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Le autodistruttive guerre dell'America

di Chris Hedges - 20/11/2008

 

 


La guerra è un veleno. È un veleno che i gruppi e le nazioni sono talvolta costretti a ingerire per garantirsi la sopravvivenza. Ma come tutti i veleni può essere letale quanto la malattia che dovrebbe scacciare.

Il veleno della guerra percorre indisturbato tutto lo Stato. Crediamo che il fatto di avere la capacità di fare la guerra ci dia il diritto di farla. Abbracciamo la pericolosa illusione di avere la missione provvidenziale di salvare il resto del mondo da se stesso, di inculcare le nostre virtù – che consideriamo superiori a tutte le altre virtù – negli altri, e di avere il diritto di farlo con la forza. Quest'idea ha corrotto sia i repubblicani che i democratici. E se Barack Obama berrà, come sembra, l'oscura pozione della guerra e del potere imperiale offerto dallo stato di sicurezza nazionale, accelererà la spirale discendente dell'impero americano.

Obama e quelli che lo circondano abbracciano la follia della “guerra al terrore”. Magari vorranno spostare l'enfasi di questa guerra sull'Afghanistan più che sull'Iraq, ma è una differenza strategica, non politica. Restando in Iraq ed estendendo la guerra in Afghanistan il veleno continuerà a scorrere in dosi mortali. Queste guerre di occupazione sono condannate al fallimento. Non possiamo permettercele. L'ondata di pignoramenti, la disoccupazione in crescita, il crollo delle banche e dell'industria dei servizi finanziari, la povertà che sta facendo a pezzi la classe lavoratrice, l'infrastruttura in fase di collasso e l'uccisione di poveri afghani riuniti a festeggiare matrimoni e di iracheni dilaniati dalle nostre bombe a frammentazione sono fittamente intrecciati. Questi fatti formano un cerchio perfetto. Le costose forme di morte che dispensiamo a una parte del mondo ci stanno svuotando.

La “guerra al terrore” è una guerra assurda contro una tattica. Postula l'idea di una guerra perpetua, o, come si dice oggi, “generazionale”. Non ha un fine visibile. Non c'è modo di definire la vittoria. È, in termini metafisici, una guerra contro il male, e il male, come ogni bravo seminarista sarà in grado di dirvi, ci accompagnerà sempre. I mali più distruttivi, tuttavia, non sono quelli che si manifestano all'esterno. I più distruttivi sono quelli interni. Questi mali nascosti, spesso definiti virtù, sono liberati dalla nostra superbia, illusione e ignoranza. Il male che si maschera da bene è il male nella sua forma peggiore e mortale.

Il declino dell'impero americano è cominciato molto prima dell'attuale crollo economico o delle guerre in Afghanistan e in Iraq. È cominciato prima della prima guerra del Golfo o di Ronald Reagan. È cominciato quando siamo passati, per citare le parole dello storico Charles Maier, dall'”“impero della produzione” all'“impero del consumo”. Alla fine della guerra del Vietnam, quando i costi bellici divoravano la Grande Società di Lyndon Johnson e la produzione petrolifera nazionale cominciò il suo stabile e inesorabile declino, abbiamo assistito alla trasformazione di un un paese che fondamentalmente produceva in un paese che fondamentalmente consumava. Abbiamo cominciato a chiedere prestiti per mantenere uno stile di vita che non potevamo più permetterci. Abbiamo cominciato a usare la forza, soprattutto in Medio Oriente, per soddisfare la nostra insaziabile domanda di greggio a buon mercato. Gli anni del secondo dopoguerra, quando gli Stati Uniti erano responsabili di un terzo delle esportazioni mondiali e di metà dell'attività produttiva del mondo, hanno lasciato il posto agli enormi squilibri commerciali, ai lavori esternalizzati, agli scheletri arrugginiti delle fabbriche abbandonate, ai salari in stagnazione e a debiti pubblici e personali che la maggioranza di noi non è in grado di pagare.

È arrivata la resa dei conti. I nemici più pericolosi dell'America non sono gli estremisti islamici, ma coloro che promuovono l'ideologia perversa della sicurezza nazionale che, come scrive Andrew Bacevich, è la nostra “religione surrogata”. Se continuiamo a credere di poter estendere le nostre guerre e indebitarci ulteriormente per mantenere un livello insostenibile di consumi finiremo per minare le basi della nostra società.

“Le Grandi Bugie non sono la promessa di tagliare le tasse, di garantire l'assistenza sanitaria universale, di ristabilire i valori della famiglia, o di pacificare il mondo attraverso dimostrazioni violente della supremazia americana”, scrive Bacevich in The Limits of Power. “Le Grandi Bugie sono le verità non dette: che la libertà ha un rovescio; che le nazioni, come le famiglie, devono vivere in base ai loro mezzi; che la finalità della storia, oggetto di tante baldanzose dichiarazioni, resta imperscrutabile. Ma soprattutto questo: il potere ha dei limiti. I politici passano sotto silenzio verità come queste. Ne consegue il persistere di quella mancanza di autocoscienza che costituisce un elemento così duraturo del carattere americano”.

Le figure che si raccolgono attorno a Barack Obama, da Madeline Albright a Hillary Clinton a Dennis Ross e Colin Powell, non hanno interesse a smantellare la struttura della presidenza imperiale o il vasto stato fondato sulla sicurezza nazionale. Manterranno intatte queste istituzioni e cercheranno di accrescere il loro potere. Crediamo infantilmente che Obama ci salverà magicamente dall'economia in caduta libera, ripristinerà i nostri dissipati livelli di consumo e farà risorgere la nostra potenza imperiale. Questa ingenua fiducia fa parte della nostra perdita di contatto con la realtà. I problemi che ci troviamo ad affrontare sono strutturali. La vecchia America non tornerà più.

Le corporazioni che controllano lo stato non permetteranno mai una vera riforma. È l'essenza del patto faustiano stretto tra quelle corporazioni e i partiti repubblicano e democratico. Nell'attuale sistema non acquisiremo mai l'indipendenza energetica. L'indipendenza energetica devasterebbe i profitti dell'industria del gas e del petrolio. Spazzerebbe via decine di miliardi di dollari in forniture militari, comprometterebbe il benessere finanziario di tutta una serie di società private dalla Halliburton alla Blackwater e renderebbe obsoleta l'esistenza del Comando Centrale degli Stati Uniti.

Ci sono gruppi e singoli individui che vogliono farci del male. Gli attacchi dell'11 settembre non saranno gli ultimi attentati terroristici sul suolo americano. Ma l'unico modo per sconfiggere il terrorismo è isolare i terroristi nelle loro società, mettere in piedi guerre culturali e di propaganda per screditare le loro idee, cercare anche la collaborazione di coloro che definiamo nostri nemici. La forza, anche se fa parte di questa battaglia, è raramente necessaria. Gli attentati del 2001 che hanno scatenato le nostre ire e la “guerra al terrore” hanno anche scatenato un'ondata mondiale di avversione per al-Qaida e il terrorismo islamico, anche nel mondo musulmano, dove all'epoca mi trovavo a lavorare come giornalista. Se avessimo avuto il coraggio di essere vulnerabili, di lavorare su questa simpatia invece di sganciare bombe su tutto il Medio Oriente, oggi saremmo molto più sicuri e tranquilli. Se ci fossimo rivolti ai nostri alleati e partner invece di dare per scontato che la forza militare ci avrebbe restituito il nostro senso di invulnerabilità e avrebbe mitigato la nostra umiliazione collettiva avremmo fatto molto per sconfiggere al-Qaida. Ma non l'abbiamo fatto. Abbiamo voluto che tutti si inginocchiassero davanti a noi. E nel nostro spietato e indiscriminato uso della violenza e di guerre di occupazione illegali abbiamo fatto risorgere proprio le forze che avremmo potuto, sotto una guida saggia, emarginare. Abbiamo dimenticato che la guerra al terrorismo è una guerra di ombre, una guerra di intelligence, non un conflitto convenzionale. Abbiamo dimenticato che, per quanto forti possiamo essere militarmente, nessuna nazione può sopravvivere isolata e sola, neanche noi.

L'impero americano, insieme alla nostra sfrenata indulgenza verso noi stessi e a un consumo avido, è giunto alla fine. Stiamo attraversando un periodo di profondo declino economico, politico e militare. Possiamo continuare a danzare al ritmo dell'autoinganno, intonando ridicoli mantra sulla nostra grandezza, virtù e potenza, oppure possiamo affrontare la dolorosa realtà che ci ha travolti. Non possiamo capovolgere questo declino. Accadrà comunque. Ma possiamo, se ci liberiamo del nostro autoinganno, smantellare il nostro impero in sfacelo e lo stato di sicurezza nazionale con un danno minimo per noi stessi e per gli altri. Se ci rifiutiamo di accettare le nostre limitazioni, se non affrontiamo i cambiamenti che ci sono stati imposti da un'élite bancarottiera che ha gestito rozzamente la nostra economia, le nostre forze armate e il nostro governo, correremo a rotta di collo verso la rovina. L'autoinganno è per noi il pericolo maggiore. O affrontiamo la realtà o finiremo sui campi minati che abbiamo davanti.


Originale da: America's Wars of Self-Destruction

Articolo originale pubblicato il 17/11/2008

L’autore

Manuela Vittorelli è membro di Tlaxcala, la rete di traduttori per la diversità linguistica. Questo articolo è liberamente riproducibile, a condizione di rispettarne l'integrità e di menzionarne autori, traduttori, revisori e la fonte.

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