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I «redattori viaggianti» sui fronti dell’avventura

di Ettore Mo - 05/11/2008

    
 
Grazie al libro Dai nostri inviati, di Lorenzo Cremonesi, Ettore Mo ripercorre gli anni pionieristici dei primi inviati speciali del nostro giornalismo: Luigi Barzini, Cesco Tomaselli, Vittorio Beonio Brocchieri e Dino Buzzati, che scrissero tutti fra il 1880 e il 1945 per il “Corriere della Sera”.
La figura dell’inviato fu impiegata fin dalla nascita del giornale perché il suo primo direttore credeva fermamente nella «necessità primordiale di andare a vedere le cose per raccontarle». Due le grandi insidie del mestiere: innanzitutto la fatica e i pericoli di viaggi che andavano dalla Cina della rivolta dei Boxer al Polo Nord della spedizione del generale Nobile; poi la censura che il Ministero dell’Informazione applicava inesorabile in molte circostanze, come lamentò Barzini per i suoi resoconti sulla guerra di Libia del 1911.


Nelle 370 pagine del suo Dai nostri inviati, Lorenzo Cremonesi trascina il lettore nel favoloso e spesso drammatico panorama di guerre, inchieste ed esplorazioni tracciato dalle firme più illustri del
“Corriere della Sera”, dagli anni seguenti il 1880 al 1945. E la curiosa dedica («ai giornalisti che non vogliono stare in ufficio») la dice lunga sullo spirito e la filosofia di un mestiere che, per essere svolto onestamente — allora come adesso — non può essere fatto a tavolino. Era la massima del fondatore del “Corriere”, Eugenio Torelli Viollier, che parlava della «necessità primordiale di andare a vedere le cose per raccontarle»: cui si adeguarono immediatamente i primi grandi inviati speciali che hanno subito grande spazio nel nostro quotidiano. Dario Papa parte per l’America, Ugo Ojetti viene spedito ad Oslo col «Duca degli Abruzzi», Barzini in auto da Pechino a Parigi, Mantegazza in Africa, Cesco Tomaselli al seguito di Nobile al Polo Nord, Vittorio Beonio Brocchieri nella Terra del Fuoco e Dino Buzzati — dal Deserto dei Tartari — sulle navi da guerra. [...] Sarà La Domenica del Corriere del 5 agosto 1900 ad informarli, con un disegno di Achille Beltrame, che il re Umberto I è stato assassinato a Monza.
Intanto, già da un paio d’anni, domina in prima pagina la firma di un giovanotto che viene dalla provincia e che per oltre un ventennio sarà l’uomo di punta del giornale, Luigi Barzini senior. Lo aveva assunto
Luigi Albertini, direttore del “Corriere” dal 1900 al 1925, che lo paga poco ma in compenso lo avvia a una carriera favolosa. Dopo un anno di apprendistato a Londra viene mandato in Cina a seguire la rivolta dei Boxer. È un vero inviato. Lo conferma in una lettera del settembre 1904: «Ho fatto cento e dodici chilometri a cavallo sotto una pioggia dirotta. Ho passato sedici ore in una barca cinese aperta e ho camminato per altri trentadue chilometri...».
Ma la vera bestia da affrontare non era la fatica fisica: era la censura. Durante la
guerra di Libia, nell’autunno del 1911, dove il «cretinetti» di Orvieto (così l’avevano battezzato all’inizio di carriera) venne affiancato da altri inviati di prestigio come Fraccaroli e Civinini, il ministero dell’Informazione aveva messo il bavaglio ai giornalisti: al punto da provocare la rabbia e lo sdegno di Barzini che un giorno accusò Roma di averlo «tagliato, castrato, amputato». «Tagli» che evidentemente non bastarono a svilirne la prosa, quel suo modo di raccontare i fatti bellici senza tuttavia rinunciare alla descrizione poetica del paesaggio e a un forte sentimento di dolore e di pietas per le vittime di quell’immane carneficina. Alla fine, sento di condividere in pieno il commento di Cremonesi quando scrive che «con Barzini il giornalismo diventa letteratura».
E quanti inviati d’oggi non avrebbero venduto la camicia e non so cos’altro per vivere l’avventura di Cesco Tomaselli, cui il “Corriere” aveva affidato il compito di seguire il generale Umberto Nobile nell’epica spedizione al Polo Nord sul dirigibile «Italia» (aprile/giugno 1928, anno VI dell’era fascista) battendo sul tempo il collega del Popolo d’Italia, che era il giornale del
Duce. E sarà lui il primo a raccontare il drammatico naufragio dell’«Italia», ma anche a dare la notizia che tra le vittime della Tenda Rossa, elevata ai confini ghiacciati del mondo, «non c’era il Comandante», che Umberto Nobile «era salvo». [...]
Nel club dei superman dell’informazione tra fine ‘800 e la prima metà del ‘900 non poteva mancare Vittorio Beonio Brocchieri, l’«inviato volante » come lo definisce Cremonesi, che girava il mondo pilotando il suo biplano in legno e tela. Rampollo di una famiglia benestante, era cresciuto nel mito del supereroe fascista vagheggiato da
Mussolini e d’Annunzio. Ulisse dei pionieri, inviato degli inviati, arrivò in Patagonia trent’anni prima di Chatwin. Alla carriera universitaria, cui sembrava inesorabilmente destinato, preferì quella del reporter giramondo, ambizione di cui diede conferma ai genitori increduli andando in bicicletta (una Bianchi nuova fiammante) da Milano ad Avignone. I suoi modelli erano i personaggi di Jules Verne. Aveva perciò accettato entusiasticamente il progetto del direttore del “Corriere”, Aldo Borelli, che gli proponeva di fare il giro-del-mondo. A una sola condizione: tralasciare i luoghi già «calpestati» da altri giornalisti. Gloria a parte, il compenso era sontuoso per un gagliardo giovanotto che «non era ammogliato» e si proclamava «resistentissimo alla fatica». Poteva già vantare di aver sfidato le insidie di Capo Horn e di aver fatto una passeggiata in slitta sulle nevi dell’Alaska ai tempi della febbre dell’oro; o di aver incontrato, a Mosca, il figlio di Tolstoj e il grande scrittore russo Maksim Gorkij. Con le 91.500 lire ricevute dal “Corriere” per una serie di reportage si comprò una villa ottocentesca a Daverio, in provincia di Varese, dove visse, scrisse e morì, nel ‘79, a 77 anni. [...]
Le ultime 60 pagine del libro, Lorenzo Cremonesi le dedica a quel mostro sacro del giornalismo che fu Dino Buzzati, assunto dal “Corriere” nel 1928, quando aveva appena 22 anni. Timido, introverso, svolge con solerzia il lavoro di redazione, che gli sta un po’ stretto: fino a quando, nel ‘39, il direttore Aldo Borelli lo spedisce in Etiopia, dove si troverà fianco a fianco con Lilli, Vergani, Massai, Montanelli, insomma l’élite degli inviati speciali d’allora. Ma è curioso che Buzzati, appassionato di montagna, ed esule per anni in via Solferino, faccia le sue esperienze giornalistiche a bordo delle navi da guerra italiane, incrociatori e sommergibili che si chiamano «Fiume» o «Gorizia», «Bragadin» o «Trieste». Articoli densi e precisi, scritti con competenza e sobrietà verbale. È già famoso, ma la consacrazione ufficiale avverrà nel ‘40 con l’uscita de Il deserto dei Tartari. Il tenente Drogo che aspetta per anni la grande occasione della sua vita nella Fortezza Bastiani è proprio lui, Dino Buzzati, che per un decennio ha lavorato in ufficio, sulle sudate carte, e respirato il piombo dei telai. Sulle navi, scrive nei diari, «la morte è sempre in agguato». È anche amareggiato perché al “Corriere” lamentano la scarsità della sua produzione. «Ma non abbiamo più vent’anni — si giustifica Dino, un distinto fragile signore che veste sempre di scuro — e apparteniamo alla generazione degli sbandati del 1943, la generazione che ha perso il treno».

Lorenzo Cremonesi, Dai nostri inviati, Milano 2008, pp. 370.