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Si sta come d'autunno sugli alberi le foglie

di Eduardo Zarelli - 11/11/2008

 

L’autunno delle contestazioni studentesche ha molti commentatori. Non basta insegnare in un liceo per dire cose non banali, ma perlomeno garantisce una testimonianza credibile; infatti, ci si sente schizofrenici nel vedere tanta tensione sui media rispetto all’ordinaria vita scolastica di un istituto centrale in una importante città italiana. Plesso occupato e centro di agitazione per qualche giorno, partecipe per la maggior parte dei suoi studenti e insegnanti al recente sciopero generale, ma in tutto ciò privo di qualsiasi nota difforme dalla ciclicità stagionale degli eventi descritti. Sarà la capacità delle strutture sindacali di governare le istanze sociali nel mondo del lavoro; sarà il consenso di molti docenti con le rivendicazioni in corso, ma un primo dato rappresentativo - per uscire dalla stucchevole retorica degli eterni cantori della propria giovinezza, vale a dire del ‘68 o del ‘77 - è che voler trasgredire con l’approvazione sociale, anzi con la sicurezza individuale garantita, è una contraddizione in termini dell’opulento occidente. La mentalità contemporanea che fa della trasgressione un “diritto”, ne uccide sul nascere la possibilità di rimettere realmente in discussione ciò che contesta. Per dei giovani poi, che modellano il loro carattere in questa fase nitida dell’esistenza, la trasgressione è solo per chi sa assumersene le conseguenze, anche estreme e non sembra proprio che ci sia nell’aria nulla di realmente radicale, esistenziale, in gioco.
In piazza c’è sicuramente la legittima ansia delle giovani generazioni in un paese gerontocratico e clientelare, amplificata dalla constatabile crisi socio-economica; c’è il tentativo politico di utilizzare pro domo sua la questione reale dell’inadeguatezza della trasmissione culturale e della conoscenza nel nostro paese; c’è il naturale protagonismo dei vent’anni, ma manca la consapevolezza di voler cambiare alla radice le cose, di uscire dal recinto dell’individualismo risentito e giocare la partecipazione come modello altro di vita e di società.
L’istruzione è il midollo osseo di una società - anche se spesso le migliori menti e pensatori si sono formate a prescindere da scuola e università – e rappresenta quel momento di formazione imprescindibile nel definire la cultura individuale e collettiva. Limitarsi quindi a dibattere sulla formazione del sapere in termini di tagli nella finanziaria limita la questione alla funzionalità del sistema. La sinistra, in tal senso, confonde demagogicamente lo stato sociale con la clientela assistenziale; la destra, confonde lo stato liberale con la razionalizzazione aziendale. In entrambi i casi non si è in grado di assicurare parità democratica d’accesso al sapere e merito nella sua resa pubblica. Manca cioè l’orizzonte del bene comune per cui spendere un ideale disinteressato capace di aggregare le giovani generazioni in uno scarto epocale che rimetta in discussione il paradigma del sapere. 
L’istruzione non è un corpo avulso dalla società edonistica e individualistica in cui vive il disorientato uomo contemporaneo. Non si cambia né rendendola un servizio di assistenza sociale permissivo, né inseguendo la competizione economica, in entrambi i casi trainate dal suicida determinismo della globalizzazione. Bisogna, in contro tendenza, avere la forza di emanciparsi dal mercenario spirito dei tempi e riformulare un primato del pensiero disinteressato rispetto al pragmatismo utilitaristico della società industriale. Karl Polanyi ben descrisse - di contro agli economisti classici liberali e marxisti - che oltre allo scambio e alla redistribuzione, c’è la reciprocità comunitaria. Questa è individuabile nei soggetti socio-culturali dove la dimensione dello scambio è colto sul piano del dono, antropologicamente pre-economico. La Res Publica è politicamente legittimata dall’affermazione della giustizia come diritto individuale e dovere personale per la comunità che esprime il “bene comune”. La democrazia procedurale della “destra” e della “sinistra” tradisce questo fondamento politico, dimostrandosi nei fatti una coazione oligarchica al potere. Il primato culturale – di contro - ricostruisce la comunità in cui è possibile l’economia, non l’innaturale contrario dell’aristotelica crematistica. La parola “economia” è formata dai termini oikos e nomos; “ecologia”, da oikos e logos; oikos significa “casa”, nomos “criterio di condotta” e logos “pensiero conseguente”. Ora, se la prospettiva è di mutare il paradigma dominante, ecologicamente suicida (perché espressione del divorzio tra uomo e natura), culturalmente sterile (perché alimentato dal disincanto nichilistico), economicamente utopistico (perché fondato sull’irrealistica crescita illimitata) e socialmente anomico (perché animato da un individualismo opportunistico, che corrode moralmente il contesto sociale su cui dovrebbe poggiarsi), è coerente solo un cambiamento radicale della scuola e dell’università, non difenderle per quello che sono. È illegittimo un governo che taglia tutto, finanziando però le banche che la crisi l’hanno veicolata e mantenendo la più impresentabile classe politica occidentale e il suo indotto clientelare, ma una contestazione di sostanza non può limitarsi al contrasto tra le parti in commedia nell’amministrare l’esistente.
La leva del cambiamento è la parte per il tutto, ma nel contesto dell’educazione ha un suo primato esemplare. Il degrado dell’istruzione intacca ancor prima del ruolo sociale, la dignità del docente e l’irripetibilità del discente. Il compromesso impiegatizio, lo squallore familistico del baronato accademico, l’ignoranza studentesca che si propaga e raggiunge i vertici professionali in ogni dove… Nessuno è più disponibile a giocarsi coerentemente la vocazione di una scelta di vita, a trasmettere la cultura come evento irripetibile nella formazione spirituale dell’essere, del sentirsi partecipe di un tutto comunitario.
La domanda da porsi è banale, elementare: chi è il bravo insegnante, quello che cova la sua frustrazione nei mille rivoli del compromesso sociale o quello che fa una lezione meravigliosa sull’origine dell’universo? Il paradosso è che l’insegnante che si limita a fare lezioni straordinarie, di quelle da incantare anche i sassi, è bravo perché non è “misurabile”. Ma per i funzionari del grigiore questo è intollerabile: una lezione “invisibile”, non è valutabile, scende nell’anima, s’inabissa chissà dove e magari agisce dopo vent’anni e crea uno sconquasso. Chi la misurerà mai? Peccato che sia l’unica “prestazione” che distingue un “maestro” da un intrattenitore sociale. Ma le “riforme” succedutesi senza posa inseguono le imprese, le banche, che devono intervenire per dare uno “scopo” a Dante e Platone: e se invece - a costo zero - ci venissero in soccorso i movimenti studenteschi e le famiglie, cambiando modo di vivere e ricominciando a educare i figli (meno weekend per esempio, meno consumi?).Ma può esistere oggi un’idea alternativa di scuola, se non esiste un’idea forte del mondo, della società, della vita e della morte?
Il gioco, ragazzi, è a somma zero: dentro o fuori del muro della mercificazione, dentro e fuori di voi. Ribelli solo se per cambiare veramente la società in cui domani sarete voi ad insegnare.