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Il mistero della bellezza

di Francesco Lamendola - 18/11/2008

Nel 1927, entrato nella diplomazia, il giovane e ancora poco conosciuto poeta cileno Pablo Neruda (ma il suo vero nome era Neftalí Ricardo Reyes, ed era nato a Parral nel 1904)  viaggiò fra Rangoon, Colombo, Batavia e Singapore, in qualità di console del suo Paese, trattenendosi in Oriente per alcuni anni.
Fu proprio a Colombo, nell'isola di Ceylon (che allora, come tutto il subcontinente indiano, Birmania compresa, faceva parte dell'Impero britannico) che gli capitò di fare - come egli stesso ha poi narrato nelle proprie memorie - uno stranissimo incontro con un duplice mistero: quello della suprema bellezza femminile e quello della suprema discriminazione delle caste.
Scrive, dunque, Neruda nella sua autobiografia «Confesso che ho vissuto» (titolo originale: «Confieso que he vivido. Memorias»; traduzione di Giulio Stocchi e Savino d'Amico, Milano, Sugarco Edizioni, 1974, pp. 125-26):

«Il mio solitario ed isolato bungalow era quanto di più lontano si possa immaginare dalle comodità e dagli agi della civiltà. Quando lo presi in affitto cercai di sapere dove fosse il gabinetto che non si vedeva da nessuna parte. E infatti era molto lontano dalla stanza da bagno; verso il retro della casa.
Lo esaminai con curiosità. Era una cassa di legno con un buco al centro, molto simile all'aggeggio che conobbi nella mia infanzia contadina, nel mio paese. Ma i nostri erano posti su un pozzo profondo o su una corrente d'acqua. Qui il deposito era un semplice cubo di metallo sotto il buco rotondo.
Il cubo ogni giorno, di buon mattino, riappariva pulito senza che riuscissi a capire come sparisse il suo contenuto. Una mattina mi ero alzato più presto del solito. Rimasi sbalordito vedendo cosa stava succedendo.
Dal retro della casa, come una statua scura che camminasse, entrò la donna più bella che avessi fino a quel momento visto in Ceylon, di razza tamil, della casta dei paria. Era vestita di un sari rossi e dorato, della tela più ruvida e grossolana. Alle caviglie, sui piedi scalzi, portava pesanti braccialetti.  Ai lati del naso le brillavano due puntini rossi. Saranno stati fondi di bicchiere, ma su di lei parevano rubini.
Si diresse con passo solenne verso il gabinetto, senza neppure guardarmi, senza curarsi della mia esistenza, e scomparve col sordido recipiente sulla testa, allontanandosi col suo passo da dea.
Era così bella che malgrado il suo umile lavoro mi lasciò turbato. Come se si trattasse di un animale scontroso, venuto dalla giungla, apparteneva ad un'altra vita, ad un mondo separato. La chiamai senza risultato. Poi qualche volta, sulla sua strada,  le lasciai qualche regalo, seta o frutta. La donna passava senza sentire né guardare. Quel tragitto miserabile era stato trasformato dalla sua oscura bellezza  nella cerimonia obbligatoria di una regina indifferente.
Una mattina, deciso a tutto, la afferrai per un polso e la guardai faccia a faccia.,  Non c'era nessuna lingua in cui potessi parlarle. Si lasciò guidare da me senza un sorriso e ad un tratto fu nuda sul mio letto. La sottilissima vita, i fianchi pieni, la traboccante coppa del seno, la rendevano identica alle millenarie sculture del sud dell'India. Fu l'incontro di un uomo e di una statua. Rimase tutto il tempo con gli occhi aperti, impassibile. Faceva bene a disprezzarmi. L'esperienza non venne più ripetuta.»

Inutile soffermarci, crediamo, sulla duplice prepotenza, di maschio e di occidentale, che il poeta mostrò in questa occasione e per la quale egli stesso, come confessa, provò disprezzo di sé - ma a cosa fatte, naturalmente: esattamente come avrebbe fatto qualunque altro bianco, a cominciare dai «padroni» inglesi, approfittò della situazione senza farsi scrupoli, almeno fino a quando ebbe soddisfatto le proprie voglie.
Abbiamo già visto, del resto (nel precedente articolo «La critica ai falsi socialismi nella concezione "scientifica" di Karl Marx») che Marx, il grande modello di Neruda, non agiva molto diversamente con le donne, a cominciare dalla domestica che lo serviva in casa, sotto gli occhi della moglie. Né i suoi seguaci hanno smentito di frequente questo schema: rivoluzionari nella vita pubblica, ma estremamente reazionari in quella privata.
In ogni marxista, del resto, c'è un puritano e un represso; e la scelta del verbo «confessare», nel titolo della sua autobiografia, non è certo casuale: si confessa una colpa, anzi, un peccato: in questo caso, il peccato di aver vissuto in modo intenso e sensuale. Certo, la cosa sa di decadentismo borghese e di narcisismo individualistico, e non sarebbe ammessa dalla «linea» dal Partito; però, a dirlo in confidenza,  che delizia trasgredire una legge e affondare voluttuosamente nei seducenti, gorghi del peccato!…
E bisogna poi vedere con quale moralismo bacchettone, con quale protervia intellettuale Pablo Neruda, in quello stesso libro, si scaglia contro gli scrittori da lui definiti «traditori», Céline, Drieu La Rochelle, Ezra Pound (traditori di che cosa? del dio Stalin?), rei di essersi alleati al fascismo; e con quanta indignazione descrive gli esordi del movimento nazista in Sud America e nella sua terra natale, il Cile meridionale.
Evidentemente, nemmeno lo sfiora - né deve averlo sfiorato in seguito - il dubbio che si possa essere di sinistra a parole, ma nazisti nell'anima; e che il suo comportamento nei confronti della donna senza nome che gli svuotava il gabinetto tutti i santi giorni, facendo in modo di non essere neppure  vista, fu di tipo nazista.
Per quella ragazza tamil, lo stupro subito da Neruda (perché di questo si è trattato, anche se il poeta, molto pudicamente, parla di «incontro» e vorrebbe dare a intendere che l'impassibilità della donna fu già, per lui, una punizione sufficiente) sarà stato soltanto uno dei tanti episodi di violenza, materiale e morale, cui nella sua vita di «fuori casta» ella era abituata fin dalla nascita. Se lo sarà scrollato di dosso con il sovrano disprezzo di chi non può essere veramente sporcato, perché si trova già talmente in basso nella scala sociale, che nessuna azione vile o abietta da parte di un altro essere  umano potrebbe offenderlo ulteriormente.
Nel comportamento del poeta cileno verso di lei possiamo vedere le due caratteristiche più odiose del nazismo (e del marxismo): la manipolazione dell'altro e l'incapacità di vedere nella persona umana un tutto unitario.
La bellissima donna che gli puliva il cesso non era, per lui, che un corpo, un corpo da possedere: impossibile, per il bianco arrogante, sia ammirarne la bellezza in modo rispettoso, contemplandola in maniera disinteressata; sia rispettarne l'integrità di anima e di corpo. Per cui l'occhio del maschio socialmente superiore è un occhio pornografico, fin dall'inizio: davanti a sé non vede una persona,  ma un'opera d'arte vivente; che egli, da buon intenditore e da sapiente collezionista - come tutti i Des Esseintes e gli Andrea Sperelli della più vieta letteratura decadentista - vuole far sua, imperiosamente.
Si dirà che egli cercò, in un primo tempo, di attirare l'attenzione di lei in modo gentile. Sì, spargendo a terra dei regalini, come per comprarne in anticipo i favori; né ci vien detto se, a cose fatte, si sia degnato di essere coerente e di pagarla. Dopo averla trattata come l'ultima delle prostitute (perfino le prostitute hanno il diritto di dire di no a un cliente, se non ne hanno voglia), avrebbe fatto bene a pagarla.
Se non lo fece, non sarà stato per spilorceria - crediamo - ma per poter convivere in futuro con l'autoinganno di non averla realmente stuprata, ma di averla «semplicemente» amata, e sia pure in modo irrituale. Pagandola, invece, avrebbe dovuto riconoscere con se stesso di averla trattata peggio di una prostituta; cosa che avrebbe ferito il suo orgoglio di maschio rampante, abituato a continue prodezze amatorie con giovani donne di tutte le razze (come lui stesso ha la bontà di raccontarci nelle pagine del suo libro).

Ma lasciamo perdere la condotta di Neruda, così squallidamente banale,  e soffermiamoci, invece, a considerare il mistero ineffabile di quella donna disprezzata ed evitata dalla gente per bene (perfino l'ombra di un fuori casta potrebbe contaminare un membro delle caste superiori), che incede con andatura divina mentre porta sulla testa la cassa di alluminio contenente i rifiuti organici del giovane poeta di belle speranze.
Il suo modo per guadagnarsi da vivere, dunque, è lo svuotamento dei gabinetti e il maneggio quotidiano del loro contenuto; lavoro veramente degno di un «paria» e che ella, tuttavia, esegue con regale dignità e con una sorta d'imperturbabile fierezza, senza nulla aspettarsi di buono da chicchessia, tetragona ai goffi tentativi del poeta che cerca di stabilire un dialogo, ma al solo scopo di portarsela a letto il più presto possibile.
Invero, quella donna senza nome è una figura altamente tragica: chiusa in una sua inaccessibile nobiltà, ma anche segnata dal marchio inconfondibile di quella cupa rassegnazione che è la forma esteriore di un'anima sordamente disperata.
La disperazione di lei è di duplice natura:.
Da un lato vi è la disperazione di chi è scacciato dal mondo degli esseri umani, e sa bene che mai potrà guardare in faccia un proprio simile come un suo pari, mai potrà leggere negli occhi dell'altro il minimo segno di simpatia o anche solo di compassione; in breve, la disperazione di chi è costretto a vivere come se fosse già morto.
Anche per questo, gli escrementi e i liquami che maneggia tutto il giorno non toccano la donna, non la scalfiscono, non le strappano il più piccolo segno d'insofferenza: ella se ne va, portando sulla testa il fetido recipiente, con la suprema indifferenza di una regina dalla pelle scura, di una Antinea nel suo remoto palazzo di Atlantide.
Che cosa è mai svolgere una simile mansione, per un essere umano che l'intera società tratta come se fosse un morto vivente? Che cosa mai lo potrebbe disgustare, o ferire, o insudiciare, quando sa di essere un morto che cammina?
Per questo, dalle labbra della donna non esce una parola; per questo, non chiude gli occhi neanche per un istante, mentre l'uomo bianco la possiede con selvaggia frenesia. A lei non è concesso sognare, sperare, temere, odiare o amare, ma solo e unicamente sopportare. Le parole non le servono, gli occhi guardano altrove. Impossibile indovinare i suoi pensieri, perché è impossibile indovinare i pensieri di un morto.
L'altra forma di disperazione che alberga in lei è di un altro genere: è la disperazione della suprema bellezza.
In genere, e molto superficialmente, noi pensiamo alla bellezza come a una ricchezza formidabile, come a una forma di potere, come a un'arma che consente, a colui o colei che la possiede, di essere sempre in posizione di vantaggio rispetto a chiunque altro: di dettare le proprie condizioni, di concedersi o rifiutarsi con supremo distacco.
Ma non è così, o - almeno - non è soltanto così.
La bellezza è una sorgente di ricchezza, ma anche un rischio di povertà: la povertà di chi non incontra mai uno sguardo amico, ma solo e unicamente degli sguardi avidi, affamati.
La bellezza è una fonte di potere, ma anche una forma di schiavitù: la schiavitù di essere eternamente condannata alla propria perfezione, alla propria desiderabilità, senza mai potersi concedere un momento di abbandono, di debolezza, di sogno.
La bellezza, infine, è - certamente - anche un’arma: ma un’arma a doppio taglio, che può ferire a morte colui e colei che la possiede. E non è certo un caso che tante dive del cinema, che hanno impersonato il mito della bellezza suprema, abbiano avuto una vita infelice e, più volte, votata all’autodistruzione.
Abbiamo già sostenuto, in una precedente occasione (cfr. F. Lamendola, «Le piante e la bellezza», anch’esso sul sito di Arianna Editrice) che la bellezza non è facile da portare e che vi sono persone che la indossano male, come un vestito fuori misura o come un paio di scarpe con i tacchi troppo alti, sui quali si cammina vacillando penosamente. Aggiungiamo che la bellezza può divenire una autentica maledizione perché è un abito estremamente pesante da indossare ogni giorno, ogni minuto, e che richiede una grande forza interiore e una notevole maturità.
Una donna eccezionalmente bella non troverà facilmente lo sguardo di chi si ponga davanti a lei su un piano di parità e di disinteresse: troverà sguardi adulanti e servili, ma al tempo stesso lubrichi: sguardi che la spogliano nuda.
A quel punto, per una donna si pone la questione di come portare il peso della propria bellezza.  Essenzialmente, sono due gli atteggiamenti possibili: sfruttare la situazione, cercando di esercitare il massimo di potere sugli altri, ma al prezzo di suscitarne il massimo di cupidigia sensuale; oppure corazzarsi e rendersi indifferente a quegli sguardi famelici, lasciandoseli scivolare via come se fossero cosa che non la riguarda.
In pratica, tuttavia, anche adottando quest’ultima strategia, ben difficilmente la donna potrà rimanere a lungo indifferente: o perché stuzzicata nella sua vanità, o perché ferita nella sua dignità di persona. Nel primo caso scivolerà verso il comportamento del primo tipo, ossia quello di sfruttare la situazione il più possibile (cioè fino a quando la bellezza regge agli assalti del tempo); nel secondo caso, subentrerà un senso di intima stanchezza, di delusione, di svuotamento, di amarezza e di estrema solitudine.
E non è detto che le due situazioni non possano finire per coesistere, realizzando la precaria coesistenza di un io narcisista e opportunista, sempre ansioso di essere desiderato e corteggiato,  e di un io amareggiato, deluso e disperato, che vorrebbe fuggire lontano, nascondersi, perché prova disprezzo e nausea per il mondo intero e, alla fine, anche per se stesso.
Naturalmente ci sarebbe una terza possibilità, quella di trovare il modo di convivere con la propria ingombrante bellezza, senza divenirne schiavi e senza lasciarsi spingere nell’angolo da essa; ma, per esserne capaci, si richiedono doti dell’animo che non tutti possiedono: un forte senso di equilibrio; una autostima non basata soltanto sul proprio aspetto fisico; una ricchezza spirituale che sappia parlare agli altri ancora più della prorompente avvenenza del proprio corpo o che, almeno, non permetta a quest’ultima di mettere in ombra tutto il resto della propria persona: totalità di anima e di corpo.
Una operazione del genere, non facile per chi, vedendosi incessantemente ammirato e desiderato solo per le proprie doti fisiche, è portato ad un effimero senso di onnipotenza, paragonabile all’assuefazione alla droga, diviene pressoché impossibile per chi, come la donna tamil del racconto di Neruda, non ha alcuna possibilità di farsi apprezzare dagli altri per le proprie doti interiori, perché l’esclusione sociale e il tabù religioso l’hanno espropriata della sua unicità e specificità di essere umano e ridotta alla materialità pura.
Ecco perché quella donna è un personaggio altamente tragico.
Il grande poeta cileno non sembra avere neppure intuito la profondità della sua tragedia: anche lui, come chiunque altro, non ha saputo vedere in lei che un corpo bellissimo il quale, non avendo diritti sociali, non può nemmeno rifiutarsi al piacere altrui.
Col suo gesto, con lo stupro - se vogliamo chiamare le cose con il loro nome e sbarazzarci dei veli dell’ipocrisia - egli non ha fatto altro che ribadire la condizione di puro oggetto di quella sfortunata e solitaria creatura.
Forse, se avesse provato a parlarle senza mirare alla soddisfazione del proprio desiderio sensuale, un po’ alla volta, e certo con fatica, sarebbe riuscito ad aprire un dialogo (l’ignoranza della lingua non è un ostacolo insormontabile, quando le proprie intenzioni sono sincere e disinteressate).
Chissà, forse avrebbe potuto farle del bene: già per il solo fatto di trattarla come un essere umano, con rispetto e simpatia, senza nulla chiederle.
A volte, nel deserto di una intera vita umana, bastano una parola buona e uno sguardo affettuoso per accendere un raggio di luce, per salvare un’anima dal naufragio nel buio mare della disperazione.
Forse, dietro la sua apparente impassibilità, quella donna sfortunata desiderava intensamente una parola o uno sguardo del genere: desiderava con tutta l’anima di essere guardata, almeno per una volta, non come un corpo da possedere, ma come una persona da ascoltare.
Invece, anche quello straniero venuto da un paese lontano l’ha usata e ferita, come chissà quanti altri avranno fatto (ma di nascosto, perché lei era una «intoccabile»!), sia prima che dopo.
O forse non è riuscito a ferirla, perché lei era già morta.
Forse, non ha fatto altro che oltraggiare un cadavere: un atto di necrofilia.
Lei non era una statua, come egli scrive eufemisticamente, ma un essere umano che nessuno, e neanche quel giovane intellettuale straniero, aveva mai considerato tale.
Per questo era morta.
Uccisa dalla doppia maledizione di una esclusione sociale inesorabile e di una bellezza troppo grande da portare, in totale solitudine, sulle proprie esili spalle.