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Liberarci dall'ossessione del fare per lasciarci riempire dalle voci amiche

di Francesco Lamendola - 19/11/2008


Siamo malati di iperattivisimo, un po' tutti.
È una delle caratteristiche qualificanti della società di massa: la smania del fare, dell'agire; di più, del manipolare incessantemente le cose (e le persone).
Non nasce dal nulla: la ritroviamo alle radici della civiltà greca, cioè nelle nostre radici: è la convinzione radicata che il mondo, così com'è, non sia sufficiente, o non sia abbastanza sicuro, o abbastanza pulito, o abbastanza armonioso: che gli eroi debbano lottare contro le forze del Caos per salvare il Cosmos, l'ordine e l'armonia.
Che cosa mai succederebbe, si chiedeva l'uomo greco, se Prometeo non rapisse il fuoco agli dèi; se Eracle non portasse a termine le sue dodici fatiche; se Giasone non tornasse dalla Colchide col suo vello d'oro e se Teseo non uccidesse il Minotauro? Chi proteggerebbe gli umani dalle forze minacciose che li assediano da ogni dove, chi riuscirebbe a imporre alle tenebre la luce; alla barbarie, la civiltà?
Così, l'istinto all'azione, inscritto nei geni della civiltà greca, si sposa con la febbre del dinamismo,  propria della modernità: vedi l'esaltazione della velocità e dell'azione nel «Manifesto futurista» del 1909 di Filippo Tommaso Marinetti; e diviene non una visione del mondo, ma l'unica visione possibile.
Essere uomini significa essere individui (o, meglio ancora, masse) che agiscono: secondario è il fine; quel che conta è l'azione per l'azione. Marinetti aggiungeva: quel che conta è la violenza per la violenza: poco importa se è quella della guerra o quella dei terroristi anarchici; noi esaltiamo, diceva, sia il militarismo che il gesto distruttore del libertario (tanto per la par condicio).
Tale è divenuta, nel corso dei secoli, la nostra forma mentis; massimamente da quando la Gran Bretagna, sul finire del Cinquecento, ha gettato le basi del suo Impero, e i valori mercantili si sono un po' alla volta imposti all'Europa, col prestigio della Magna Charta, del Bill of rights e, naturalmente, della libertà di commercio (beninteso, alle proprie condizioni: come si vide nella Guerra dell'Oppio contro la Cina, nel 1840).
Poi è arrivato il mito dell'America, dell'American way of life: un mito di cartapesta, costruito in gran parte sul set cinematografico di Hollywood (quando non addirittura un mito alla rovescia, come per i primi decenni del genere western); ma pur sempre un mito brillante e seducente. E la società di massa ha bisogno di miti, non meno di quanto ne avesse bisogno la civiltà greca. Al posto di Prometeo, Eracle, Giasone e Teseo, abbiamo i divi del cinema e dello sport, le attrici e le top-model (senza stare troppo a distinguere fra realtà e finzione: è così che il cow-boy del grande schermo, Ronald Reagan, è divenuto presidente degli Stati Uniti); e anche, di tanto in tanto, i politici apportatori di salvezza, da John Kennedy a Barak Obama.
Intanto si continua a fare, ad agire, ad agitarsi: a fabbricare robot che sostituiscono gli umani in tutte le operazioni possibili e immaginabili; a distruggere le foreste e quel poco di natura che ancora ci rimane sulla faccia del pianeta; a gettare sul mercato valanghe di prodotti tanto sofisticati, quanto inutili: ma bisogna pure che l'economia «giri» e che, con essa, girino i soldi.
Nemesi dell'attivismo fine a se stesso: non si lavora per produrre, si produce per poter lavorare; e intanto si versa qualche lacrima di coccodrillo sulla devastazione dell'ambiente e sul radicalizzarsi della diseguaglianza fra chi possiede tutto e chi non possiede nulla.
Non si corre per andare in qualche posto: si corre per il gusto di correre. Alla lettera.
Quante volte ci è capitato di venire sorpassati da un'automobile lanciata a folle corsa, magari in curva e obbligandoci a una brusca frenata, per poi vedere quella stessa automobile entrare in un parcheggio pochi metri più avanti, o accostare al marciapiede perché il suo occupante doveva  scendere a comprare le sigarette?
Non si parla perché si ha qualcosa da dire: si parla a cateratta, perché non si è più capaci di restarsene il silenzio.
Non si entra nei negozi perché si ha bisogno di comprare qualcosa, ma perché comprare qualcosa è divertente (lo chiamano fare shopping).
Non si ama e non si odia perché davvero si provino dei sentimenti, ma tanto per fare qualcosa, per ammazzare la noia e perché si pensa che non farlo sia stupido, che sia una perdita di tempo.
Il tempo è prezioso: dunque il tempo va usato, sempre e in qualunque modo. Se proprio non c'è niente da fare, allora si gioca alle sedute spiritiche o si va in cerca di qualcuno da pestare e da ammazzare.
Meglio bruciare vivo un barbone che dorme sulla panchina, piuttosto che annoiarsi e non far niente. Meglio aprire i rubinetti dei bagni e allagare tutta la scuola, causando danni per milioni di euro, piuttosto che annoiarsi e non far niente. Meglio andare da Maria De Filippi a vomitare i propri bassi istinti davanti a milioni di persone, piuttosto che annoiarsi e non far niente.
Questa mentalità è penetrata e si è largamente diffusa anche tra gli intellettuali; quando pure non sono stati proprio loro a diffonderla nella società, dandone l'esempio e teorizzandola sulle pagine dei giornali o nei salotti televisivi.
Dal momento che fare è sempre meglio che non fare, scrivere un libro è meglio che non scriverlo, anche se non si ha assolutamente nulla da dire. Prima o poi si troverà un editore abbastanza cinico e furbo da riuscire a vendere quel nulla a un pubblico d'imbecilli annoiati.
E gli urbanisti, gli architetti, gli assessori ai lavori pubblici?
Meglio buttare giù quei vecchi caseggiati, meglio sventrare quegli antichi quartieri (come le Halles di Parigi) e rifare ogni cosa col vetro e col cemento: evviva la modernità. Non importa se la cosa era necessaria e se si rivela funzionale: importa far qualcosa, mostrare ai cittadini che si è fatto qualcosa. Il popolo bue rielegge più facilmente chi ha messo tutto a soqquadro, che non chi ha conservato l'esistente, indipendentemente dall'utilità e dalla funzionalità.
E il Louvre? Troppo antica, troppo mummificata quella facciata; meglio tirare su una bella piramide di cristallo. Almeno si vedrà che è stato fatto qualcosa. Se poi questo qualcosa porta impressi i segni della modernità, tanto meglio: quello è un lasciapassare in bianco.
Così, non ci si chiede se una gita scolastica sia utile e opportuna: si tratta di viaggiare, e quello è un valore in se stesso, autoevidente; dunque, partenza!
Poi arrivano i ministri innovatori e riformisti (dicono loro) e buttano ogni cosa per aria, ma solo a livello di facciata: così fanno vedere che non scaldano la sedia. Spostano i birilli da destra a sinistra; tirano fuori qualche vecchia grida manzoniana che non era mai stata applicata, e promettono rigore, lacrime e sangue per i trasgressori, per i poltroni e per gli imboscati. Si tengono ben strette anche tre o quattro cariche istituzionali, come certi vescovi del Medioevo che accumulavano le cariche ecclesiastiche; ma, per carità, solo perché hanno tante idee da realizzare, tante cose da fare; e, se non le seguissero personalmente, chi lo farebbe al posto loro?
Ecco qui una ragazzina belloccia, cresciuta a Nutella e tivù, e che suda per tante, tante ore di palestra settimanali. Perché mai la mia figliola, così simpatica e carina, dovrebbe tenere nascoste le sue doti naturali?, pensa mammà. E allora mammà prende la figlioletta belloccia e la accompagna a far la fila in tutte le selezioni possibili e immaginabili, per la gioia immensa di vederla calcare le passerelle di qualche concorso di miss questo o miss quell'altro.
Perché mai non dovrebbe farlo? Non è forse giusto che tutti la vedono, la bella figliola, con quelle gambe chilometriche e quel sederino delizioso, con quelle irresistibili tettine che sobbalzano ogni volta che lei sculetta sui tacchi a spillo? Magari, quando alla fine arriva davvero a calcare la passerella, non sa dire due parole in croce, né ballare, e tanto meno inventarsi qualcosa di spiritoso o intelligente: ma che importa? Andare in passerella è sempre meglio che restare a casa. A casa, chi la vede? Solo quei quattro poveracci del quartiere, che sbavano e se la mangiano con gli occhi, ogni volta che passa per strada. Ma qui, alle sfilate e con le telecamere puntate, almeno la gente paga il biglietto e si ritiene onorata di strapparle un autografo.
Nessuno sembra pensare che, piuttosto di mostrare a tutti la propria vuotezza interiore, la propria abissale ignoranza e la propria bellezza dozzinale, si farebbe una più bella figura restandosene a casa. Restare a casa è da stupidi, date retta a mammà.
E così questa smania del fare, del fare ad ogni costo, del fare non importa cosa, ha contagiato tutti, giovani e vecchi, belli e brutti, poveri e ricchi. Dai potenti del Palazzo alle persone comuni, tutti smaniano e si agitano per fare o dire o inventarsi qualcosa: nessuno ha voglia di tacere, di ascoltare,  di imparare.

Tuttavia, dobbiamo cominciare a liberarci da queste abitudini, costi quel che costi; e non sarà facile. Dobbiamo sforzarci di rientrare in noi stessi: perché, attualmente, il nostro baricentro ideale si è spostato pericolosamente al di fuori di noi.
Viviamo in funzione di quello che ci immaginiamo di essere e non in funzione di quello che siamo; peggio ancora: viviamo in funzione dell'effetto che crediamo di produrre sugli altri. E che, invece,  sovente è molto meno lusinghiero di quello che noi non immaginiamo.
Dovremmo smetterla di agitarci come ossessi, di fare i buffoni, di dire «Cucù» ai nostri simili (che in se stesso è un simpatico scherzo da bambini; un po' meno se fatto da persone adulte e in circostanze serie o, magari, da un capo di governo in visita di Stato).
Dovremmo parlare un po' meno con il culo e con le tette, con le unghie e con i denti, e lasciare, semmai, che parlino per noi le nostre azioni: ma in maniera che possiamo andarne fieri e con un minimo di dignità.
E reimparare ad ascoltare.
Molte sono le voci che non sappiamo più ascoltare (ma sapevano farlo i nostri nonni, ed erano tanto più saggi, più modesti e più dignitosi di noi).
Per prime, dovremmo reimparare ad ascoltare le voci della natura: voci amiche, piene di bellezza e di poesia; ma che non possiamo udire materialmente, se non la smettiamo di fare scempio dell'ambiente in cui viviamo.
Poi, dovremmo reimparare ad ascoltare le voci dei nostri simili: e a riconoscere quelle che hanno qualcosa di importante da comunicarci (magari non con le parole), da quelle che sono puro rumore, puro flatus voci.
Quindi, dovremmo reimparare ad ascoltare la voce del nostro vero io: del Grande Io, non del piccolo io, capriccioso e narcisista: e quante cose avrebbe da dirci, se lo lasciassimo venire fuori una buona volta, e mettessimo il bavaglio a quel suo terribile fratello minore, così meschino e petulante!
Infine, dovremmo lasciare che a parlarci sia il Tutto: quella voce che viene dall'alto e che alcuni chiamano Dio; quella voce che è in se stessa parola: Logos, Verbo, come si esprime il Vangelo di Giovanni. In principio era il Verbo, in principio era la parola: non la nostra parola presuntuosa e balbettante, ma la Parola che scende dall'alto e porta all'essere le cose che non erano, o le cose che giacevano in quiete da qualche parte, in un'altra dimensione.
In realtà, queste quattro voci parlano tutte insieme e tutte insieme dovremmo imparare ad ascoltarle: come il conoscitore di musica classica che, quando siede ad un concerto, riconosce ad occhi chiusi la voce dei singoli strumenti.
Perché, tutte insieme, esse formano un concerto, un concerto meraviglioso, del quale così spesso ci priviamo, per prestare orecchio a quella cacofonia sgradevolissima delle voci insulse e rumorose che non dicono assolutamente nulla - benché ci assordino -, perché nulla hanno da comunicare.
Poco a poco, abituandoci ad ascoltare le voci autentiche e a distinguerle dal coro stonato delle voci false, comprenderemo quanto assurdo sia tutto questo nostro correre e affannarci ed agitarci e fare, fare, fare, nemmeno più sappiamo cosa.
A quel punto dovremo solo dire sì, dovremo solo lasciarci riempire dalla voce del Silenzio: e ritroveremo anche noi stessi.
Non sarà facile, all'inizio; ma dobbiamo provarci.
Dobbiamo scegliere se sviluppare la nostra parte migliore o la peggiore, la più chiassosa, bugiarda e cialtrona.
Dobbiamo scegliere se tornare ad essere noi stessi: come chi si risvegli sazio e intontito, dopo un orribile festino e una sbronza cattiva, che non porta allegria, ma solo una cupa, profonda tristezza.