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Somalia, un'altra guerra persa

di mazzetta - 20/11/2008

 
 

Due anni fa le armate etiopi del dittatore Meles Zenawi invadevano la Somalia appena pacificata sotto il governo delle Corti Islamiche, il primo dopo quindici anni di vuoto assoluto di potere e di faide tra signori della guerra. Il pretesto etiope era l'impossibile attacco somalo all'Etiopia, potenza regionale, da parte degli stessi somali male in arnese e piegati da tre lustri di distruzioni continuate. La più classica “guerra preventiva” contro una minaccia inesistente, la brutta copia dell'invasione dell'Iraq. Ma allora ci fecero caso in pochi, anche se la Somalia è considerata il paese potenzialmente più ricco di petrolio del continente dopo il Sudan. La realtà è quella di un'invasione per procura americana e nessuno ha mai creduto realmente che in Somalia qualcuno abbia mai pensato a suicidarsi aggredendo il potente vicino.

Prova ne sia che l'unico paese ad applaudire alla mossa furono proprio gli Stati Uniti, che si unirono con entusiasmo all'impresa bombardando la Somalia a caccia di “terroristi islamici”. Gli etiopi ebbero velocemente ragione della debole resistenza armata somala - che era davvero poca cosa - e vinsero quella che allora fu chiamata la “Guerra di Natale”, insediando poi il Governo Federale di Transizione eletto tre anni prima in Kenya in un meeting inter-somalo, governo che fino ad allora non era riuscito nemmeno a mettere piede nella capitale.

Piegare un popolo allenato alla guerra e armato come quello somalo non è facile e infatti gli etiopi hanno pagato un prezzo elevatissimo per il servizio reso a Washington. Nonostante la brutalità dell'occupazione e le feroci rappresaglie, l'esercito etiope ha vissuto due anni da incubo, nemmeno il bombardamento a colpi d'artiglieria di interi settori di Mogadiscio ha piegato i rivoltosi. Il resto lo ha fatto il governo fantoccio presieduto da Abdullah Yusuf, presto sprofondato in lotte tra clan e corruzione. A pagare il prezzo maggiore è stata come al solito la popolazione, spesso impossibilitata a ricevere persino gli aiuti internazionali quando gli etiopi hanno considerato certe aree del paese come “complici” degli insorti o più semplicemente quando gli aiuti sono stati predati dalle tante bande armate, tornate ad operare impunemente sotto gli occhi degli etiopi in quanto appartenenti a fazioni che sostenevano il GFT.

Oggi, a quasi due anni dall'invasione, il governo etiope non sa come smarcarsi da un conflitto che lo ha dissanguato economicamente ed umanamente. Zenawi avrebbe bisogno dell'esercito in patria anche per implementare la spietata repressione degli oppositori, mentre la situazione economica interna precipita come e più che altrove, anche a causa dell'eclissarsi dei paesi donatori e degli imponenti costi della guerra. L'occupazione etiope è stata riconosciuta a posteriori dall'ONU come sostegno al GFT, ma non arrivano finanziamenti e nemmeno uomini. Anche l'Unione Africana che ha mandato una missione di peacekeeping ha trovato solo un paio di paesi filo-americani che hanno mandato una rappresentanza puramente simbolica.

Il mondo sembra accorgersi oggi della Somalia solo per le gesta dei “pirati” che hanno messo in piedi un discreto business con il sequestro dei navigli di passaggio, ma quello che non si dice della Somalia è che ormai la maggior parte del territorio è in mano agli “islamici”, ovviamente molto più radicali di qualche anno fa, gli ultimi due anni di occupazione hanno nutrito solo l'odio, il desiderio di vendetta e l'estremismo. Il governo è di nuovo assediato, può muoversi solo a Mogadiscio e a Baidoa, città vicina al confine etiope dove per anni ha stabilito la sua sede quando non poteva raggiungere Mogadiscio. I somali alla fine hanno piegato l'esercito etiope, i signori della guerra e hanno anche trovato il tempo di farsi beffe dell'iniziativa internazionale contro la pirateria. Con le coste assediate da una forza multinazionale che va dall'US Navy alla marina russa, comprendendo una dozzina di altri paesi, i somali continuano a sequestrare navi con crescente successo. Proprio due giorni fa hanno fatto il colpo grosso catturando la mega-petroliera saudita Sirius Star e altre due imbarcazioni di passaggio, sotto gli occhi della flotta multinazionale.

Le recenti ammissioni del fallimento, sia da parte del presidente somalo Yusuf, che da parte del governo etiope, non hanno smosso una foglia della diplomazia internazionale. I tempi sono poco propizi, con la crisi in corso i paesi ricchi e le potenze interessate non hanno tempo e risorse da dedicare ad una crisi regionale, se non fosse che gli atti di pirateria feriscono il sacro commercio, della Somalia non se ne parlerebbe neppure. Non se ne parla nemmeno nel nostro paese che qualche legame storico con la Somalia ce l'avrebbe e avrebbe anche qualcosa da farsi perdonare dai somali, se non per segnalare un paio di suore italiane rapite o la lapidazione di una ragazzina da parte degli islamici. Migliaia di somali morti e centinaia di migliaia profughi o esuli non interessano per niente: due anni con testa girata dall'altra parte.

Nulla accade per caso, l'Africa sembra completamente uscita dall'infosfera globalizzata, inghiottita in un immenso buco nero, tanto che ormai l'ONU deve ridurre le razioni alimentari che tengono in vita qualche decina di milioni di persone attraverso il continente. Questo perché non si riescono a riscuotere dai paesi donatori un centinaio di milioni di dollari. Un particolare illuminante in un periodo nel quale si stanno bruciando migliaia di miliardi di dollari sul rogo della crisi finanziaria. Questo calo d'attenzione fortunatamente è presente anche sul versante delle attenzioni moleste, molti gruppi internazionali e molti paesi hanno oggi problemi ben più impellenti dei piani sulla Somalia

Non resta che sperare che l'Etiopia decida di ritirarsi senza dare corso ad ulteriori rappresaglie e vendette e che la Somalia riesca da sola a darsi una stabilità dalla quale ripartire e sulla quale ricominciare a costruire un paese che é ormai completamente distrutto. Un cammino reso difficile dalle ingerenze straniere, ma l'unico possibile per un popolo che da troppi anni può scegliere solo tra la guerra e la diaspora in un mare d'indifferenza.