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Piero Sansonetti, il Quattro Novembre e i monaci del Santo Sepolcro

di Carlo Gambescia - 10/11/2008


Ieri Piero Sansonetti ha rispolverato sulle pagine di Liberazione, in occasione delle celebrazioni per il novantesimo anniversario della vittoria italiana nella "Grande Guerra", i soliti luoghi comuni dell’antimilitarismo e di certo pacifismo di sinistra (http://www.liberazione.it/), auspicando, of course , un millennio di pace e prosperità per tutti. Meno che per Berlusconi, La Russa e la destra mondiale: tutti nemici della pace… Scherziamo, ma fino a un certo punto. Sempre ieri, monaci cristiani di differenti tradizioni, se le sono date di santa ragione, a due passi dal Santo Sepolcro per questioni di precedenza fra processioni religiose. E non era la prima volta (http://www.lastampa.it/redazione/cmsSezioni/esteri/200811articoli/38045girata.asp).
Ora, qual è la morale da trarre dai due eventi? Da un trito editoriale pacifista e da una sacra processione finita prosaicamente a pugni? Che se si condanna militarismo si deve condannare anche il pacifismo. Che cosa intendiamo dire?
Se anche gli uomini di una Chiesa, che ha le sue scaturigini trascendenti nel “Sacrificio della Croce”, se le danno di santa ragione, non si capisce perché si dovrebbe confidare nella terrena volontà di pace, spesso a corrente alternata (secondo la tradizione politica, molto "terrena" cui si appartiene), evidenziata da chi tuttora - magari non Sansonetti la cui onestà intellettuale è fuori discussione - relega le vittime della collettivizzazione forzata, e non solo nell’ex Unione Sovietica, tra i "danni collaterali" di un gigantesco e creativo processo storico di liberazione. Guarda caso, anche dalle religioni trascendenti.
Purtroppo il conflitto - di vario genere e intensità - è nell’ordine naturale delle cose. E dunque la guerra è sempre una possibilità. Di qui l’importanza dell’antico detto di Vegezio: si vis pacem, para bellum (se vuoi la pace, prepara la guerra). Che non va mai ignorato. Soprattutto quando si viva in un'epoca, come insegnava il vecchio Dostoevskji, dove la presunta morte di Dio rende possibili molte (brutte) cose.
Attenzione però: il che non significa che al pacifismo si debba opporre il bellicismo. Su questo siamo d’accordo con Sansonetti. Accanto alla naturalità sociale del conflitto va collocata, fortunatamente, anche quella della cooperazione. Altrimenti, oggi, su questo pianeta non esisterebbe più un solo uomo. In realtà sono due forze, come ci ha insegnato il grande sociologo Julien Freund, che caratterizzano, e da sempre, la vita sociale dell’uomo. Spesso intersecandosi. Dal momento che, come mostra la storia, la cooperazione talvolta è in funzione del conflitto: spesso ci si unisce “contro qualcuno”. Quindi si deve sempre essere pronti alla guerra senza però, come si dice oggi, sponsorizzarla”, magari spingendo l’acceleratore sociale su una pericolosa e settaria cultura della guerra per le guerra. Certo, non è facile ma si dovrebbe cercare sempre di distinguere, per parafrasare Raymond Aron, tra una realistica cultura della pace e della guerra e le irrealistiche culture solo della pace o solo della guerra. E spieghiamo perché.
Purtroppo, in contrasto - con quel che sostiene la cultura pacifista - non basta amare il nemico. Perché è altrettanto necessario che il potenziale nemico sia disposto a farsi amare. In realtà, come risulta storicamente evidente, è spesso il nemico a considerare tali i suoi possibili avversari, a prescindere dalla benevolenza di questi ultimi. Finendo così per attaccare per primo.
Di qui un altro aspetto debole del pensiero pacifista. Quello di dare per scontato che bastino la forza dell’esempio e la disponibilità totale, da parte dei singoli, ad amare l’altro. Il che in linea teorica può anche avere un fondamento filosofico. Ma solo a una condizione: che tutti gli abitanti della Terra divengano pacifisti, con la precisione di un orologio svizzero, nello stesso identico momento storico. Cosa praticamente impossibile. E per una semplice ragione: l’irradiazione sociale dei valori pacifisti attraverso l’educazione richiederebbe tempi differenti perché correlati alle ineguali dotazioni individuali di intelligenza e alle differenti capacità di apprendimento sociale dei singoli. Nonché alle tradizioni culturali e all’estrazione sociale dei soggetti da educare: ci riferiamo, infatti, a un’ umanità, da millenni, divisa praticamente su e da tutto.
Del resto, anche la creazione di uno “Stato Mondiale Educatore alla Pace”, prima imporrebbe l’eliminazione con una guerra dei bellicisti "a scelta" (e perciò il ricorso alla violenza), e poi l'impiego (come avviene oggi in ogni singolo stato contro la criminalità) di una polizia "militare" mondiale (altro ricorso alla violenza - se può consolare - legalizzata) per conservare la pace. E di conseguenza i “renitenti” alla pace verrebbero considerati alla stregua dei nemici di quella “nobile” umanità rappresentata dallo Stato Mondiale Educatore”. Assai vicino invece - e concludiamo - al Grande Fratello uscito dalla penna di Orwell. E capacissimo - anche questa volta - di ricorrere a una specie di “collettivizzazione” forzata della pace. Con gli inevitabili “danni collaterali"...