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Daniel F. Galouye: se la vita è un sogno

di Gianfranco de Turris - 11/11/2008

“La vita è un sogno”, proclamava nel Seicento Pedro Calderon de la Barca. Due secoli dopo si chiedeva Edgar Allan Poe: “Non è tutto quel che vediamo o sembriamo / un sogno in un sogno soltanto?” Erano d’accordo con loro H.P. Lovecraft, Lord Dunsany, Gustav Meyrink, H.H. Ewers e, finalmente, Jorge Luis Borges.

Ma chi sogna, e che cosa? Il problema della realtà, del valore e della consistenza da darle, e da qui il problema della creazione e dell’io, sono sempre stati al centro di speculazioni religiose e filosofiche, diversamente affrontate e risolte in oriente e in occidente. Non sembri curioso né presuntuoso che esse lo siano state anche da una letteratura popolare come la fantascienza, spesso da molti considerata incolta, giungendo a soluzioni sue proprio grazie a moduli, schemi, trovate e idee del tutto specifiche: il rapporto fra l’essere umano come individualità e il mondo che lo circonda è talmente fondamentale che non poteva essere ignorato da una narrativa che è nella sua essenza una speculazione sull’uomo e la società proiettati in mondi alternativi. Singolare, piuttosto, che queste problematiche non siano nate negli anni Sessanta, periodo in cui unanimemente si riconosce il sorgere di una maggiore autocoscienza e maturità del genere, per esempio con Philip K. Dick, che ha fatto del rapporto io/realtà e vero/falso il centro di tutte le sue opere maggiori, ma assai prima, addirittura negli anni Quaranta e Cinquanta, l’epoca del pulp e del boom delle riviste specializzate: si pensi a Un uomo bene informato (Don’t Look Now, 1948) di Henry Kuttner, Vieni e impazzisci (Come and Go Mad, 1949) di Fredric Brown, Siamo tutti soli (You’re All Alone, 1950) di Fritz Leiber, solo per citare alcune storie famose, diverse fra loro ma accomunate dalla scoperta che la Realtà non è quella che è, o che appare essere.

A esse si può aggiungere l’opera che qui si presenta e che sembra quasi assommare tutte le maggiori tematiche di questo tipo giungendo a risultati speculativi e logici difficilmente raggiungibili. Ed è un testo di oltre cinquanta anni fa! Dovuto per di più a un autore che ingiustamente viene definito “minore”, solo perché la fama dei “grandi” della fantascienza ne ha oscurato la non vasta produzione dopo la sua prematura scomparsa.

Daniel Galouye

Daniel Galouye

Stanotte il cielo cadrà apparve sotto forma di romanzo, in Italia, nel 1966. In realtà deriva dall’unione di due novelettes: quella che dà il titolo al libro, Tonight the Sky Will Fall, pubblicata su “Imagination” del maggio 1952, e il suo seguito The Day the Sun Died, apparsa sempre su Imagination tre anni e mezzo dopo, nell’ottobre 1955. Autore era un giornalista trentenne di New Orleans, Daniel Francis Galouye (1920-1976), morto ancora giovane per i postumi delle ferite riportate nella Seconda guerra mondiale durante la quale era stato pilota della Marina e che lo costrinsero in pratica a smettere di scrivere dopo il 1965. Ma in quindici anni circa di attività fantascientifica Galouye ci ha lasciato alcuni romanzi notevolissimi e una serie di storie sorprendenti che meriterebbero di essere oggi riscoperte. Aveva esordito proprio nel 1952 sempre su “Imagination”, una testata prima bimestrale poi mensile, lanciata nell’ottobre 1950 da Ray Palmer e poi rilevata da William Hamling, che la diresse sino alla chiusura nell’ottobre 1958. Fu una delle tantissime che apparvero nel periodo di maggior boom delle riviste di fantascienza americane, specializzandosi nella science fantasy e nei romanzi brevi e puntando su autori come Galouye appunto, Kris Neville, Milton Lesser e Edmond Hamilton.

Il rapporto io/realtà è il tema essenziale di quasi tutte le sue opere: come percepire, influenzare, modificare la realtà tramite l’io, cioè le nostre facoltà psichiche; come influenzare, modificare e condizionare l’io tramite una realtà che è possibile manipolare a piacere; come percepire la realtà, e quello che eventualmente sta dietro di essa, con i sensi ora mutilati, ora, al contrario, acuiti. Da questo punto di vista Daniel Galouye è uno degli scrittori di fantascienza che in modo più originale hanno speculato sull’argomento insieme a Philip Dick, in parte anticipandolo e (forse) influenzandolo: da Universo senza luce (Dark Universe, 1961), descrizione di una umanità cieca rifugiatasi nel sottosuolo dopo l’olocausto nucleare, a Psychon (Lords of the Psychon, 1963), dove la possibilità di manipolare l’energia psichica permette di influenzare la realtà, sino a Simulacron 3 (Simulacron 3 o Counterfeit World, 1964), storia di una mini-società costruita in studio per effettuare vere e proprie ricerche di mercato, un po’ come il famoso racconto “Il tunnel sotto il mondo” (The Tunnel Under the World, 1954) di Frederick Pohl. Simulacron 3 ha avuto anche una trasposizione televisiva da parte del noto regista tedesco Rainer Werner Fassbinder (Welt am Dracht, 1973). Inediti restano altri suoi due romanzi: The Lost Perception (1966) e The Infinite Man (1973); poco conosciuti i suoi racconti, anche se estremamente originali, a parte la raccolta Partenza domenica tradotta proprio su “Urania”. Dopo la morte – si è già rilevato – è stato sopravanzato dalla produzione d’innumerevoli altri scrittori, un po’ come è anche accaduto per un nome egualmente meritevole di riscoperta, H. Beam Piper, suicidatosi nel 1964.

Daniel F. Galouye, Stanotte il cielo cadrà

Daniel F. Galouye, Stanotte il cielo cadrà

In Stanotte il cielo cadrà sembrano confluire in modo singolare diverse tematiche che, come si è accennato inizialmente, hanno arrovellato filosofie e religioni delle due parti del mondo: e, si deve ritenere, recepite inconsciamente da un giovane giornalista americano all’inizio degli anni Cinquanta su una rivista popolare. Il che dovrebbe far meditare sulle capacità della fantasia di uno scrittore di pescare nelle immagini (e nei dubbi e nei timori) dell’inconscio collettivo, nel serbatoio interiore dell’umanità.

La realtà è o non è? E se è, che cosa effettivamente è? Si tratta della creazione dell’io soggettivo come afferma l’idealismo magico occidentale, oppure è la creazione onirica di una divinità, come ritengono gli aborigeni australiani? La realtà è concreta e immutabile come ritengono i filosofi materialisti occidentali, oppure i nostri sensi percepiscono solo l’esteriore “velo di Maya”, come afferma la filosofia indiana del Vedanta? La realtà è fatta di materia o di spirito: e noi che viviamo in essa, di quale livello ci possiamo rendere conto? Con una opportuna preparazione potremmo capire effettivamente qual è la vera realtà, diventare insomma dei “risvegliati”, cioè uscire dal “sonno dei sensi” che ci impedisce di percepirne l’intima essenza? E quale valore dobbiamo conferire ai dati della scienza, cioè di un riscontro oggettivo della realtà stessa? Potrebbero essere le “leggi della Natura” sbagliate, variabili, effimere? Potrebbe per esempio il cielo caderci sulla testa, il concavo unirsi al convesso, come ritenevano i celti? Potrebbe il venir meno di certi assiomi generali, accettati da sempre dall’umanità, incidere sulla struttura stessa del reale?

Non è eccessivo affermare che tutte queste vertiginose domande (e relative risposte) sono affrontate in maniera avvincente – anche se stilisticamente non superlativa, comunque piacevole e accettabile – in due novelettes di fantascienza sepolte tra le ingiallite pagine di una delle tante riviste americane di dieci lustri fa, in cui sono stati sapientemente mescolati interrogativi esistenziali e scientifici, riflessioni mistiche e prospettive apocalittiche.

Se ci si pensa bene, Daniel F. Galouye ha scritto un’opera sostanzialmente statica: avvengono molte cose, ma non si tratta di un libro di azione quanto di riflessione; vi sono molti colpi di scena, quasi a ripetizione soprattutto nella seconda parte, ma si tratta di colpi di scena per così dire speculativi, che ribaltano il punto di vista con cui si deve osservare il romanzo, non di colpi di scena fattuali.

Inizialmente Stanotte il cielo cadrà si presenta come un romanzo basato sulla “teoria del complotto”: chi si preoccupa di Tarl Brent e perché? Non saranno per caso gli Uomini Neri che vogliono impedire chissà cosa, o indirizzare la storia in una certa direzione? E non farà capolino la tesi di Charles Fort secondo cui “noi siamo proprietà altrui”? Chi è Brent, che cosa si nasconde nel suo subconscio? La risposta sta a meta strada: sì, c’è un complotto nei confronti di Brent; sì, c’è un gruppo di persone che vorrebbe evitare certe conseguenze ma che, proprio così facendo, sembra metterle in moto; sì, “noi siamo proprietà”, o meglio siamo un che d’altro prodotto da una certa “cosa”, da un certo “essere”, da un certo “Intelletto universale” di cui un gruppo di scienziati ha subodorato l’esistenza.

In fondo, Galouye ha riscritto la Genesi secondo un punto di vista tra il fantastico e il mistico: come Jahvé si compiace di creare la realtà e l’uomo a sua immagine e somiglianza, così il suo “essere” annoiato dalla propria solitudine si autogratifica creando un “embrione di universo”, un “universo in scala minore” (il paradiso terrestre), quindi “esausto” cade in una fase di “inattività”, in un “letargo” (il riposo del settimo giorno) nel corso del quale i suoi “impulsi inconsci” allargano, ampliano la realtà facendola diventare un cosmo, un universo autonomo. Di certo Galouye non conosceva la cosmologia degli aborigeni australiani, chissà se aveva mai letto Dunsany, ma sta di fatto che egli postula l’ipotesi che noi siamo il prodotto di un sogno, che tutto è il prodotto di un sogno, o quantomeno di una complessa elaborazione psichica non conscia.

E cosa accadrebbe se l’“essere” o “Intelletto universale” si svegliasse all’improvviso, accorgendosi che il suo sogno si è oggettivato? Cosa potrebbe accadere se qualcuno tentasse di dirigere la sua attività creativa onirica? Che avverrebbe, a livello del nostro io, della nostra innata certezza di essere “reali” se ci rendessimo conto sul serio che “l’universo non è composto di materia consistente, ma è solo l’intelaiatura di pensieri”, che si tratta di un “universo immaginario”? E, per di più, se ci accorgessimo che esso è “adimensionale”, “puntiforme”, vale a dire che “spazio, dimensione, movimento, esistenza sono solo una illusione”, e che addirittura il tempo, poiché anch’esso è “una espressione di distanza”, è altrettanto illusorio?

Domande incalzanti, ipotesi inquietanti che Daniel Galouye mette di fronte ai suoi personaggi e ai suoi lettori con somma incoscienza si potrebbe dire, ma che risolve con una dialettica e una logica ineguagliate, riuscendo nello stesso tempo – come dovrebbe essere per tutta la migliore fantascienza – a far divertire e appassionare da un lato, pensare a inquietare dall’altro.

La realtà è la vera realtà, e noi siamo sul serio degli esseri autonomi? Sogniamo o siamo sognati? E la farfalla che sogna di essere un uomo, o è un uomo che sogna di essere farfalla, come nell’apologo cinese riportato da Borges nella sua antologia della letteratura fantastica? E, quindi, “non è tutto quel che vediamo o sembriamo / un sogno in un sogno soltanto”?

Un dubbio abissale che lo scrittore americano svela pian piano in uno scenario di quotidianità sempre più incerto, e insicuro. Nel suo romanzo non vacillano sicurezze economiche, politiche, morali, familiari, ma la certezza suprema, quella della realtà. Quando cominciano a essere messe in dubbio “leggi” che diamo per scontate, come sono il teorema di Pitagora o la scala musicale, o quando si apprende che la velocità della luce non è quella che avevano sempre saputo, allora veramente qualcosa di essenziale non va. Quando poi il sole perde luminosità, le stelle vagabondano nel cielo, i pianeti scompaiono a uno a uno, i motivi che hanno scardinato la sicurezza dell’ordine naturale delle cose devono essere effettivamente profondi, tanto profondi da toccare le radici della realtà stessa. Che, a quanto pare, affondano nel subconscio del signor Tarl Brent…