio globale. Pur nobile nell'intenzione, mi sembra solo un altro degno successore della mentalità
colonialistica. Il colonialismo crede nel monomorfismo della cultura, nel senso che c'è in definitiva una
sola civiltà: «Ed ora ecco l'unificazione del mondo in un villaggio globale. Ora possiamo avere una teologia
universale che realizzerà un piccolo confortevole buco per i musulmani, un altro per i non credenti, ed
ognuno sarà felice perché noi ora siamo tolleranti, non imponiamo nulla, accettiamo tutto e c'è un posto
per ognuno. Tutti vogliono una teologia universale basata sull'apertura, la tolleranza e l'autocritica». Fin
qui tutto bene, ma è così facile essere veramente aperti al fanatico, tolleranti con l'intollerante e accettare
la critica di coloro che non sono d'accordo con la nostra teologia universale?
Tuttavia c'è sete di reale comprensione. Non possiamo vivere in compartimenti stagni. L'altro diventa un
problema proprio perché entra nello spazio della mia vita ed è irriducibile al mio modo di vedere. Se un
estremo è che noi abbiamo ragione e gli altri torto, l'altro estremo è che possiamo tutti entrare in un
qualche tipo di villaggio globale. Io sostengo che non è dato a nessuno di noi di delimitare l'ambito
universale dell'esperienza umana. In un villaggio ciascuno conosce ogni altro e le diverse dialettiche sono
note. Sogniamo ancora che una televisione universale porterà «comunicazione» reale a 5, 2 miliardi di
persone? C'è una inerzia della mente ben visibile nella maggior parte degli odierni sforzi di trattare questoproblema.[3] Ho l'impressione che dovremmo vedere la realtà con uno sguardo radicalmente diverso.
Questa è la sfida.
2. Pluralismo
Tra questi due estremi, la parola «pluralismo» è emersa sempre di più come istanza di una terza posizione;
questo è il secondo punto della mia presentazione.
2.1. Pluralismi accettati
Esiste un certo numero di pluralismi accettati oggi. Un filosofo può essere un buon filosofo, pur senza
essere un epigono di Kant o d'un altro. Un filosofo può essere in disaccordo con un altro e tuttavia
entrambi possono essere considerati buoni filosofi. Il pluralismo della filosofia è accettato. Anche il
pluralismo teologico è praticamente riconosciuto. Infine, il pluralismo culturale è qualcosa di cui ci
vantiamo, sebbene io non pensi che lo abbiamo raggiunto. Ciò che abbiamo è un certo tipo di tolleranza
culturale che permette ai greci, ai pakistani e agli zingari di conservare il proprio folklore -- ma tutti loro
devono pagare le tasse... ed accettare le nostre leggi e la nostra costituzione. Siamo in ogni caso pronti,teoricamente, ad accettare il pluralismo culturale. Il pluralismo religioso, che non può essere reciso dal
pluralismo culturale, è probabilmente l'ultima e più difficile nozione da accettare. Essa tocca la nostra
identità personale.
2.2. Preliminari al pluralismo
Abbiamo preso coscienza della pluralità. È un fatto. Ma pluralità non è ancora pluralismo. Pluralitàsignifica riconoscimento di modi, umori, colori differenti. È una nozione quantitativa.Un secondo passo è la
pluriformità. Non ci sono solo differenze, ma anche varietà. Questa è una nozionequalitativa. Cominciamo a diventare sensibili alle varietà che non possiamo sottoporre a misura
quantitativa. Il blu non è il verde e non c'è verso di sostenere che il verde sia più gradevole del blu. Non
possiamo misurare ciò che è migliore, o più gradevole, e ciò dipende dal contesto. Ma questo non è ancora
pluralismo.
Il pluralismo compie un ulteriore passo rispetto al riconoscimento delle differenze (pluralità) e delle
varietà (pluriformità). Il pluralismo ha a che fare con la diversità radicale. Due sono i passi che preparanoquesto passo ulteriore.
Il primo passo è il prospettivismo. Chi ha familiarità con la favola indiana dei filosofi e dell'elefante nellastanza buia, ricorda come uno dei filosofi sostenesse trattarsi di qualcosa di simile ad un osso spolpato,
mentre gli altri ritenevano che fosse una pesante colonna, una grossa scatola, una pelle rugosa e così via.
Questo è un esempio di prospettivismo. Il prospettivismo è il senso comune. Le persone guardano da
prospettive differenti, e bisogna rispettarle. La difficoltà risiede, come nell'esempio, nel fatto che qualcuno
deve sapere che è un elefante. Se c'è qualcuno che conosce l'elefante, può dire che uno sta semplicemente
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descrivendo la zanna, un altro la zampa, un altro un'altra parte; ma se nessuno conosce l'elefante, come si
può difendere il prospettivismo? Chi conosce l'elefante? Ovviamente «noi» seguaci del Vedanta, i cristiani,
gli scienziati... «noi» conosciamo l'elefante!
Il secondo passo è la relatività, da non confondere con il relativismo. Il relativismo fallisce il suo scopo; ilrelativismo è un agnosticismo che confuta se stesso. Non si può nemmeno sapere di non sapere. Se non ci
sono criteri per giudicare, neanche il relativismo è un criterio. La relatività, d'altra parte, è una cosa molto
più seria. La relatività ci dice che ogni cosa dipende da un insieme di riferimenti rispetto ai quali quel
particolare caso, affermazione, situazione o fatto può essere espresso ed anche falsificato, verificato o
quant'altro. Essa bandisce qualunque tipo di dichiarazione assoluta. Ma io arrivo a dire che il pluralismo,
nel suo senso più profondo, compie un ulteriore passo; ciò che vorrei ancora descrivere con un sintetico
abbozzo.
2.3. Descrizione del pluralismo
Proverò a riassumere ciò che intendo in sei punti.
Pluralismo non significa pluralità o riduzione della pluralità ad unità. Che ci sia una pluralità di
religioni è un fatto. Che queste religioni non siano riducibili a un'unità di nessun genere è anch'esso
un fatto. Pluralismo significa qualcosa di più della pura ammissione della pluralità e della mera
illusione dell'unità.
1.
Il pluralismo non considera l'unità un ideale indispensabile, nemmeno se questa unità lascia spazio
a delle variazioni al suo interno. Il pluralismo accetta gli aspetti inconciliabili delle religioni senza
ignorare ciò che esse hanno in comune. Il pluralismo non è l'attesa escatologica che alla fine tutto
diventi uno.
2.
Il pluralismo non approda ad un sistema universale. Un sistema pluralistico sarebbe una
contraddizione in termini. L'incommensurabilità fondamentale dei diversi sistemi non può essere
oltrepassata. Questa incommensurabilità non è necessariamente un male minore; essa potrebbe
invece contenere una rivelazione della natura della realtà. Nulla può racchiudere la realtà.
3.
Il pluralismo ci rende consapevoli della nostra contingenza e dell'opacità della realtà. Esso è
incompatibile con l'assunzione monoteistica di un Essere totalmente intelligibile, ovvero con una
coscienza onnisciente identificata con l'Essere. Tuttavia il pluralismo non rifugge dall'intelligibilità.
La posizione pluralista cerca di raggiungere tutta l'intelligibilità possibile, ma non richiede l'ideale di
una comprensibilità totale della realtà.
4.
Il pluralismo è un simbolo che esprime un atteggiamento di fiducia cosmica che tiene conto della
polarità e della tensione tipiche della coesistenza tra religioni, cosmologie e posizioni umane
irriducibili. Esso non elimina né assolutizza il male o l'errore.
5.
Il pluralismo non nega la funzione del logos ed i suoi diritti inalienabili. Il principio di noncontraddizione, ad esempio, non può essere eliminato. Ma il pluralismo appartiene anche all'ordine
del mito. Esso incorpora il mythos, non ovviamente come oggetto del pensiero ma come orizzonteche rende il pensiero possibile. Per esigenza di brevità non posso sviluppare questi punti come mi è
stato possibile altrove.[4]
6.
3. Il pluralismo della verità
3.1. La verità è al di là dell'unità e della pluralità
Il pluralismo non afferma né che la verità sia una, né che ce ne siano molte. Se la verità fosse una, non
potremmo che rigettare la tolleranza di una posizione pluralista come forma di connivenza con l'errore.
Potremmo, al più, sospendere il giudizio riguardo a questioni irrilevanti o discutibili. Ma come possiamo
astenerci dal condannare ciò che giudichiamo un errore, o il male? Come possiamo rimandare decisioni
pratiche, tanto più quando già il mero rinvio costituisce una acritica presa di posizione?
Ma la verità non è neanche molteplice. Se ci fossero molte verità, cadremmo in una palese contraddizione.
Abbiamo già detto che pluralismo non sta per pluralità, in questo caso pluralità di verità. Il pluralismo
mantiene un atteggiamento a-dualistico (o advaita) che difende il pluralismo della verità in quanto larealtà stessa è pluralistica; ovvero incommensurabile sia con l'unità sia con la pluralità.[5] L'Essere inquanto tale, anche se compreso da, o coesistente con il
logos o una intelligenza suprema, non ha bisogno diessere ridotto alla coscienza. In realtà, l'essere si specchia perfettamente nella verità, ma anche se la
perfetta immagine dell'Essere è identica all'Essere, l'Essere non ha bisogno di venir esaurito nella sua
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immagine -- a meno che non si sia assunto in precedenza che l'Essere sia (solo) Coscienza.[6]
3.2. La verità non ha centro
Nei circoli teologici vi sono oggi interessanti discussioni sul cristocentrismo e sul teocentrismo, ovvero su
quale altro centro sarebbe meglio individuare come riferimento per la teologia cristiana. Nei circoli
sociologici ed antropologici, si dibatte di questioni come l'etnocentrismo, l'atteggiamento eurocentrico ed il
tecnocentrismo. Tutte queste discussioni ammettono implicitamente che, ai fini del raggiungimento
dell'intelligibilità, è necessario che vi sia un centro. Il centro, se c'è, è mobile. Io dico ai «cristocentristi»
come ai «teocentristi»: «Tu hai ragione!», mettendo l'accento sul «tu», il contesto all'interno del quale il
singolo teologo riflette. Non è necessariamente vero che la verità abbia bisogno sempre dello stesso centro.
Vorrei raccontare la storia di un saggio rabbino che guidava una comunità molto tempo fa. Gli ebrei erano
in polemica tra loro, così i membri di una delle fazioni andarono ad esporre le proprie lamentele al
rabbino, che rispose loro: «Avete ragione! Avete ragione!» I membri della fazione avversa, avendo appreso
ciò, andarono anch'essi dal rabbino a spiegare le proprie difficoltà. Il rabbino li ascoltò attentamente e
concluse: «Avete ragione! Avete ragione!» Ovviamente la polemica riprese da capo. Così gli intellettuali e
gli scribi della comunità, più addentro degli altri, formarono una piccola commissione ed andarono dal
rabbino a dirgli, col dovuto rispetto: «Maestro, oggi hai detto che una delle due fazioni aveva ragione, e ieri
hai detto che aveva ragione l'altra. È ovvio che non possono avere ragione entrambe». Il rabbino disse:
«Avete ragione! Avete ragione!» Chi ha ragione? O solo il rabbino ha torto?
La relazione tra le tre affermazioni è ovviamente dialettica. Ma la relazione tra i due gruppi di persone
viventi in polemica non è dialettica. Il rabbino vide la completezza relativa di ciascuna posizione, sebbene
ciò implicasse la mutua contraddittorietà delle affermazioni sul piano intellettuale, come rilevato dal terzo
gruppo (non coinvolto sul piano esistenziale).
Ciò che sto cercando di dire è che il pluralismo fa il suo ingresso quando scopriamo la mutua
incommensurabilità degli atteggiamenti umani. È il riconoscimento dell'incompatibilità tra le credenze
ultime. Dovremmo prendere sul serio le umane esperienze e gli scontri degli ultimi 8. 000 anni di storia, in
cui ogni fazione riteneva di star facendo la cosa giusta, mentre l'altra pensava che non fosse così.
Dovremmo ascoltare ancora una volta la saggezza di Salomone.[7] Le nostre soluzioni propongono sempredi tagliare il bambino in due, se non possiamo tenerlo tutto per noi. La verità, come il bambino, è nostra.
Ma affinché il bambino continui a vivere, affinché l'umanità continui a vivere, affinché la polarità delle
realtà umane continui ad essere, affinché la buonafede del popolo continui ad essere, affinché la libertà
resti la più alta dignità, non possiamo giudicare solo in base alla Ragione. Salomone ci ha mostrato che ilsuo verdetto è quello corretto, perché quando interviene l'amore, quando il bambino è il proprio, si
preferisce perderlo, si preferisce addirittura essere calpestati, purché il bambino viva. Io sostengo che la
situazione attuale richieda che ciascuno di noi possa dire «Non ti capisco molto bene, penso perfino che ti
sbagli, ma il fatto che ti sbagli non mi dice granché sul mio essere nel giusto, o sul fatto che forse anch'io mi
sbagli».
Abbiamo bisogno di questo rapporto reciproco. L'incontro tra fedi diverse non è soltanto affare di
dialettica. Esso richiede anche amore, dialogo e contatto umano. Apparteniamo gli uni agli altri, anche se i
nostri codici e le nostre nozioni sono incompatibili. Il raggio e la circonferenza si appartengono
reciprocamente pur essendo incommensurabili. Il pluralismo appartiene alla condizione umana.
3.3. La verità è polare
L'intuizione che la verità stessa è pluralistica può essere descritta dicendo che nella sua natura è insita la
polarità. La verità in quanto verità è essa stessa una polarità. Qualunque teoria filosofica della verità
abbracciamo (corrispondenza, coerenza, pragmatistica e simili), una cosa rimane comune a tutte. La verità
è sempre una relazione, sia essa soggetto/oggetto, o soggetto/predicato, conoscente/conosciuto,
utilizzatore/utilizzato, ecc. Ce ne sono altre. Uno dei termini della relazione, esplicitamente o
implicitamente, siamo noi. Uomini. Anche se parliamo della verità metafisica dell'Essere o della verità
teologica della stessa divinità, noi umani non possiamo venir messi del tutto tra parentesi. Tanto più nel
caso della verità religiosa. Noi siamo coinvolti nell'impresa. In altre parole, la verità contiene sempre un
elemento di soggettività nel senso che noi, gli Uomini, siamo in qualche modo partecipi dell'affermazione,
dell'entità, del processo, della faccenda che chiamiamo verità. La verità è sempre una relazione che fa
riferimento a noi Uomini, per cui la verità è verità (e non solo oggettivamente vera).
Ora, se il giudice sono solo io, o solo noi, appartenente ad una cultura con una certa collocazione
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spaziotemporale, questo io o questo noi non può esaurire l'intera relazione. Questo per due ragioni: primo,
questo io o noi è limitato ed è impossibile sapere se conosca o meno completamente l'altro lato in
questione. Secondo, il soggetto (io, noi) è in se stesso inoggettivabile e senza alcuna garanzia che non
cambi. Noi siamo uno dei poli della relazione, e non possiamo essere «sicuri» di non cambiare. Non
possiamo avere controllo su noi stessi che dal polo oggettivo, che a sua volta è relazionato a quello
soggettivo. Un chiaro esempio ne è la cosiddetta evoluzione del dogma. Se i soggetti cambiano le proprie
percezioni e i propri presupposti, le «verità oggettive» del dogma devono cambiare di conseguenza,
proprio affinché la relazione possa rimanere costante.
Se questo giudice non è «noi» ma un intelletto infinito, a parte il fatto che potremmo avere solo
un'interpretazione umana limitata di questa intelligenza assoluta, non vi è nessuna qualsivoglia necessità
che questo intelletto infinito conosca tutto l'Essere. Non c'è nulla di nascosto ad una intelligenza infinita;
essa è onnisciente e, come tale, ciò che conosce è la Verità. Si potrebbe anche concedere che essa sia
proprio la fonte della verità, cosicché questa verità è precisamente ciò che l'intelletto divino conosce. La
verità sarebbe quindi originariamente dalla parte del Soggetto, non subendo condizionamenti da parte di
alcun oggetto. Ciò andrebbe tanto più a favore di un pluralismo della verità, in quanto la Verità
dipenderebbe completamente dalla Divina Compiacenza e non vi sarebbe nessuna fondazione oggettiva di
una «identica» verità permanente o, piuttosto, l'identità verrebbe privata di qualsiasi punto di riferimento
per affermare se stessa come tale. Non potremmo dire se la verità sia una o più.
La posizione tradizionale sosterrà ad oltranza che la verità è una perché questo intelletto infinito non può
cambiare. Tale linea argomentativa implica già l'identificazione dell'Essere con la Coscienza. Ma questa è
un'assunzione gratuita che non consegue dall'accettazione di una Coscienza infinita. La Coscienza divina,
in realtà, dovrebbe conoscere Tutto, ovvero tutto ciò che è conoscibile, ma non tutto ciò che appartiene
all'Essere deve necessariamente essere conoscibile, a meno che non identifichiamo preventivamente
l'Essere con la Coscienza. Un'intelligenza infinita non ha limiti nel suo ambito: niente le è inintelligibile,
ma nulla impone che quest'ambito sia totalmente identico alla realtà. In breve, potrebbe ben darsi che la
Realtà abbia un lato opaco, inaccessibile all'Intelligibilità. Nel linguaggio cristiano la Divinità non può
essere ridotta ad un Logos infinito. Vi «è» anche una Fonte apofatica. Vi è anche lo Spirito, né inferiore a,
né diverso dal Logos, ma non riducibile agli altri due. La Verità di Dio, il logos, per dirlo paradossalmente,
non è l'Intero Dio, poiché Dio essendo Verità, Logos e Verità infinita, Dio «è» solo questo. «È» Trinità.
Potremmo formulare il pluralismo della verità in un modo più vicino al buddhismo e allo yoga. Potremmo
allora commentare il citta-vrttinirodha, o la cessazione di tutta l'attività mentale, come nell'inizio dello
Yogasûtra, oppure lo àkimcanya âyatana, o la permanenza nella non-esistenza, come nel buddhismoprimitivo. In entrambi i casi il mentale viene superato e l'intuizione ultima si trova al di là della dialettica
quadripartita (fatta da A, non-A, A e non-A, né A né non-A). La verità non è soppressa, ma la sua dimora
(âyatana) non è più competenza del linguaggio. Sei così stupido da credere davvero che la tua opinione siaquella giusta e tutte le altre siano sbagliate?, suggerisce con discrezione il Suttanipâta.[8]
Queste ultime considerazioni sono soltanto modi di esprimersi di certe scuole particolari. E tuttavia quasi
tutte le teologie, come Ibn 'Arabi ha così significativamente sottolineato con la sua teoria dello
jam'al-diddayn (coincidentia oppositorum) , sono costrette a riferirsi al Divino utilizzando linguaggioantinomico e paradossi: la verità di un'affermazione va contraddetta da un'altra affermazione ugualmente
vera. La verità non può avere un'espressione unica ed univoca, rimarca al-chaykh al akbar (il più grandemaestro), com'è chiamato dalla tradizione. Questo è il punto, secondo noi, che concerne direttamente il
problema della verità religiosa nell'incontro tra le religioni. Vorrei enunciare ora alcuni dei corollari,
tralasciando di approfondire l'intrinseca polarità della verità ed il fatto che siamo quanto meno
parzialmente coinvolti in uno dei poli.
4. A mo' di conclusione
Il pluralismo della verità implica, tra gli altri, i seguenti corollari:
La verità religiosa di una particolare tradizione può essere appropriatamente compresa solo
all'interno della tradizione che l'ha elaborata. Ciascuna tradizione ha il suo linguaggio.[9]
1.
A partire da un certo sistema intellettuale religioso, è legittimamente possibile criticarne un altro,
purché si giunga ad un'area comune nella quale il dialogo e la critica abbiano senso per entrambe le
parti. È necessario parlare, almeno parzialmente, la stessa lingua.
2.
In ogni dato momento della storia dell'umanità esistono mythoi prevalenti che permettono la criticainterculturale e transreligiosa delle opinioni consolidate. Si può agevolmente affermare che il
sacrificio umano e la schiavitù siano comunemente e senz'appello ritenuti aberranti. Ma ci sono oggi
3.
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problemi scottanti che nessun approccio meramente intellettuale dovrebbe minimizzare. A meno di
non cavillare sulle parole, la violenza va evitata ad ogni costo? Dio è un'ipotesi necessaria ad un
mondo giusto? L'odierno capitalismo è una forza disumanizzante? Possiamo avere le nostre forti
opinioni in merito, ma non dovremmo presentarle come «verità» non negoziabili.
Il pluralismo della verità ci apre gli occhi, in primo luogo, sulla contingenza: io non ho una visuale di 360
gradi; nessuno ce l'ha.[10] In secondo luogo, e questa è la nozione più audace, la verità è pluralistica perchéla realtà stessa è pluralistica, non essendo un'entità oggettivabile. Noi soggetti siamo altrettanto parte di
essa. Non siamo solo spettatori del Reale, ma anche co-attori e perfino co-autori di esso. Questa èprecisamente la nostra dignità umana.
Ritengo che questo breve abbozzo, nella sua imperfezione, tocchi un problema essenziale dell'autentica
natura della Realtà, e che questo toccare la natura della Realtà rimbalzi, per così dire, sulla natura di tutte
le nostre imprese. Questo terzo millennio del mondo Occidentale, che lascia presagire un mutamento nella
nostra situazione, esige da noi un'idea di ciò che significa essere umano, di ciò che significa essere divino,di cosa sia il mondo in cui viviamo e del quale condividiamo la responsabilità.
Copyright © 2008 Raimon Panikkar
Raimon Panikkar. «Il pluralismo della verità». Dialegesthai. Rivista telematica di filosofia [in linea], anno 10 (2008)[inserito il 30 luglio 2008], disponibile su World Wide Web: <http://mondodomani.org/dialegesthai/>, [38 KB],
ISSN 1128-5478.
Note
Cfr. A. Rossi, Introduzione al testo di S. Calza, La contemplazione. Via privilegiata al dialogocristiano-induista, San Paolo, Milano 2001, p. 13: «Il secolo appena cominciato sarà il secolo dell'«altro». Se leculture umane hanno potuto vivere finora in un relativo isolamento, d'ora innanzi non sarà più possibile. Uno
degli effetti dello sviluppo tecnologico è di aver abolito le distanze e di aver offerto agli uomini del nostro tempo
l'occasione di incontrarsi. L'altro, lo straniero, colui che chiama Dio con un altro nome e vede il mondo con altri
occhi, è già in mezzo a noi»; nonché C. Eberhard, intervento alle pubbliche lezioni presso la Facoltà universitaria
Saint Luois di Bruxelles dal titolo «Du l'univers au plurivers de la globalisation. Fatalité, utopie, alternative?», 7
marzo 2008, per il quale «non si tratta di un gioco intellettuale gratuito, perché la ristrutturazione del nostro
vivere-insieme provocata dalla globalizzazione ci obbliga a riflettere su questi temi» (parafrasi di P.C.).
1.
Difficilmente traducibile in italiano. Letteralmente: «understand» («comprendere»); «under» («sotto»);
«stand» («stare»).
2.
Per Panikkar «l'inerzia della mente è superiore a quella della materia»: R. Panikkar ed al., Pace e disarmoculturale, l'altrapagina, Città di Castello (PG) 1987, p. 11.3.
Per la nozione di «mito», termine tecnico della filosofia di Panikkar, cfr. ad es. R. Panikkar, Myth, Faith andHermeneutics
, 1979 [tr. it. Mito, fede ed ermeneutica, Jaca Book, Milano 2000].4.
L'advaita (o a-dualità, in italiano) è l'idea della relazionalità, della distinzione senza separazione. Essa èirriducibile al monismo (per il quale tutto è uno) come al dualismo (per il quale esistono sostanze eterogenee e
separate). Nella sua visione cosmoteandrica (cfr. Id., La realtà cosmoteandrica, Jaca Book, Milano 2004), lacoscienza, il cosmico e il divino sono tre dimensioni della realtà reciprocamente irriducibili. Non c'è l'una senza
l'altra, ma non sono la stessa cosa. Cfr. anche Id., Saggezza stile di vita, Cultura della pace, San Domenico diFiesole (FI), pp. 79-80: «Non esiste nessun Dio senza uomo, nessun uomo senza mondo, nessun mondo senza
Dio. Questi tre si appartengono. [...] La vera visione della realtà scopre in ogni essere, in ogni piccola cosa, sia il
Divino che l'umano e il materiale. La chiamo visione cosmoteandrica».5.
Panikkar ha spesso riassunto questo risultato dicendo che il Pensiero non si identifica con l'Essere: cfr. ad es. Id.,
L'esperienza filosofica dell'India, p. 94.6.
7. L'episodio cui Panikkar si riferisce è narrato in 1Re 3,16-28.
Cfr. R. Panikkar, «Politica e interculturalità», p. 146, in R. Panikkar ed al., Reinventare la politica, pp. 3-30: «Ionon posso dire cos'è l'uomo, senza sapere quello che l'uomo pensa di sé. Ma se io penso che l'uomo sia una cosa e
poi trovo l'ultima donnetta dell'ultima isola dell'ultimo arcipelago che ne dice un'altra, la mia antropologia è
falsa, perché lei pensa di sé una cosa diversa e lei è tanto uomo quanto lo sono io e, a meno che io non abbia già
codificato l'uomo e dica «l'uomo è questo» anche quella voce deve essere ascoltata. Questa è la base filosofica del
pluralismo, che ogni essere umano, e molto di più ogni cultura, essendo autori della propria autocoscienza, ci
dicono quello che l'essere umano è».
8.
9. «Poiché il testo è tale sempre e soltanto in funzione di un determinato contesto, in che senso è possibile avere
Raimon Panikkar, Il pluralismo della verità (Dialegesthai) http://mondodomani.org/dialegesthai/rpa01.htm#rif1
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affermazioni universali nel momento in cui non esistono contesti universali?»: Id., La realtà cosmoteandrica,cit., p. 35.
«Non esiste certo una prospettiva globale. Ogni prospettiva è limitata, ma esiste sempre la possibilità di uno
scambio e anche di un ampliamento di prospettive e il dialogo interculturale mira proprio a questo»: Id., Pace einterculturalità. Una riflessione filosofica, Jaca Book, Milano 2002, p. 9. Cfr. anche Id., «Instead of a Foreword:An Open Letter», p. VII, in D. Veliath,
Theological Approach and Understanding of Religions. Jean Daniélouand Raimundo Panikkar: a Study in Contrast, Kristu Jyoti College, Bangalore 1988, pp. V-XIV: «Piùtrasparente è la finestra attraverso la quale vediamo la realtà, meno siamo coscienti che, dopo tutto, stiamo
guardando attraverso una finestra. È necessario l'altro per ricordarci della nostra finestra - sebbene io non stia
dicendo che tutte le finestre siano ugualmente pulite. [...] Ci sono delle finestre, e qualcuno deve pur assumersi
l'impopolare compito di ricordarci del nostro mito - che noi diamo per scontato» (traduzione di P.C.).
10.
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