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Il mondo in arrivo. Riflessioni sulle conseguenze della crisi e sulle tendenze economiche a venire

di Jacques Sapir - 04/11/2008

 


Non c’è alcun dubbio che le economie dell’Europa occidentale e dell’America del Nord conosceranno una recessione profonda e di lunga durata. Essa deriva sia dalle conseguenze della crisi finanziaria e bancaria, in particolare, dalle forme spietate che prende oggi la contrazione del credito ma, anche e soprattutto, dal fatto che il fondamento di questa crisi è costituito, come sostenuto altrove, da una crisi del modello di crescita neoliberista. In queste condizioni, sembra evidente che la congiunzione di queste due dimensioni innescherà una profonda contrazione dell’attività.
Questa durerà finché non emergerà un’altra dinamica di crescita. Oggi, anche se i paesi emergenti sono meno colpiti dei paesi sviluppati e anche se la crisi dovrebbe tradursi solo in un rallentamento della loro crescita (dall’11% al 9% in Cina, dall’8% al 6% on Russia), l’effetto trainante di questi paesi non potrebbe da solo tirar fuori dalla crisi i paesi sviluppati. È dunque inevitabile che in queste economie avvengano profonde ristrutturazioni. Esse coinvolgeranno anche i paesi emergenti e, progressivamente, ne uscirà un’altra configurazione dell’economia mondiale.

Radici e profondità della recessione nelle economie sviluppate

La recessione in cui sono entrate le economie sviluppate ha cause molteplici. Esse si combinano per creare un clima recessivo globale la cui ampiezza supera largamente ciò che abbiamo conosciuto dopo il 1945.

Innanzi tutto, la recessione proviene dagli effetti immediati della contrazione del credito. Quest’ultima si è bruscamente accelerata con la fase di crisi di liquidità che abbiamo visto tra il 20 settembre e il 15 ottobre. Anche se questa crisi sembra parzialmente superata come mostra la distensione sui tassi giornalieri e a breve termine, le banche non hanno modificato significativamente la loro politica. L’annullamento sistematico delle disponibilità di cassa e degli scoperti alle imprese che abbiamo constatato non solo in Francia e in numerosi paesi della Zona Euro, ma anche negli Stati Uniti, avrà un impatto importante a breve termine sull’attività economica. Constatiamo un fenomeno dello stesso ordine per i crediti accordati alle famiglie e in Francia, dall’inizio di settembre 2008, il numero di pratiche a lungo termine respinte supera il 50%. Oggi Il razionamento del credito non viene più fatto tramite il costo (il tasso d’interesse), ma direttamente attraverso la quantità (respinta di richieste o sospensione di agevolazioni di pagamento). Infatti, siamo passati da un sistema di « mercato del credito » ad un sistema di credito amministrato decentralizzato, senza dubbio il peggiore di tutti I sistemi. In effetti, sarebbe più efficace un’allocazione amministrata centralizzata.

Nei paesi che hanno adottato il sistema americano di credito ipotecario, regolato sul valore del bene (Stati Uniti, Gran Bretagna e Spagna), il brusco ribasso di valore dei beni immobiliari giunge ad ampliare la contrazione del credito ben al di là degli effetti della contrazione in precedenza descritta. Negli Stati Uniti si può stimare che questa situazione produrrà una contrazione della spesa familiare dal 2,5% al 3%. Nei « cloni » britannico e spagnolo c’è da aspettarsi un effetto del genere.

Inoltre, ci troviamo a confronto con un potente effetto di ricchezza negativa indotto dal crollo, dopo il 14 settembre, dei valori mobiliari che ha ampliato delle tendenze presenti da questa primavera. Ne è direttamente colpito non solo il portafoglio delle famiglie ma, in tutti i paesi dove la protezione sociale e le pensioni sono basati su sistemi di assicurazione che hanno preso la forma di fondi pensione, si è di fronte alla prospettiva di importanti ribassi dell’ammontare delle prestazioni.
Questo dovrebbe innescare un importante rialzo del risparmio delle famiglie, in particolare nei paesi che hanno adottato il modello neoliberista americano e che si caratterizzano con un tasso di risparmio molto debole. Va dunque prevista una crescita del risparmio dall’1,5% al 2,5% del PIL, il che provocherà un’ulteriore contrazione del volume dei consumi.

Peraltro, il ribasso dei valori mobiliari raggiungerà anche le imprese nei paesi (Stati Uniti e Gran Bretagna) dove queste ultime avevano l’abitudine di collocare in azioni una parte dei loro fondi di rotazione. In una situazione di brusco razionamento del credito, la perdita di questi fondi di rotazione costringerà le imprese più sane a ridurre i volumi di produzione e, tra le imprese più fragili, potrebbe provocare uno impietoso aumento dei fallimenti. Saranno di certo insufficienti anche delle misure di esenzione fiscale.

Secondo Paul Krugman, l’insieme di questi elementi porta a prevedere una recessione importante o « cattiva » (nasty).
Negli Stati Uniti, il PIL dovrebbe diminuire tra il 2% e il 3% dal IV trimestre 2008 e questo per una durata di almeno 3 trimestri. L’effetto si farà sentire dapprima in Messico, in particolare nelle zone di frontiera delle imprese esportatrici, ma anche in Canada. È l’insieme della zona ALENA (o NAFTA) che all’inizio del 2009 dovrebbe essere in recessione.
In Zona Euro, la recessione sarà particolarmente severa in Spagna e in Gran Bretagna. In quest’ultimo paese, il PIL è già diminuito dello 0,5% nel III trimestre2 ed il movimento dovrebbe ampliarsi durante l’inverno. Lo dimostra il crollo del mercato di consumo dei beni durevoli3. Nonostante alcune misure di sostegno all’economia, il PIL dovrebbe arretrare almeno dell’1,5%. Anche la Germania e la Francia entreranno in recessione dalla fine del 2008 e vivranno il momento più difficile all’inizio del 2009. Qui, è significativo il crollo degli ordini nell’industria tedesca. Il PIL potrebbe calare tra lo 0,5% e l’1%. L’Italia dovrebbe conoscere un ribasso del PIL di circa l’1-1,5%. Saranno toccati anche i paesi del BENELUX, in particolare dalla congiunzione delle recessioni tedesca e francese.

Qui va aggiunto che queste previsioni sono inclusive dei piani di sostegno sulla base delle dichiarazioni già fatte oppure delle misure già votate (in particolare dalla Spagna). Piani di maggiore ampiezza, purché mesi in atto molto rapidamente (prima di fine novembre 2008), potrebbero ridurre l’impatto della recessione d’inizio 2009. Ma, se tali piani dovessero essere decisi e messi in atto solo all’inizio del 2009, non dovremo attenderci un effetto positivo prima della fine della primavera.


Una recessione di lunga durata ?


Se la recessione in cui siamo entrati è destinata ad essere importante, a maggior ragione non bisogna sottovalutarne la durata. Contrariamente alle fallaci affermazioni di certi economisti « mediatici » fatte nel 2007 o nel primo semestre del 2008, non ci troviamo in un semplice « ciclo » economico. Questa crisi è prima di tutto quella di un modello di crescita o di un modo di accumulazione messo in piedi a partire dagli anni 1980.

Contrariamente al modo di accumulazione precedente, esso è stato caratterizzato da una cattura quasi totale dei guadagni della produttività da parte dei profitti a scapito dei salari. Ciò ha permesso di far crescere in maniera considerevole i versamenti di dividendi agli azionisti e, più ancora, di sviluppare i rendimenti degli investimenti finanziari. Così questi ultimi hanno potuto progredire grazie alla deregolamentazione delle operazioni bancarie e finanziarie che ha consentito la messa in campo di leve di finanziamento caratterizzate da rapporti di 1 a 25 o 30 tra il capitale iniziale e i fondi presi. Il ricorso alla cartolarizzazione dei debiti ha permesso una disseminazione del rischio che è stata confusa con la sua mutualizzazione. Essa ha consentito un ribasso dei tassi d’interesse rendendo ancor più facile l’indebitamento ed arrivando a rafforzare le pratiche dell’effetto di leva. La finanza ha funzionato come una trappola a valore aggiunto. In un primo tempo, tutto questo ha portato a forti rialzi dei prezzi delle attività, sia mobiliari che immobiliari.
Il valore azionario è stato uno dei principi di questo modo d’accumulazione finanziarizzato in cui la ricchezza sembrava dover principalmente venire non dai redditi da lavoro, ma dai rendimenti dei patrimoni accumulati. Ma questo non è stato il solo principio fondatore di tale regime d’accumulazione.

Per arrivare a questo risultato, non ci voleva solo la messa in opera di una fiscalità sempre meno re-distributrice come quella vista, a partire dal 1980, negli Stati Uniti e poi progressivamente in Europa. Occorreva anche che si potesse creare un’autentica deflazione salariale. La progressiva apertura e realizzazione di un quadro generalizzato di libero scambio è stata lo strumento principale di questa deflazione salariale. Se il movimento delle delocalizzazioni è stato in totale relativamente debole, l’impatto della minaccia di queste ultime è stato decisivo, non solo per comprimere il reale innalzamento dei salari, ma anche per portare alla diminuzione delle prestazioni sociali. La pressione esercitata dalla combinazione di salari deboli e di assenza di protezione sociale ed ecologica in paesi dove il trasferimento dei capitali ha permesso dei rapidissimi guadagni di produttività ha fatto saltare il compromesso sociale uscito dal 1945, anzi dagli anni 1930.

A meno di non potersi specializzare in nicchie particolari, di beneficiare di energia a costi bassissimi (Svezia) o di un massiccio apporto della rendita petrolifere (Norvegia), i paesi di tradizione industriale e di dimensioni medie sono stati particolarmente colpiti. Anche nei paesi del Nord Europa, assistiamo a rapidi smantellamenti del compromesso sociale uscito dagli anni 1930.
La deflazione salariale ha avuto effetti negativi sulla crescita che sono stati combattuti solo con una crescita del debito pubblico (modérato in Francia, importante in Italia) e con un esplosivo indebitamento delle famiglie nei paesi che adottavano la variante più neoliberista del modello (Stati Uniti, Gran Bretagna e Spagna).

Oggi si vede bene che questo regime d’accumulazione è a pezzi in modo duraturo. Anche dopo aver superato la crisi finanziaria e borsistica, e ne siamo ancora lontani, è chiaro che le banche non praticheranno più il credito come hanno fatto in precedenza. Una profonda avversione per il rischio caratterizzerà alcuni mercati finanziari, una parte delle cui istituzioni sarà sprofondata nella crisi e e su di essa peserà un obbrobrio che durerà a lungo.

Davanti all’ampiezza della crisi montante all’interno delle economie sviluppate e che dovrebbe tradursi in una severa recessione nel migliore dei casi di almeno due anni, è indispensabile il ripristino di protezioni doganali. È oggi il solo mezzo per evitare che la deflazione salariale avvii le economie sviluppate dalla recessione verso la depressione. Sarebbe opportuno che queste misure si ispirassero a principi di protezionismo sociale ed ecologico sviluppati in precedenza4.
Il ritorno al protezionismo è indispensabile anche perché si possa ricostruire un rapporto di forze che permetta un’inversione dell’attuale tendenza della divisione del valore aggiunto e per riconnettere la progressione dei salari a quella dei guadagni della produttività.

Il peso dell’indebitamento e le sue conseguenze

Se la crisi attuale accelererà necessariamente il riequilibrio economico percepibile da un decennio, essa genererà altri problemi che peseranno sul contesto geoeconomico mondiale.

Il più evidente è indiscutibilmente quello dell’indebitamento. Abbiamo visto che il modello neoliberista non poteva mantenere una crescita ragionevole (al di sopra del 2,5%) che al prezzo di un costante indebitamento delle famiglie. Infatti, i paesi che hanno adottato questo modello, che siano gli Stati Uniti o i loro cloni europei, hanno raggiunto i limiti assoluti del modello, il che spiega la violenza della crisi. Essi dovranno trasformarsi oppure tentare di combatterla accrescendo fortemente il debito pubblico al punto da superare rapidamente i paesi che avevano conservato il modello europeo tradizionale.

Il deficit pubblico americano per l’anno fiscale 2009 (settembre 2008-agosto 2009) raggiungerà almeno il 10% del PIL se si aggiunge l’insieme delle spese necessarie dovute alla crisi. Se dovessero essere adottati nuovi piani di rilancio per evitare di di entrare in una spirale depressiva, cosa che nell’autunno 2008 sembra molto probabile, la barriera del 10% del PIL dovrebbe essere superata ed il deficit del prossimo anno fiscale potrebbe raggiungere un tasso dal 6 all’8%. E’ poco probabile che prima dell’anno fiscale 2012 gli Stati Uniti possano tornare ad un deficit vicino al 3% del PIL.
Aggiungiamo, ed il calcolo ancora non è stato fatto, l’impatto della brusca perdita di valore del capitale dei Fondi Pensione a copertura delle pensioni. Il rischio di un massiccio impoverimento di un’importante frazione della popolazione, di cui è nota la capacità di peso elettorale, dovrebbe condurre all’estensione di garanzie pubbliche ai sistemi privati di pensionamento. Anche questo rischia di avere un costo di bilancio particolarmente elevato.

I « cloni » europei degli Stati Uniti dovrebbero conoscere delle tendenze analoghe. Ora, questi paesi sono già tutti pesantemente indebitati. Si può dunque pensare che per i paesi che si sono impegnati nel modello di crescita neoliberista e che dovranno uscirne catastroficamente sotto l’effetto della crisi, di poter prevedere un bisogno finanziario di circa il 25% del PIL per l’insieme dei prossimi anni per le sole amministrazioni pubbliche.
Per quanto riguarda le imprese, dovendo fronteggiare una brusca contrazione della domanda, anch’esse dovranno indebitarsi per non compromettere irrimediabilmente la loro sopravvivenza. Il bisogno totale che esse esprimeranno potrebbe raggiungere da qui al 2011 una percentuale tra l’8 e il 10% del PIL.

Per gli altri paesi sviluppati, il bisogno di finanziamento sarà più ridotto e i modelli assai imprudentemente definiti « arcaici » dovrebbero rivelarsi relativamente robusti. Comunque, di fronte al sensibile deterioramento dell’attività economica, anche qui nelle amministrazioni si farà sentire il bisogno d’indebitarsi per mantenere la disoccupazione ad un livello ragionevole. Possiamo valutare nel il 15-20% del PIL il bisogno totale di finanziamento (amministrazioni ed imprese) per i prossimi tre anni nei paesi sviluppati non completamente immersi nel modello neoliberista.
Non vi è dunque alcun dubbio che I paesi sviluppati avranno massicci bisogni di finanziamento. È poco probabile che il risparmio possa coprirli. Nei paesi che hanno adottato il sistema neoliberista, il risparmio è sin troppo debole. Negli altri paesi, esso sarà già fortemente sollecitato. Spingere alla sua crescita tornerebbe a ridurre di altrettanto i consumi e, dunque la domanda, aggravando così la recessione.

Il ritorno dell’inflazione come condizione della crescita

La spinta all’indebitamento che conosceremo a medio termine avrà conseguenze importanti in materia di equilibrio macroeconomico. Essa si combinerà con le conseguenze di una necessaria modifica della divisione del valore aggiunto.

È assai poco probabile che il risparmio dei paesi emergenti arrivi a comprare massicciamente questi nuovi debiti emessi dai paesi sviluppati. Da una parte, a causa dell’ormai inevitabile montare del protezionismo che ridurrà l’avanzo commerciale di questi paesi, dall’altra perché la rotazione da una logica di crescita estroversa, portata dalla predazione sul commercio internazionale verso una logica introversa fondata sul mercato interno implica una riduzione dei tassi di risparmio che sono spesso – come in Cina – eccessivi. I paesi emergenti dovranno da una parte accrescere i loro consumi a detrimento del risparmio per trovare nuovi motori di crescita e, dall’altra parte, dedicare la maggior parte del loro risparmio all’investimento interno.

La rottura del meccanismo che vedeva l’avanzo commerciale dei paesi emergenti riciclarsi nel debito americano è probabilmente destinata a durare a lungo. In queste condizioni, i paesi sviluppati hanno poche alternative. Se tentano di ridurre la crescita del loro debito attraverso il controllo della spesa, aggraveranno drammaticamente la recessione al punto da rischiare dei disordini politici e sociali di grande portata. Se aumentano i tassi d’interesse per tentare di rendere attraente il loro debito, essi ammazzeranno l’investimento ed aggraveranno, per un altro verso, la crisi.
Un’alternativa ragionevole sarebbe procedete politicamente alla distruzione di una parte del debito esistente, attraverso dei condoni di crediti per le famiglie e con delle cancellazioni organizzate per i debiti delle imprese o delle amministrazioni. Ma, una tale ragionevole alternativa è poco probabile, perché esigerebbe un grado di coraggio politico che non bisogna aspettarsi di trovare nei sistemi occidentali. L’ultima alternativa, quella che molto probabilmente sarà adottata, consiste in un forte aumento dell’inflazione.

Tuttavia, l’inflazione non sarà indotta solo dal il peso dei debiti accumulati. La modifica della divisione del valore aggiunto significa che negli anni a venire i prezzi e i redditi relativi dovranno modificarsi in maniera sostanziale. Ora, uno dei risultati più consistenti dell’economia è che il cambiamento dei prezzi relative avviene in modo tanto più rapido ed accettabile quando è preso in un movimento dei prezzi e dei redditi nominali. La rigidità alla diminuzione dei prezzi e dei redditi nominali è, in effetti, un fenomeno perfettamente studiato e dimostrato5. L’inflazione è innanzi tutto un meccanismo che permette di modificare rapidamente i prezzi e i redditi relativi6. .

Per evitare che la recessione si trasformi in depressione, le economie occidentali non avranno altra scelta che ritornare sugli straordinari vantaggi accordati alla rendita contro il lavoro a partire dagli anni 1980. Come già indicato da Keynes, l’inflazione permetterà agli imprenditori di sganciarsi dalla « mano morta » del passato affinché riprenda la crescita7 ed essa sarà la dolce eutanasia della rendita. Mentre alcuni studi hanno già mostrato che un’inflazione troppo debole ostacola la crescita8 e che in realtà per ogni economia c’è un « tasso d’inflazione strutturale »9, è chiaro che nei prossimi anni l’inflazione giocherà un ruolo importante nel mantenimento della crescita. Questo renderà imperativo procedere ad una buona distinzione tra determinanti strutturali e determinanti monetari dell’inflazione10. Ma, una tale soluzione non è senza profonde conseguenze quanto all’organizzazione monetaria e finanziaria del mondo del dopo crisi.

Il ritorno dello Stato


Questo ritorno al ruolo attivo della spesa pubblica in un contesto di forte recessione va a far parte di un movimento più generale di ritorno dello Stato come attore economico primario. È certamente una delle conseguenze più importanti dell’attuale crisi.

Già lo si vede nel settore bancario, dove sono i governi a porsi come garanti delle banche e delle assicurazioni.
La Gran Bretagna nell’ottobre 2008 ha già nazionalizzato circa il 50% del suo sistema bancario ed il governo americano intende utilizzare almeno 250 dei miliardi di dollari del «Piano Paulson» per comprare azioni di banche al fine di aiutare la loro ricapitalizzazione11. Abbiamo chiaramente visto che la potenza pubblica è stata portata ad andare ben al di là della sua funzione di regolamentare ed inquadrare. Ormai, lo Stato è chiamato a diventare un attore a parte a intera.

Questo dovrebbe verificarsi rapidamente al di fuori della finanza. Le recenti dichiarazioni del Presidente francese Nicolas Sarkozy per la costituzione di fondi sovrani su scala europea destinati a riacquistare le azioni delle imprese strategiche12 al fine di evitare che queste ultime possano essere oggetto di prese di controllo ostili a causa dell’attuale crollo delle quotazioni, lasciano presagire un ritorno dello Stato come produttore ed organizzatore. In rapporto all’ideologia economica di questi ultimi vent’anni, questo costituisce un ribaltamento senza precedenti.
Di fatto, i principali paesi sviluppati si trovano portati ad allinearsi su pratiche economiche che sono state quelle di paesi emergenti come la Cina, la Russia o il Brasile. Del resto, nei forum internazionali diverrà sempre più difficile stigmatizzare tali pratiche nella misura in cui esse diverranno correnti nei paesi occidentali13.

Questa svolta a favore di un massiccio ritorno dello Stato come attore sia diretto che indiretto implica tuttavia una vera riflessione sulla natura delle politiche pubbliche e sul loro grado di coordinamento. Sta ricomparendo la nozione di « settori strategici » e, con essa, quella delle politiche industriali attive. È dunque tutto il quadro delle rappresentazioni della politica economica che è chiamato a modificarsi in profondità.
Ciò sarà tanto più necessario in quanto il ritorno dello Stato si manifesterà in un altro campo, quello della sovranità monetaria.

Il ritorno al controllo sovrano degli Stati sulla politica monetaria

Se si ammette che in futuro il modello di crescita neoliberista non potrà più funzionare e che lo sviluppo economico si dovrà accompagnare ad una nuova divisione del valore aggiunto, ritornando sugli anni di deflazione salariale che abbiamo conosciuto, è inevitabile la persistenza di un tasso d’inflazione relativamente elevato sul lungo periodo. In questa situazione, con la duplice pressione esercitata dallo squilibrio tra bisogno di finanziamento e capacità di finanziamento e quello proveniente dal riaggiustamento del rapporto tra salari e profitti, la crescita sarà possibile solo se la politica monetaria ritornerà uno strumento diretto di politica economica. Non risolversi a questo, vuol dire accettare una lunga recessione, anzi lo sprofondamento in un’autentica depressione.

Dire che la politica monetaria deve ridiventare uno strumento diretto della politica economica implica il ritorno, sotto una forma od un’altra, al signoraggio monetario. Dal fatto che si vede la FED accordare crediti alle imprese americane14, è chiaro che si è impegnati in questo senso.
Ciò significa la fine del dogma dell’indipendenza delle Banche Centrali nella forma in cui ha dominato la politica economica da più di una generazione. In una forma o in un’altra, andremo verso una ri-nazionalizzzazione delle Banche Centrali, solo a causa dei cattivi debiti che esse hanno dovuto accettare nel loro bilancio dall’inizio del 2008. In effetti, quando per ricostituire la liquidità delle banche si decide che le Banche Centrali prendano su di sé dei titoli consegnati loro dalle banche, accettiamo un trasferimento al loro bilancio di una parte dei crediti « guasti » del sistema bancario. Bisognerà dunque ricapitalizzare anche le Banche Centrali. Se a questo problema aggiungiamo quello della coerenza di una politica economica nelle costrizioni esposte e che derivano dalla crisi, è facile vedere che la situazione attuale delle Banche Centrali diviene un’impossibilità.

Il ritorno alla sovranità monetaria ha un aspetto importante anche in materia di gestione dei tassi di cambio. In alcune economie che incontreranno importanti tassi d’inflazione largamente strutturali ma, a livelli diversi, diventerà imperativo poter procedere a regolari svalutazioni. L’importanza dei debiti accumulati sarà tale che lasciare che dei meccanismi di mercato definiscano le parità tra le divise vorrebbe dire assumere un rischio considerevole e pure sconsiderato. È probabile che dovremo assistere ad alcuni violenti episodi di speculazione sui tassi di cambio prima che i governi capiscano la lezione15.
L’introduzione di meccanismi di controllo dei flussi di capitali e dei cambi sarà ben presto una necessità funzionale nel contesto del dopo crisi. Notiamo che su questo punto la Cina gode già di un bel vantaggio perché, a giusta ragione, non ha mai accettato di liberalizzare il suo mercato dei cambi.

Quale futuro per l’Euro ?


Il ritorno alla sovranità monetaria sarà una tendenza generale. Essa in Europa avrà implicazioni importanti.

In linea di principio, nulla vieta che questo ritorno sia compatibile con il mantenimento della zona Euro. Il consiglio Ecofin dovrebbe prendere il controllo della BCE dopo aver fondamentalmente modificato la carta di quest’ultima. In effetti, la possibilità di monetizzare l’emissione di debiti pubblici in seno alla Zona Euro potrebbe costituire una potente leva di crescita. Ma, bisogna comprendere che vi saranno difficoltà molto importanti per arrivare ad una coordinamento all’interno del consiglio EcoFin. Al di là delle diverse culture politiche dei paesi membri, l’ostacolo principale16 è l’esistenza di fortissime eterogeneità tra le economie della Zona Euro. La messa in circolazione dell’Euro non è stata accompagnata, bisogna avere il coraggio e l’onestà di constatarlo, da un reale progresso in materia di convergenza delle dinamiche economiche17. Infatti, il tasso d’inflazione necessario ad una crescita ragionevole dovrebbe essere sensibilmente diverso a seconda dei paesi. Ora, in seno ad una moneta unica, ciò indice delle distorsioni che alla lunga non sono sopportabili. Sappiamo già che l’attuale apprezzamento dell’Euro è costato molto caro alla crescita francese18. La creazione di un importante budget federale (di almeno il 20% del totale del PIL della zona) potrebbe essere una soluzione. Ma, non è politicamente realistico pensare che una tale evoluzione sia possibile prima di moltissimi anni. In queste condizioni, una crisi dell’Euro rischia di essere inevitabile, come è stato indicato alcuni anni fa19.
In alternativa ad una totale esplosione della Zona Euro, la soluzione potrebbe essere un sistema intermedio. Per certi paesi membri, l’Euro diverrebbe una moneta di riserva, in rapporto alla quale la loro moneta nazionale, da essi ripristinata, sarebbe convertibile sulla base di un tasso fisso da rivedere regolarmente. I paesi che costituiscono il blocco più omogeneo potrebbero conservare loro l’Euro come moneta unica. Avremmo una Zona Euro costituita da cerchi concentrici, che sarebbe più robusta e flessibile per far fronte alle nuove esigenze. Del resto, questo sistema permetterebbe più facilmente dell’attuale forma dell’Euro un coordinamento con altre monete e, dunque, la costituzione di una zona di stabilità monetaria che andrebbe al di là delle frontiere dell’UE.

Verso una nuova Bretton Woods ?

L’ampiezza dell’attuale crisi, come le sue prevedibili conseguenze, sollevano naturalmente la questione della riforma del sistema monetario e finanziario internazionale.
Questo tema comincia ad apparire nei discorsi politici dove si fa appello ad una « nuova Bretton Woods ». Una tale problematica è stata portata avanti da alcuni dirigenti politici di segno opposto in Francia (da Ségolène Royal al Presidente Sarkozy, passando per Lionel Jospin), ma anche in Italia ed in Russia e in numerosi altri paesi. Anche negli Stati Uniti si fanno sentire alcuni voci che chiedono la rifondazione del sistema monetario e finanziario mondiale. Pensare la riforma del sistema monetario e finanziario mondiale è necessario, ma si tratta di un compito di lungo respiro che non va realizzato precipitosamente.

L’esistenza di un sistema monetario e finanziario mondiale è strettamente legata allo sviluppo degli scambi economici e finanziari internazionali. Gli accordi di baratto (compensazione bilaterale), se permettono un certo livello di scambio, limitano considerevolmente il loro sviluppo e non permettono ai flussi d’investimento di svilupparsi tra i paesi. Il sistema monetario mondiale deve dunque assicurare un certo livello di prevedibilità dei prezzi, un livello di liquidità compatibile con il ritmo di sviluppo dell’economia mondiale e un livello di garanzia per le operazioni di cambio tra le monete. Tali sono le priorità che bisogna rispettare per dar vita in maniera fruttuosa ad un processo di ricostruzione del sistema monetario e finanziario mondiale. Ne derivano diversi principi.

A. Un mondo multipolare vieta l’emergere di una nuova « divisa-chiave » su scala mondiale.
È dunque irrealistico pensare o sperare che un'altra moneta prenda il ruolo del dollaro. Del resto, la complessità dell’economia mondiale renderebbe suicida il ritorno alla base aurea o su qualsivoglia metallo.
L’attuale scelta è dunque sia di tentare di mantenere un sistema monetario mondiale, ma che potrà essere costruito solo su una moneta « neutra » che potrebbe essere un « paniere » di diverse monete, sia di prendere atto di una frammentazione del sistema con l’emergere di blocchi regionali strutturati attorno a monete di riserva regionali e tentare poi di coordinare questi insiemi regionali.
La prima ipotesi è quella che garantirebbe al meglio gli interessi di tutti. Essa implica tuttavia un accordo globale e la rapida costruzione di una nuova istituzione finanziaria mondiale, la Banca Centrale delle Nazioni Unite e lo scioglimento del FMI. È probabile che ciò non sia realistico prima di molti anni.

La seconda ipotesi vedrebbe l’emergere di Banche Centrali regionali, nel quadro di raggruppamenti geopolitici (America del Nord, America del Sud, Europa Occidentale, Eurasia, Asia del Sud-Est, Oceania). In certi casi, queste Banche Centrali regionali potrebbero essere il risultato di un accordo tra paesi che danno vita ad una moneta regionale unica (come nella Zona Euro). Tuttavia, questo sistema comporta dei meccanismi di trasferimenti di bilancio tra i paesi membri dell’accordi. A causa di un tale meccanismo, la sopravvivenza di una zona monetaria comune è delicata (tale è l’attuale situazione della Zona Euro). Un’altra possibile soluzione è quella in cui la Banca Centrale regionale sarà di fatto quella del paese regionalmente dominante. Infine, una situazione intermedia può essere quella di una cooperazione tra Banche Centrali di paesi che hanno dimensioni economiche e finanziarie compatibili.
Va segnalato che alcune zone importanti rischiano di non poter essere integrate (Africa, Medio Oriente) oppure dovranno agganciarsi ad altre zone esistenti. Nel caso di una frammentazione del sistema monetario mondiale, potremmo veder emergere da 5 a 7 monete di riserva regionali. La carta del FMI dovrebbe essere cambiata per fare di questa organizzazione il gestore del coordinamento tra le zone, con un consiglio dei direttori rappresentativo del peso economico e demografico di ogni zona. Le missioni di banca di sviluppo (Banca Mondiale) e di gestione degli squilibri di cambio (missione in origine del FMI) saranno allora devolute ad istituzioni regionali.

B. Mettere fine a vent’anni di deregolamentazione e di liberalizzazione dei movimenti finanziari.
Quale che sia la soluzione verso cui ci si orienterà in materia dello strumento di riserva, i flussi finanziari internazionali dovranno essere severamente regolamentati. In effetti, gli attuali fenomeni di speculazione generalizzata generati dalla deregolamentazione della finanza rendono impossibile il rispetto dei vincoli in termini di prevedibilità dei prezzi mondiali, di messa a disposizione di liquidità e di garanzia sulle operazioni di cambio. Non è possibile pensare un sistema monetario mondiale che garantisca il rispetto dei tre vincoli citati in precedenza se il sistema finanziario mondiale continua ad essere uno spazio di pura speculazione.

C. Assicurare la transizione verso un nuovo ordine monetario e finanziario mondiale.
Se l’obiettivo ultimo di ogni proposta di riforma è proprio proporre un sistema completo e coerente suscettibile di fondare un ordine mondiale monetario e finanziario, la natura e la gravità dell’attuale crisi rendono indispensabili delle proposte immediate di riforma per poter limitare gli effetti della crisi e preparare il successivo passaggio ad un sistema ricostruito. In un certo senso, oggi non può esserci proposta di riforma globale del sistema che non risponda anche ai problemi immediati. Per essere credibile, una proposta di riforma globale deve accompagnarsi a proposte transitorie capaci di controllare gli effetti più distruttivi della crisi che stiamo vivendo.

I due problemi principali posti dalla crisi sono oggi la penuria di liquidità tra le banche (il credit-crunch) e i movimenti speculativi indotti dagli Hedge-Funds e, in generale, dalle istituzioni speculative. Questi due problemi implicano la presa di misure transitorie relativamente a breve termine.
Serve un immediato cambiamento dello statuto del FMI. La funzione di quest’ultimo dovrebbe essere la concertazione tra le Banche Centrali per l’emissione delle liquidità necessarie a livello mondiale. Ciò implica che il FMI modifichi al più presto le regole di rappresentanza dei paesi perché questi ultimi siano rappresentati in base al loro contributo al PIL mondiale ed alla popolazione mondiale. Dovrebbe essere immediatamente costituito un direttorio esecutivo comprendente gli Stati Uniti, la Zona Euro, la Russia, la Cina, l’India, un rappresentante dei paesi del Medio Oriente, un rappresentante dei paesi dell’America Latina. Questo direttorio dovrebbe gestire le allocazioni di liquidità a breve e medio termine attraverso una « Cassa Centrale » operante sul dollaro, sull’euro e sullo yen.

Un’altra misura dovrebbe essere l’introduzione, a titolo temporaneo, di restrizioni nei movimenti finanziari internazionali a breve e brevissimo termine, in modo da limitare il rischio di contagio.


Il mondo che uscirà da questa crisi sarà molto diverso da quello che abbiamo conosciuto dal 1980 ad oggi. Non solo stanno cambiando i rapporti di forze e questo nel complesso dei campi, da quello militare all’economia, ma si modificheranno le stesse rappresentanze. Questa è la crisi dell’ideologia neoliberista. Le esigenze economiche che scaturiranno dal crollo dell’economia del debito messa in piedi nelle economie occidentali e portata al suo parossismo negli Stati Uniti e nei « cloni » europei del modello americano innescheranno il ritorno di importanti dinamiche inflazionistiche. Esse condurranno gli Stati a riprendere il controllo della loro politica monetaria e della loro politica di cambio. Negli anni a venire assisteremo al ritorno dello Stato come attore economico di prima grandezza (cosa che in realtà non aveva cessato di essere in Cina ed in Russia), alla fine dell’indipendenza delle banche centrali e al ritorno di politiche di cambio più o meno pilotate in funzione delle logiche di sviluppo. Del resto, questo non sarà possibile che attraverso la messa in campo di forme di controllo sui flussi di capitali limitando l’impatto dei movimenti di mercato e della speculazione sui tassi di cambio.
In questa fondamentale revisione delle concezioni, delle politiche e degli strumenti che conosceremo, si porrà rapidamente la questione della sopravvivenza delle istituzioni europee nella forma attuale.

24 ottobre 2008


Note:

1 – Direttore di studi all’EHESS, Direttore del CEMI-EHESS.

2 - Jennifer Ryan « U.K. GDP Shrinks, First Recession Since 1991 Looms (Update2) » in Bloomberg.com, 24 ottobre 2008 URL
http://www.bloomberg.com/apps/news?pid=20601087&sid=aKOm3LW89onI&refer=home

3 - Laurence Frost « Peugeot Cuts Goals, Production, on Market `Collapse' (Update2) », Bloomberg.com, 24 ottbre 2008, URL :
http://www.bloomberg.com/apps/news?pid=20601110&sid=aQVax4SZZ9EU

4 - J. Sapir, La Fin de l’Eurolibéralisme, Paris, Le Seuil, 2006

5 - B.C. Greenwald et J.E. Stiglitz, "Toward a Theory of Rigidities" in American Economic Review, vol. 79, n°2, 1989, Papers and Proceedings, pp. 364-369. J.E. Stiglitz, "Toward a general Theory of Wage and Price Rigidities and Economic Fluctuations" in American Economic Review, vol. 79, 1989, Papers and Proceedings, pp. 75-80. G.A. Akerlof, W.T. Dickens et G.L. Perry, "Near Rational Wage and Price Setting and the Long Run Phillips Curve" in Brookings Papers on Economic Activity, n°1/2000.

6 – E’ il punto sul quale concordavano Hayek e Keynes. Vedi J. Sapir, Les Trous Noirs de la Science Économique, Paris, Albin Michel, 2000.

7 - J.M.Keynes, "A tract on Monetary reform", in J.M.Keynes, Essays in Persuasion, Rupert Hart-Davis, London, 1931.

8 - G.A. Akerlof, W.T. Dickens e G.L. Perry, "The Macroeconomics of Low Inflation" in Brookings Papers on Economic Activity, n°1/1996, pp. 1-59. T.M. Andersen, "Can Inflation Be Too Low ?" in Kyklos, vol. 54/2001, Fasc.4, pp. 591-602.

9 - Vedi i modelli a « sticky information », G.N. Mankyw, "The Inexorable and Mysterious Tradeoff Between Inflation and Unemployment" in Economic Journal, vol 111, n°1/2001, pp. 45-61. G.N. Mankyw e R. Reis, "Sticky Information versus Sticky Prices: A Proposal to Replace the New Keynesian Phillips Curve" in Quarterly Journal of Economics, vol. 117, n°4/2002, pp. 1295-1328 ; O. Coibion, "Inflation Inertia in Sticky Information Models", in Contributions to Macroeconomics, vol.6, n°1/2006.

10 - Vedi, J. Sapir, «Articulation entre inflation monétaire et inflation naturelle : un modèle hétérodoxe bi-sectoriel» testo presentato alla XXX sessione del seminario Franco-Russo (ottobre 2006, Stavropol) e scaricabile da
http://cemi.ehess.fr/document.php?id=814

11 - Robert Schroeder e Greg Robb , « Filling in the blanks on plans to rescue banks »
MarketWatch 13 ottobre 2008,
http://www.marketwatch.com/news/story/global-efforts-rescue-banking-system/story.aspx?guid={9C59F5E0-73C7-4AC8-93CD-88E01998974E}&print=true&dist=printMidSection

12 – Dichiarazione del 20 ottobre 2008.

13 – Ci vuole inoltre molto contegno per non scoppiare a ridere di fronte alle reazioni delle agenzie di rating che minacciano di ridurre la valutazione della Russia a causa dell’impennata dell’intervento dello Stato.

14 - Craig Torres e Bryan Keogh « Fed Offers GE, Citigroup Commercial Paper Subsidies (Update4) », in Bloomberg.com, 15 ottobre 2008, URL :
http://www.bloomberg.com/apps/news?pid=20601109&sid=ahXpRJ2bFKc0&refer=exclusive

15 - J. Sapir, « How deep the US Dollar could go ? » in real-world economics review, n°. 48, ottobre 2008. Ye Xie, « Dollar Intervention Risk `Meaningful' on Volatility » Bloomberg.com, 29 settembre 2008,
http://www.bloomberg.com/apps/news?pid=20601087&sid=a.bfBX1EE59Q&refer=home

16 - I. Angeloni and M. Ehrmann, “Euro Aera Inflation Differentials”, The B.E. Journal of Macroeconomics, Vol. 7: 1/2007, Articolo 24, p.31. Available at:
http://www.bepress.com/bejm/vol7/iss1/art24 , J. Gali, M. Gertler and D. Lopez-Salido, “European Inflation Dynamics” in European Economic Review, Vol. 45, n°7/2001, pp. 1237-1270C. Conrad et M. Karanasos, "Dual Long Memory in Inflation Dynamics across Countries of the Euro Area and the Link between Inflation Uncertainty and Macroeconomic Performance", in Studies in Nonlinear Dynamics & Econometrics, vol. 9, n°4, nov. 2005 (publié par The Berkeley Electronic Press et consultable sur: http://www.bepress.com/snde )

17 - C. de Lucia, “Où en est la convergence des économies de la zone Euro?” in Conjoncture Paribas, n°3/2008, marzo, pp. 3-21.

18 - F. Cachia, “Les effets de l’appréciation de l’Euro sur l’économie française”, in Note de Synthèse de l’INSEE, INSEE, Paris, 20 giugno 2008.

19 - J. Sapir, « La Crise de l’Euro : erreurs et impasses de l’européisme » in Perspectives Républicaines, n°2, giugno 2006, pp. 69-84