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La speranza si leva gioiosa come un vento fresco quando il buio dell'anima sembra farsi più fitto

di Francesco Lamendola - 18/11/2008


Cara Sabina,
chissà perché mi torna alla mente quella sera a Rio de Janeiro, ormai così lontana nel tempo che la credevo confinata in un altro luogo della memoria, in un cassetto  lontano e quasi inaccessibile; di quelli che si lasciano ricoprire lentamente dalla polvere, senza mai andarli ad aprire, come se non  appartenessero più a noi, ma a qualcun altro.
O forse, c'è una ragione.
Questi tramonti di fine autunno, che già preludono all'inverno, hanno - alle nostre latitudini - quei colori vividi e struggenti, quei forti e poetici contrasti  di arancio, di indaco e di viola, che rammentano un poco i tramonti dei Tropici, allorché le ombre scendono improvvise e quasi a tradimento, inghiottendo in pochi istanti l'interminabile luce dei giorni abbaglianti e sempre uguali e nascondendo il volto delle cose nelle ombre inquietanti della notte.
Sì, inquietanti.
Tutto il Brasile è un immenso, misterioso, inquietante Paese: vasto come un continente e percorso da fremiti antichi e quasi animaleschi, così come da raggi inaspettati di luce smagliante, da promesse, da potenzialità inespresse… E, su ogni cosa - sulla musica, sui tramonti, sulle facce,  sulle strade sporche, sulle danze indiavolate, sulle architetture dai colori sgargianti - su tutto, una profonda, inestinguibile malinconia.
Non è un Paese allegro e solare, come potrebbe crederlo il turista frettoloso; no davvero.
Il turista che, di Rio, ha visto solo la spiaggia di Copacabana, i grattacieli all'americana e, tutt'al più, è salito fino alla base del Redentore, che spalanca le sue immense braccia di pietra bianca in cima al Corcovado, come ad abbracciare tutta la splendida, azzurra immensità della Baia di Guanabara, il Pan di Zucchero e le cento e cento isole - ebbene, quel turista non sa proprio nulla.
L'anima brasiliana - questo incredibile amalgama di sensualità africana, fatalismo lusitano e indecifrabilità india - è malata di malinconia: malata da morirne.
Quella sera ho scoperto i luoghi più strani e impensati della metropoli carioca, nella scia di una persona che vi abitava da anni e che desiderava farci vedere, con i nostri occhi, una delle suggestive  e un po' tenebrose cerimonie Umbanda.
Mano a mano che il traffico del centro scompariva dietro di noi, e l'autobus sovraccarico si addentrava negli immensi, interminabili quartieri periferici, pareva di passare in un altro regno, in un altro mondo; e intanto scendevano rapide le ombre della notte, ad accrescere la sensazione di spaesamento che s'insinuava, poco a poco, a fior di pelle.
Le case si facevano sempre più basse, sempre più vecchie, sempre più squallide, di un misero stile coloniale che nulla aveva a che fare con le facciate eleganti e risplendenti di magnifici colori della Bahia di Jorge Amado. I muri screpolati, i miseri cortili, gli stenti alberelli che si affacciavano da dietro di essi, i sudici portoni, gli angoli desolati: tutto parlava un linguaggio di povertà non solo materiale, ma anche spirituale, come se Dio avesse abbandonato quei sobborghi e se ne fosse andato altrove, portando via con sé tutta la luce, la gioia e la bellezza del mondo.
Anche la folla per le strade si andava diradando, si faceva sempre più misera e vagamente inquietante. Donne dall'età indefinibile, negri dagli occhi bianchissimi che brillavano nel buio, tutta un'umanità che pareva emergere da un altrove senza storia e senza tempo, carica di dolori e solitudine, per nulla affatto allegra e spensierata, come quella che s'immaginano i turisti attratti dagli echi del famoso Carnevale e dai ritmi frenetici delle scuole di samba…
Ma non si vedevano fabbriche, né negozi, tranne poche botteghe polverose: di che viveva, dunque, tutta quella umanità senza storia e senza tempo? Non erano ancora le favelas - quelle, sono tutta un'altra cosa, un mondo a parte  - ma, certo, erano già i quartieri della povertà, del degrado, dell'alcolismo e della prostituzione.
Dov'erano, adesso, le splendide ragazze di Copacabana, con i loro bikini mozzafiato e i loro corpi simili a sculture d'ebano, perfetti nella loro lucida levigatezza?
Dov'erano i grattacieli, le banche, i ristoranti, gli uffici di viaggi; dov'erano le vetrine colorate, i parchi pubblici dal verde rigoglioso, i venditori ambulanti di mille oggetti strani, le folle all'imbocco della metropolitana?
Dov'erano quella leggerezza, quella vaporosa spensieratezza, quella atmosfera di dolcissima indolenza, che sembrano pervadere ogni cosa sotto il sole di Rio, come una sorta di malìa distesa sulla città da una fata languidamente voluttuosa?
Pareva di aver lasciato indietro ogni cosa bella e desiderabile, ogni profumo e ogni dolcezza, per imboccare una strada senza speranza, dominata dalla desolazione e dall'abbandono, dove ogni cosa si faceva informe, triste, opprimente.
Forse la stanchezza accumulata in tanti giorni di continui spostamenti, di interminabili camminate, di pasti fuori orario, cominciava a farsi sentire; forse quella pioggerella triste e tiepida, che cadeva monotona sulla polvere delle strade, sui grigi marciapiedi, sui balconi appassiti, sui tetti sconnessi, aggiungeva una nota di mestizia e quasi di lutto su quella periferia tropicale che scivolava inesorabilmente nella buia umidità di una sera di sconforto.
Le inferriate alle finestre, dalle volute poveramente pretenziose in ferro battuto, quelle misere tende sbiadite, quegli alberi striminziti tra le facciate: ogni cosa pareva imbevuta di rassegnazione, di tristezza, di un pianto appena trattenuto, antico come il mondo.
E intanto l'autobus andava e andava, sempre più carico di una umanità dolente, silenziosa, con lo sguardo perso nel vuoto.
Sul sedile più vicino, due ragazze che parevano estranee a quella folla triste, chiuse in un loro mondo intangibile: l'una che, rotta dalla stanchezza, dormiva con la testa posata sulla spalla dell'amica; e questa che ne vegliava il riposo con la fierezza di una leonessa, come a tener lontano ogni altro animale da preda e a rimarcare il suo possesso di quel viso, di quel calore, di quel corpo giovane, premuto contro il suo, nella complicità inconsapevole di quel sonno abbandonato, nei due fiati che quasi si fondevano in uno solo.
L'una dormiente, l'altra vigile e agguerrita, con una sfumatura di sfida nello sguardo; la sfida istintiva di chi ama, di chi ormai ha raggiunto la meta dei propri desideri e per nulla al mondo se la lascerebbe portar via da anima viva.
E poi, scesi finalmente in un sobborgo che pareva già quasi campagna - ma una campagna sempre triste e desolata, come lo erano state le vie della periferia urbana -, iniziammo la ricerca a piedi, sempre sotto la pioggerella.
Vagammo da una casa all'altra, da un portone all'altro, a tentoni, quasi come ubriachi nella nebbia, sempre inseguendo il miraggio dei misteriosi riti Umbanda; sempre per vedere qualche vecchierella scuotere il capo e stringersi nelle spalle, con finto dispiacere: ma perché non avevamo domandato prima, purtroppo era ormai tardi, non si poteva interrompere un rito già iniziato. Un'altra volta, forse… Sì, certo, un'altra volta…
E avanti, avanti, sempre più stanchi, sempre più bagnati, sempre più demoralizzati: da un edificio all'altro, da un cortile all'altro, da una scala all'altra, come in un buio girone dantesco, popolato di presenze impalpabili, ma non amiche.
Ma tutto pareva essersi coalizzato contro le nostre speranze: le persone cercate non c'erano, i passanti interrogati non sapevano o, forse, più probabilmente, fingevano di non sapere; il nostro aspetto doveva destare più di qualche sospetto - eravamo stranieri, dopotutto: ma stranieri che, pur in quel Paese dalle cento razze, destavano subito diffidenza, con quell'aria da Europei giunti freschi freschi in quell'America che non è America, in quell'Africa che non è Africa,  in quell'emisfero australe ove brillano le quattro stelle della Croce del Sud - non viste mai, dice Dante, fuor ch'alla prima gente: ma lui come faceva a conoscerle?
Finalmente giungemmo ad un bar che apriva le sue vetrate sulla notte, al limite estremo della città addormentata: in faccia, solo il vento umido del sertâo, le grandi ombre nere della notte e le colline che si perdevano all'orizzonte, nella distanza infinita.
Ecco, ricordo - chissà perché - quel preciso momento in cui, esasperato dalla stanchezza e da quella inutile, affannosa ricerca, invaso da un senso di sconforto molto simile alla disfatta, circondato da quella strana umanità crepuscolare, che ambiguamente andava e veniva da chissà dove a chissà dove, qualcosa accadde…
Niente di visibile, di tangibile, di esteriore: la pioggia continuava uguale, e così la linea nera delle colline, le pochi luci del marciapiede, quella desolazione tropicale antica come il mondo, senza passato e senza futuro: tutto era uguale a prima.
Ma dentro, nell'anima, si era levato il vento.
Un vento fresco, gioioso, vivificante; un vento di bellezza e di speranza: un vento amico, che si levava da remote lontananze, odoroso di cose buone, di fiducia nelle cose, negli uomini, nel mondo… Un vento di salvezza.
Ricordo come la stanchezza si sciolse, la tristezza si ritirò, lo scoraggiamento si dissolse davanti al suo soffio benevolo, puro, generoso, restituendo ad ogni cosa un volto amichevole, un volto fraterno, quasi emergendo da una meravigliosa piega del passato - dell'infanzia, forse, di quando il mondo ci appare ancora amico ed infinitamente affascinante, chiaro nella sua luminosità aurorale, come fosse appena uscito dalla mano di Dio.…
Niente: in apparenza, nulla era ambiato; tutto era come prima.
Ma dentro, dentro… Era cambiato tutto, splendeva tutto, sorrideva tutto; e pensieri e sentimenti buoni ritornavano in frotta, come uno stormo di colombi che uno spavento improvviso avesse fatto allontanare e che ora, passato l'allarme, obbedissero a un richiamo misterioso…
Ecco, è tutto qui.
Come ho detto, non so bene perché questo ricordo mi sia tornato in mente, né per qual motivo abbia voluto raccontartelo.
Perché ci deve essere sempre un motivo? O meglio: perché vogliamo sempre imporre un motivo alle cose, invece di ascoltarle in silenzio e di lasciare che ci parlino e c'interroghino, esse che hanno fatto tanta strada per venire fino a noi?
Perciò, la domanda che potrei fare a me stesso è, semmai: che cosa ha voluto dirmi quel ricordo, venendo fino a me, dopo un così lungo volgere di anni?
Forse, Sabina, ha solo voluto rammentarmi che noi non siamo mai abbandonati a noi stessi, alla nostra angoscia e alla nostra solitudine.
Anche nei momenti più difficili - e quello non era certo tale: era, piuttosto, una specie di avvertimento, di allusione a tante cose tristi, che sarebbero venute dopo - dobbiamo avere sempre la consapevolezza che il buon vento amico della speranza può levarsi in nostro aiuto e disperdere i fantasmi oscuri che si annidano nelle tenebre dell'anima.
Nessun male esterno può colpirci veramente, se noi non permettiamo alle tenebre, che già sono in noi, di udirne il richiamo e di rispondergli. Nessuna ferita può abbatterci, se siamo ben decisi a camminare nelle luci della nostra anima, a coltivare e rafforzare la nostra parte bella e luminosa, come un amico dal quale non intendiamo separarci.
Non è poi così difficile come può sembrare.
Alcuni lo chiamano preghiera, altri meditazione; altri ancora, ascolto delle voci amiche e abbandono al vento benevolo della speranza, che soffia da dentro di noi, per restituirci forza e buona volontà, quando ne abbiamo bisogno.
E poi, essere disponibili a farsi docili strumenti della chiamata, simili a della creta che si lascia modellare da quella forza buona, che alcuni chiamano Grazia.
E nient'altro.