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Fare ogni cosa bene e con amore per contribuire all'armonia del mondo

di Francesco Lamendola - 11/11/2008


 

La società odierna è dominata dalla fretta, per tutta una serie di ragioni che - si pensa - derivano essenzialmente dalle innovazioni tecnologiche e dai ritmi imposti dall'economia.
Ciò è solo parzialmente vero: la ragione più profonda non risiede né nella tecnica, né nell'economia - che ne sono, piuttosto, gli effetti -, bensì in una illusione tipica della modernità: che la quantità sia intrinsecamente superiore alla qualità. Perciò si ritiene che sia meglio riuscire a fare parecchie cose, piuttosto che poche: se bene o male, questo è secondario.
Filippo Tommaso Marinetti sapeva bene quel che diceva, allorché, nel «Manifesto del Futurismo» (1909), affermava, tra le altre cose:

«- La letteratura esaltò, fino ad oggi, l'immobilità pensosa, l'estasi e il sonno. Noi vogliamo esaltare il movimento aggressivo, l'insonnia febbrile, il passo di corsa, il salto mortale, lo schiaffo ed il pugno.
- Noi affermiamo che la magnificenza del mondo si è arricchita di una bellezza nuova: la bellezza della velocità. Un automobile da corsa col suo cofano adorno di grossi tubi simili a serpenti dall'alito esplosivo… un automobile ruggente, che sembra correre sulla mitraglia, è più bello della "Vittoria di Samotracia".
- Noi vogliamo inneggiare all'uomo che tiene il volante, la cui asta ideale attraversa la Terra, lanciata a corsa, essa pure, sul circuito della sua orbita…
-  Non v'è più bellezza, se non nella lotta…»

Se noi fossimo soltanto delle vittime della fretta; se la fretta fosse soltanto un elemento estraneo, che ci viene imposto con una certa dose di violenza e cui dobbiamo inchinarci per cause di forza maggiore: allora la nostra anima sarebbe salva.
Ma non è così: noi, ormai, amiamo la fretta (che, dice Dante, "ch'ogni uom dismaga"); non ne potremmo più fare a meno: essa è diventata la nostra droga.
Quando, parlando, ci lamentiamo di essere sempre di corsa; di avere appena il tempo, a pranzo, per mangiare un tramezzino, e via; o quando diciamo che vorremmo fare questo e quest'altro, prenderci delle pause di riflessione, leggere un libro, andare a trovare i genitori anziani o l'amico che sappiamo essere in difficoltà; ma che non possiamo, non possiamo proprio, perché non ne abbiamo il tempo: ebbene, mentiamo.
Siamo diventati dei grossi bugiardi; dei bugiardi che nascondono la propria viltà e il proprio  egoismo dietro il comodo paravento della fretta; dei bugiardi che, a forza di ripetere agli altri le proprie utili menzogne, hanno finito per crederci realmente.
La realtà è che la fretta ci piace, perché giustifica e rende accettabile, ai nostri stessi occhi, l'estrema superficialità con cui viviamo la nostra vita, i nostri pensieri e i nostri sentimenti. La fretta è divenuta il grande alibi, mediante il quale deresponsabilizzarci di tutto, assolverci di tutto, autorizzarci a tutto.
La velocità, l'esaltazione della velocità, non sono che la logica conseguenza di questa religione della fretta.
E, accanto alla fretta, un'altra divinità - ad essa strettamente correlata, anche se di tipo negativo - è stata elevata alla gloria degli altari della religione della modernità: il disincanto, il disamore per le cose fatte bene e con il massimo dell'impegno paziente, dello scrupolo, della creatività e della dedizione: per realizzare qualcosa di durevole, di non effimero.
In termini economici, è il passaggio dal lavoro artigianale alla catena di montaggio; in termini spirituali, è il passaggio dal regno della qualità a quello della quantità, dal regno dell'amore al regno dell'efficienza apparente.
Sì, apparente: perché l'orologio del nonno cammina ancora e non perde un secondo; l'orologio comprato l'anno scorso, ha già bisogno di una revisione. E così per tutto: per i mobili in legno massiccio, fatti per durare generazioni; per i libri di scuola, solidamente rilegati, per divenire compagni di una intera vita; per il pane del fornaio, che era buono - benché duro - anche due o tre giorni dopo l'acquisto; mentre il pane di oggi diviene, già alla sera, una specie di gomma da masticare, che non sa di niente.
La ragione di ciò non risiede solo nel fatto che sono cambiate le tecniche di lavorazione; ma nel fatto che è cambiata radicalmente la nostra filosofia verso la vita; e, di conseguenza, verso le cose, in cui si esprime il nostro rapporto con la vita stessa.
E, dal momento che siamo convinti che è meglio fare e avere tante cose, indipendentemente dalla loro qualità, piuttosto che poche, il risultato è che viviamo in un mondo di cose approssimative, di oggetti approssimativi, di azioni approssimative, di pensieri approssimativi e di sentimenti approssimativi.
Il risultato è che siamo divenuti esseri umani approssimativi, ossia esseri umani a mezzo servizio,  esseri umani a metà.

Prendiamo l'esempio del fornaio.
Il nonno si alzava ogni mattino alle quattro per impastare la farina: mentre la città dormiva ancora profondamente, il pane, caldo e croccante, era già tolto dal forno e deposto nei banconi di vendita. Era buono: ed era buono non solo perché fatto con acqua vera e con farina vera e con lievito vero, ma anche perché era fatto bene e con amore.
Oggi, quando ci manca il pane per la colazione e scendiamo dal fornaio per acquistare quello fresco, alle sette del mattino ci dicono che è ancora in forno. Bisogna aspettare, o rinunziarvi. Quando finalmente arriva (per chi può permettersi il lusso di attendere fino alle sette e un quarto) e lo mettiamo in tavola, ancora caldo… che delusione!… È un pane stopposo, insipido, che non sa di farina e non ha l'anima del grano. È un pane fatto in maniera approssimativa, da qualcuno che si è alzato malvolentieri e lo ha fatto malvolentieri, pensando unicamente al guadagno e non a creare un prodotto di qualità.
Oppure prendiamo il caso del postino
Il "vecchio" postino del paese, che conosce tutti gli abitanti del quartiere, quando deve recapitare una lettera che reca, sulla busta, un numero civico sbagliato - magari perché il comune ha, di recente, mutato la numerazione degli stabili - la mette ugualmente nella cassetta giusta. E, se deve recapitare un pacco che non entra nella cassetta, chiede al vicino di casa del destinatario di aprirgli il portone e posa il pacco all'interno, accanto all'uscio. Certo, è un lavoro in più; non vi sarebbe costretto: ma lo fa volentieri, per il piacere del lavoro ben fatto. Non si trincera dietro l'alibi del magro stipendio o, appunto, della fretta.
Potrebbe scrivere sulla busta con l'indirizzo sbagliato: «Destinatario sconosciuto», e rimandarla indietro; potrebbe lasciare un avviso con la dicitura: «Ritirare pacco ingombrante nell'orario d'ufficio». Potrebbe, insomma, lavarsene le mani, come fanno tanti, troppi suoi colleghi: e sarebbe ugualmente a posto con l'amministrazione da cui dipende. Nessuno lo potrebbe biasimare per aver agito così; anzi.
Ma c'è un amore, in lui, per le cose fatte bene; c'è un desiderio di veder compiuta la propria missione, indipendentemente da quel che possono dire o non dire gli altri. C'è, insomma, una esigenza interiore, che chiede imperiosamente di esser soddisfatta. Un qualcosa che non ha prezzo; che nasce unicamente dalla propria coscienza.

Fretta, approssimazione e disamore caratterizzano non soltanto il rapporto dell'uomo con il proprio lavoro, ma anche il rapporto dell'uomo coi suoi simili e perfino con se stesso.
Nei rapporti con i colleghi, con gli amici, con i propri familiari, le lancette dell'orologio scandiscono la qualità del tempo e imprimono alle relazioni umane quel caratteristico andamento disordinato e frettoloso, quella tipica superficialità, che sono il marchio della società moderna, e che la distinguono da ogni altra civiltà storica.
Nei rapporti con se stesso, poi, l'uomo moderno è giunto - forse - al punto più basso mai raggiunto d'ignoranza e trascuratezza; al punto da non porsi nemmeno il problema di ascoltarsi, d'interrogarsi, di esaminarsi: di fare i conti con se stesso, di porsi l'obiettivo del proprio perfezionamento. A malapena l'uomo moderno si ricorda di avere una coscienza; quanto alla propria anima, in genere dubita di averla, o lo nega recisamente.
E che vita interiore potrà mai avere un essere umano, il quale consideri se stesso alla stregua di un meccanismo a orologeria, fatto per durare un certo numero di anni e, poi, per essere gettato tra i rifiuti?
Da ciò deriva il fatto che non sappiamo più vedere, né ascoltare, né capire: perché chi non sa vedere le piccole cose d'ogni giorno, e non è in grado di accorgersi di quanto esse siano grandi e belle e luminose, di certo non saprà vedere le cose eccezionali, non le saprà apprezzare, non penserà di doverle ringraziare.
Prenderà tutto come dovuto, ogni dono, ogni cosa bella che incontrerà sul suo cammino (ammesso che li sappia riconoscere); e si lamenterà della sua sorte per ogni cosa che non riuscirà a far sua, per ogni cosa che si negherà alle sue brame e alla sua cupidigia.
Né quest'ultima osservazione si riferisce solamente ai ricchi: c'è un modo di essere avidi anche nella povertà: perché in primo luogo si è poveri (o ricchi) nello spirito; e solo in un secondo momento si è poveri (o ricchi) nel portafogli o nel conto in banca. E la prova di ciò sta nel fatto che esistono persone, relativamente povere, che non si sentono povere; ed esistono persone che sono ricche ma che, invece, si sentono, se non proprio povere, infelici, perché non possono avere tutto quello che desiderano.

Dunque, dobbiamo ripartire da qui: dobbiamo reimparare a fare le cose bene e con amore.
Bene: cioè con scrupolo, con precisione e, soprattutto, senza fretta.
Con amore: cioè mettendoci qualcosa della nostra inventiva, della nostra personalità, della nostra anima.
Il fatto è che non possiamo mettere un'anima nelle cose, se noi stessi siamo poveri di anima: se possediamo la nostra anima solo per metà.
Questa è la radice del problema: che abbiamo gradualmente abdicato, in cambio del possesso apparente delle cose (apparente, non reale!), alla nostra intima umanità; e che, ridotti a essere delle semi-persone, non riusciamo a produrre se non mezzi pensieri, mezzi sentimenti, mezze azioni e mezzi oggetti.
È ben per questo che cerchiamo di stordirci con le emozioni forti, magari con l'aiuto di alcool, droga e sesso facile: per avere l'illusione di sentirci nuovamente persone a pieno titolo. Ma è una scorciatoia che serve solo a mascherare il male, se pure non contribuisce ad aggravarlo.
No: per tornare ad essere persone intere, dobbiamo ricominciare a pensarci e vederci come tali. Dobbiamo riconquistare il senso della nostra totalità, il senso della nostra chiamata e, di conseguenza, il senso della nostra meta. Non si può vivere senza mete: questa è la grande menzogna del consumismo, che si possa vivere inseguendo unicamente l'effimero.
Quando noi avremo ricominciato a pensarci e vederci come delle totalità, allora e solo allora potremo ritrovare il piacere delle cose fatte bene e con amore: perché scopriremo in esse, realizzandole, il piacere di realizzare noi stessi, di dare un significato non effimero, ma permanente, alla nostra vicenda terrena.
E allora capiremo che non è importante fare tantissime cose, ma farle bene e con amore: come l'esemplare "senex Corycius" delle «Georgiche» (cfr. il nostro precedente articolo: «Nell'apologo virgiliano del vecchio di Corico c'è più della nostalgia per la vita semplice», consultabile sul sito di Arianna Editrice).

Noi non dovremo mai rendere conto di non aver fatto abbastanza cose nella nostra vita; ma di non averle fatte abbastanza bene.
Anche di quelle apparentemente più semplici: come cucinare un buon pane per i nostri simili, o  consegnare la posta con scrupolo e simpatia umana, o raccontare una bella fiaba ai nostri bambini, la sera, prima del bacio della buonanotte.