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L'agricoltura tradizionale in Sri lanka

di Edward Goldsmith intervista Mudiyansa Tenakoon - 20/11/2008



L’agricoltura tradizionale dei paesi meno sviluppati è spesso messa
da parte come primitiva e improduttiva. In realtà è la migliore speranza
per il futuro.
Tenakoon vive in un piccolo villaggio nel nord dello Sri Lanka.
Profeta della vita rurale tradizionale dell’isola è anche un contadino
diventato piuttosto famoso fra coloro che riconoscono la distruttività
e la contro produttività della moderna agricoltura intensiva, imposta
allo Sri Lanka dalle istituzioni internazionali (specialmente la
FAO e la Banca Mondiale).
Mi hanno accompagnato a incontrarlo due uomini estremamente
interessanti e competenti: Upalli Senanayake, che fa parte di una
delle famiglie più influenti del paese (Dudley Senanayake, primo
presidente del Consiglio dei ministri dello Sri Lanka era suo zio) e
Gunasekara, volontario del servizio civile che dedica il tempo libero
a studiare la vita tradizionale dello Sri Lanka.
Ho ricostruito la nostra conversazione sulla base principalmente
dei miei appunti.
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Goldsmith: Quanto è grande un podere medio in questa zona?
Tenakoon: La famiglia media ha meno di un ettaro di terra. I contadini
più ricchi non hanno più di due ettari. Io ho meno di mezzo
ettaro di campi di riso più un orto.
Sei autosufficiente?
Tenakoon: Temo di no. All’epoca di mio padre lo eravamo molto
di più. Oggi devo comprare il cherosene per le nostre lampade,
sale e vestiti.
Non vi siete mai prodotti queste cose da soli?
Tenakoon: Mia nonna tesseva i vestiti per sé e per la famiglia. Noi
coltivavamo il cotone nella chena e utilizzavamo la zona del bosco
dietro al villaggio per procurarci la legna da ardere. Lo facciamo
ancora. Oltretutto, in passato non era necessario il cherosene perché
producevamo il nostro olio di Mee, estratto dalle noci dell’albero
del Mee (Kaly).
Usavate l’olio di Mee anche per cucinare?
Tenakoon: Sì, e anche come medicinale. Usavamo anche l’olio di
cocco.
Avevate delle tradizioni di baratto con gli artigiani locali come
in India?
Tenakoon: Sì, dieci anni fa nel villaggio c’erano ancora un ceramista
e un fabbro. Noi fornivamo loro da mangiare in cambio di
tazze e strumenti da lavoro; adesso dobbiamo comprare queste
cose in città. Ma non riusciamo più a trovare gli orci di argilla.
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Per cosa vi servivano in particolare?
Tenakoon: Fra le altre cose servivano a conservare l’acqua da
bere. Li riempivamo con pula di riso che veniva bruciata per sterilizzarli.
Poi si lavavano e si riempivano.
È molto interessante. Questo tipo di conoscenze passavano di
padre in figlio?
Tenakoon: Certamente. Ogni contadino è un ricercatore e un insegnante,
altrimenti non sarebbe un contadino.
Quante varietà di riso coltivavate qui?
Senanayake: Una volta si coltivavano 280 varietà di riso. Oggi ne
restano solo 15 o 20 al massimo. In conseguenza della politica del
governo le altre si sono estinte. Secondo C. Drieberg (sovrintendente
degli orti scolastici citato in C. Wright, Glimpses of Ceylon,
1974) una volta si coltivavano da 300 a 400 varietà di riso.
Tenakoon: Ricordo 123 varietà di riso rosso, adesso ne restano
solo tre o quattro.
In che modo queste varietà erano diverse una dall’altra?
Tenakoon: Prima di tutto avevamo bisogno di varietà diverse
per le due stagioni di coltivazione: la stagione del monsone di
nord-est (Maha) e la stagione del monsone di sud-ovest (Yala).
Nella stagione Maha seminavamo quelle che chiamiamo le varietà
«dei quattro mesi». Come dice il nome, ci mettono quattro mesi
per crescere. Nella stagione Yala seminavamo le varietà «di tre
mesi». Fra le varietà Maha, ricordo Murungakayam, che era bianca
e marrone, Wella Illangaliya, Hondarawala, Vangala e Beruwee.
Fra le varietà dei «tre mesi» ricordo: Heenati, Dahanala, Kokkali,
Kanni Murunga, Pachha Perumal, Kuru wee e Suvandel. Si seminava
anche il Mawee, una varietà di «sei-otto mesi».
A cosa serviva questa varietà?
Tenakoon: Era destinata ai preti buddisti. I preti non mangiano
dopo mezzogiorno e perciò hanno bisogno di alimenti molto nutritivi
che li sostengano fino alla mattina successiva. Il Mawee ha un
valore nutritivo molto alto, con notevole contenuto di proteine.
E le altre varietà?
Tenakoon: Per le mamme in allattamento si seminava l’Heenati
perché, oltre a stimolare la secrezione, apporta un contenuto
maggiore di grassi e zucchero. Cercavamo di coltivarlo in tutte e
due le stagioni. Il Kanni Murunga lo seminavamo per gli uomini
che andavano a lavorare nei campi di paddy. Dava loro energia
perché conteneva molti carboidrati, ma era usato anche per fare
il latte di riso impiegato nelle cerimonie tradizionali. Il Suvandel
lo si coltivava per la sua straordinaria fragranza.
La scelta delle varietà era legata alla presenza o meno dell’acqua
e alle condizioni del terreno. Alcune varietà si coltivavano
quando il campo era particolarmente melmoso; altre erano più
adatte per essere seminate nei terreni più alti, dove c’era meno
fanghiglia. Certe varietà avevano bisogno di un suolo molto ricco,
altre crescevano bene nei terreni più poveri. Alcune erano più
resistenti agli insetti del riso e le seminavamo al posto di altre più
desiderabili quando i mezzi tradizionali di controllo degli insetti
non funzionavano.
Quali erano i metodi tradizionali di controllo degli insetti delle
risaie e delle altre malattie?
Tenakoon: Le malattie e i parassiti erano molto meno diffusi di
oggi, ma le differenze
fondamentali sono date
dalle piante. Le varietà
tradizionali avevano
steli lunghi che ondeggiavano
al vento, il che
rendeva molto difficile
l’attacco degli insetti.
Le varietà ibride di
oggi hanno steli corti e
sono molto più rigide:
ciò rende la vita degli
insetti molto più facile.
A questo va aggiunto
che le varietà tradizionali,
a differenza delle
nuove, avevano grandi
foglie pendenti che facevano
ombra al suolo
sottostante, il che non
permetteva la crescita delle infestanti. Il riso paddy, ad esempio,
aveva bisogno di una speciale protezione dagli insetti durante un
periodo critico della sua crescita, circa due settimane.
In questo periodo, tutta la famiglia stava in allerta, pronta a
muoversi per qualsiasi emergenza; era essenziale per proteggere i
nostri raccolti. Una cosa che si faceva sempre durante questa fase
era versare il latte di cactus (daluk) all’entrata dell’acqua destinata
alla risaia. Era molto efficace per tenere lontani certi insetti. Se le
piantine di riso ingiallivano, seppellivamo le foglie di bambù negli
ingressi dell’acqua finché il riso non cominciava a granire, in questa
fase il chicco era piuttosto liquido. Per proteggerlo dagli insetti
ci facevamo dare i vestiti vecchi dei preti buddisti, con i quali
facevamo degli stoppini impregnati di olio di cocco. Una volta
accesi e messi in diverse parti delle risaie, a causa del luminoso
color giallo vegetale che contenevano, bruciavano con una luce
vivace e contemporaneamente emettevano un odore molto forte
che allontanava ogni insetto nocivo. Un altro mezzo che usavamo
era quello di pestare le foglie di una pianta rampicante locale in
modo da formare un succo che versavamo nell’acqua della risaia.
Il succo galleggiava e si fermava attorno alle piante uccidendo i
bachi godewella che mangiavano il riso durante le due settimane
critiche […].
Inoltre, facevamo delle lunghe corde che impregnavamo con
una sostanza molto appiccicosa derivata dal frutto di Jak. Era
compito dei bambini trascinare le corde attraverso le risaie in
modo che gli insetti ci rimanessero attaccati.
Senanayake: Tutto questo dà un’idea della collaborazione necessaria
da parte di ogni elemento della famiglia per rendere possibile
questo tipo di agricoltura altamente sofisticata. Quando
l’unità della famiglia si rompe per effetto dello sviluppo, non c’è
più modo che possa essere praticata, si può solo sfociare nell’agricoltura
altamente distruttiva che si pratica in Occidente.
Tenakoon: Proprio così.
Usavate i mezzi di controllo biologico come li chiamiamo in occidente?
Tenakoon: Certamente. Uno dei modi più efficaci per controllare
i parassiti delle risaie era schiacciare i resti delle noci di cocco
e spargerli in ogni angolo della risaia. Questo attirava un uccellino
grigio marrone chiamato il Demalichch o «sette sorelle».
Quest’uccello era golosissimo dei resti di noce di cocco e mangiava
qualsiasi parassita che trovava lì intorno. Mangiava anche
i bachi Godewella che attaccano le piantine di riso specialmente
nelle due settimane più delicate.
Esistevano dei rituali tradizionali per controllare i parassiti?
Tenakoon: C’era un rituale che prevedeva la bollitura del latte
fino a farlo traboccare. Si chiamava «kiriuturunewa» che vuol dire
letteralmente «il latte viene fuori dalla pentola». Era considerato
molto efficace contro la piralide marrone, un importante parassita
delle piante di riso. Un altro rito, considerato molto efficace
come repellente degli insetti, consisteva nel piantare un bastone
decorato per l’occasione in mezzo alla risaia.
Come contrastavate la presenza dei roditori?
Tenakoon: Per tenere sotto controllo i ratti e i topi seppellivamo
Sri Lanka. Campi terrazzati di riso
ai quattro angoli del campo quattro pezzi di radici bruciate prese
dalla parte est dell’albero del Mee. Di conseguenza i ratti entravano
raramente nella risaia.
E quella degli uccelli?
Tenakoon: Erano sotto stretto controllo. Il metodo utilizzato
prevedeva la coltivazione di un riso destinato esclusivamente alla
loro alimentazione. Questa qualità, chiamata «kuruku paluwa»,
era piantata in piccole fasce alla fine di ogni campo.
Ma come facevano gli uccelli a sapere che era quello il riso per
loro e non quello coltivato nel resto della risaia?
Tenakoon: Ci siamo comportati così per millenni. Gli uccelli hanno
avuto tutto il tempo di imparare quale fosse il riso per loro e
quale il riso per noi; raramente sconfinavano nella nostra parte di
risaia, salvo quando sono invitati a farlo per mangiare un parassita
del riso: il baco godewella.
Senanayake: Non esistono modi magici per controllare i parassiti.
I nostri contadini sono troppo saggi per credere agli scienziati occidentali
che cercano di vendere loro delle varietà di riso o delle
sostanze chimiche «miracolose» che dovrebbero eliminare tutti i
parassiti. I parassiti delle risaie continueranno ad esistere anche
dopo la scomparsa degli scienziati occidentali e della civiltà industriale.
La verità è che dobbiamo imparare a conviverci e a ridurre i
loro saccheggi con un ampio ventaglio di modi diversi, ognuno
dei quali da solo può dare soltanto un piccolo contributo. Questo
è possibile soltanto quando la conoscenza necessaria per farlo è
passata di padre in figlio, il che non è pensabile quando i bambini
sono mandati nelle scuole di città e imbevuti di tutte le vostre
superstizioni scientifiche occidentali.
Come facevate a mantenere la fertilità della risaia?
Tenakoon: Usavamo metodi diversi. Uno consisteva nel piantare
per ogni ettaro di risaia 20 alberi di Mee. Il Mee è una leguminosa,
il che significa che i batteri che vivono fra le sue radici fissano
l’azoto. Inoltre, il suo frutto è molto apprezzato dai pipistrelli che
si riunivano a frotte sugli alberi. I loro escrementi, molto ricchi di
azoto, costituivano un’altra importante fonte di fertilizzante.
Un altro sistema molto utile era quello di incoraggiare la crescita,
fra un raccolto e l’altro, di un gran numero di infestanti
leguminose che crescevano selvatiche nei «pillewas», le piccole
aree lasciate incolte agli estremi della risaia. Questi pezzetti di
terra si lasciavano incolti perché da lì venivano i semi delle leguminose
infestanti e lì si riposavano i bufali, usati sia per arare le
risaie sia come fonte di letame, altro contributo alla fertilità del
terreno. Oggi, con lo sviluppo moderno, i «pillewas» sono stati
arati per aumentare la superficie delle risaie, il che comporta indubbiamente
una riduzione della fertilità del suolo.
Per concludere, non posso certo dimenticare il compito strategico
svolto dalle distese di giungla che un tempo si trovavano alle
spalle del villaggio. È da qui che veniva l’acqua che scorreva nei
«tanks». La parola deriva dal portoghese ed è usata in Sri Lanka
per indicare i laghi artificiali e i serbatoi d’acqua che svolgevano
un compito strategico nell’agricoltura tradizionale. La giungla,
inoltre, forniva anche suolo ricco di humus, che scorreva nei campi
ogni volta che pioveva.
Questi erano i metodi più utilizzati per rendere fertile la terra
e per mantenerla in buona salute. Dovevano essere efficaci altrimenti
non continueremo a coltivarla ancora oggi.
Avete provato a usare i fertilizzanti artificiali?
Tenakoon: Certo, sono costretto perché negli ultimi anni ho coltivato
riso ibrido che esige fertilizzanti chimici.
Che effetti ha sul riso?
Tenakoon: Indebolisce le piantine e attira i parassiti, questo ci
costringe a usare sempre più insetticidi.
In media prima producevate più riso di oggi?
Tenakoon: Ho 4000 metri di risaia. Nelle annate molto buone
produce 36 quintali di riso. La mia famiglia ha bisogno di 27
quintali di riso ogni anno, perciò in un’annata buona riesco ad
ottenere una discreta eccedenza. Il problema è che stiamo diventando
sempre meno autosufficienti e per vivere ci occorre una
quantità sempre maggiore di scorte. Forse mio padre produceva
meno riso di me, ma poteva essere sicuro di produrne abbastanza
per i suoi bisogni annuali perché seminava tante varietà. Ciascuna
di queste varietà, oltre a garantire la salute del terreno, era meno
Thailandia. Donna prepara le piantine per il trapianto del riso sotto gli occhi del suo bambino
vulnerabile alle condizioni estreme rispetto alla varietà ibrida che
usiamo oggi.
Quanto duravano le varietà tradizionali?
Tenakoon: Almeno tre anni. Il riso ibrido non dura così tanto, se
lo si lascia in magazzino ammuffisce dopo un paio di mesi.
Gunasekara: Ricordo mio padre rimproverare mia madre perché
cucinava in casa il riso nuovo quando c’era ancora in magazzino il
riso di tre anni prima. Penso che fosse importante anche il metodo
di conservazione. Il riso era riposto in larghi vasi di terracotta tenuti
su stalli, in modo che i ratti non potessero entrarci. La terracotta
è porosa e il riso era mantenuto areato e fresco. Il contenitore
era pieno di strati di foglie di limetta e di kara che servivano da
repellenti per possibili parassiti. Sono certo che la ragione per cui
gli ibridi moderni non si conservano bene è che hanno un contenuto
d’acqua molto più alto. Se si usano fertilizzanti artificiali il
peso del prodotto aumenta, ma questo è in gran parte dovuto al
contenuto in acqua. Se si asciuga il prodotto, si scopre che il peso
è molto simile a quello che si otteneva senza l’uso di fertilizzanti.
In Europa due studi hanno dimostrato che i problemi di conservazione
sono in gran parte dovuti a questo aumento in contenuto
d’acqua. Uno di questi studi è stato svolto nell’Università del Sussex
dall’Institute of Development, l’altro dall’UNEP.
Tenakoon: Il riso ibrido non sa di nulla, la farina che ne ricaviamo
ha lo stesso sapore della farina di grano. Per tutte queste ragioni
e per molte altre ancora, ho deciso di smettere di seminare il riso
ibrido per tornare alle vecchie varietà. Il problema è ritrovare il
seme, ma sto riunendo tutti i contadini locali che ci aiuteranno a
tornare al sistema agricolo tradizionale. Il vecchio sistema ha anche
un altro vantaggio, ci aveva abituati a produrre tanti cibi che
non possiamo fare più.
Quali?
Tenakoon: Per cominciare andavamo nella giungla a raccogliere
molte cose da mangiare come il Baulu, la Weera, il frutto del Jak,
l’Himbutu, la pera selvatica, l’avocado ecc. Ora la giungla è stata
rasa al suolo e questi alimenti non ci sono più. Dobbiamo cercare
di far ricrescere la giungla. Pescavamo anche molti tipi di pesci
nei ruscelli, negli stagni e nelle risaie. Alcuni di questi pesci come
il Lula, il Kawaiaya, l’Hadaya e l’Ara, riuscivano a sopravvivere
anche negli stagni asciutti. Almeno in questa zona sono scomparsi
quasi tutti, alcuni mangiati dalla Tillapia portata qui dall’Africa
Sri Lanka. Campi terrazzati di riso
e impostaci dal governo. Altri, specialmente quelli che vivevano
nelle risaie, sono stati avvelenati dai pesticidi. Dato che non ci
sono più pesci, le larve delle zanzare che trasmettono la malaria riescono
ora a sopravvivere alla stagione asciutta. Di conseguenza la
malaria è diventata un problema molto più serio che in passato.
Anche il Lula, che popolava gli stagni, era per noi di grande
valore perché favoriva la formazione del sangue, motivo per il
quale lo davamo da mangiare alle gestanti. Ottenevamo anche altri
pesci dagli stagni: il Lorale, il Petiya, il Hirikanaya, il Walaya,
l’Anda e l’Ankutta. Adesso c’è solo la Tillapia, non è male, ma non
sostituisce tutte le specie tradizionali, ognuna delle quali aveva un
suo uso particolare. Il cambiamento ha indubbiamente impoverito
la nostra dieta e anche la nostra vita.
Quali altri alimenti ricavavate?
Tenakoon: Dagli stagni ottenevamo molta verdura. Si coltivavano
le patate di loto e facevamo la farina con le radici di Kaketi che
crescevano naturalmente. Ma non dobbiamo nemmeno dimenticare
gli orti che producevamo manghi, banani, noci di cocco, il
frutto di Jak, il pepe e alcune verdure particolari come fagioli e
germogli di fagiolini.
Dalla coltivazione chena o coltivazione taglia e brucia, si ottenevano
il miglio e altri tipi di granaglie. Le colture erano situate
sulle colline non adatte per le risaie. Ogni famiglia coltivava da
2000 a 4000 metri quadrati di terreno, ma la proprietà non era
privata. I campi erano coltivati per qualche anno e poi abbandonati
per i 10-14 anni successivi. Negli anni recenti, l’aumento
della popolazione ha portato alla riduzione dei tempi di rotazione
(quattro o cinque anni), questo non permette alla giungla di recuperare
pienamente e favorisce il processo di erosione.
Sembra che tutte le piante alimentari della tradizione avessero anche
usi medicinali. Qual era il rimedio utilizzato per la malaria?
Tenakoon: Ne avevamo uno molto efficace. Usavamo la banja o
ganja, cioè la marijuana. Era una delle nostre medicine più importanti
e per questo motivo era chiamata «la foglia che può vincere
il mondo intero» tanto erano grandi i suoi usi medicinali. La riducevamo
in polvere e la bollivamo come the. Non solo era efficace
contro la malaria, ma anche contro i vermi. La prendevamo
spesso insieme ad altri alimenti perché riduceva il tempo del loro
assorbimento da parte del sangue. Il miele ha lo stesso effetto.
Gunasekara: Robert Knox, l’inglese che è naufragato in Sri Lanka
nel 1500 e ha passato 17 anni qui come prigioniero del re, si
riferì alla banja come cura per la malaria nel suo libro Account of
Ceylon. La pianta era chiamata «il governatore di tre mondi».
Usate ancora la ganja per scopi medicinali?
Tenakoon: No, oggi è vietato dal governo.
Si dice che si può aumentare la produzione trapiantando le piantine
di riso quando hanno appena germinato, avete provato a
farlo?
Tenakoon: Il governo cerca di imporcelo. Hanno imparato questa
tecnica dai giapponesi. In alcune regioni del Giappone, una
gelata annuale che dura fino a tre settimane, costringe a seminare
le piantine in serra per trapiantarle successivamente nelle risaie.
Nel nostro territorio la piantina dopo il trapianto si ammala e ci
impiega due settimane per recuperare. L’unico modo per superare
questa fase di indebolimento è usare i fertilizzanti artificiali per
aiutarla a crescere e gli antiparassitari per proteggerla dai parassiti.
Il trapianto, inoltre, ci prende molto tempo, il che interferisce
con le altre attività. Il governo sostiene che con i moderni metodi
colturali si possano ottenere tre raccolti invece degli attuali due,
ma anche questo ostacolerebbe quasi tutte le altre attività, compresa
la nostra vita sociale.
Avete provato a usare un trattore?
Tenakoon: Io no, ma molti contadini sì. Non è buono come il bufalo.
Un paio di bufali pesa circa 2000 libbre. I loro piedi hanno
la forma giusta per pressare e rimescolare il suolo della risaia. Il
bufalo, inoltre, produce circa 1500 libbre di letame l’anno e una
grande quantità di orina, ambedue contribuiscono molto significativamente
alla fertilità del terreno.
Il trattore, invece, è troppo pesante per la risaia. Dove passa
rompe lo strato impermeabile facendo penetrare l’acqua nel
sottosuolo, questo implica la necessità di una quantità d’acqua
Filippine. Lavorazione in risaia con il bufalo
superiore che, specialmente oggi, è improbabile che sia disponibile.
Inoltre, capovolge il terreno facendo venire a galla la sostanza
organica che si perde nell’acqua di allagamento. L’uso del
trattore non solo non contribuisce alla fertilità del terreno, ma la
diminuisce. Certo fa risparmiar tempo, ma la mia professione è
l’agricoltore, il che vuol dire che devo stare nei campi, è la mia
vita.
Non voglio stare a dormire tutto il giorno e nemmeno passare
il tempo a chiacchierare con i miei vicini. In ogni caso, che senso
ha risparmiare lavoro in un paese che ha un tasso di disoccupazione
così alto? In passato le tecniche per guadagnar tempo avevano
ancora meno senso, la famiglia e la comunità erano intatte e c’era
sempre abbastanza gente per l’aratura, la semina, la mietitura e la
manutenzione degli stagni.
Senanayake: Se non avessero cooperato in quel modo, gli stagni
non sarebbero mai esistiti, così come le civiltà di Anuradapura e
Pollonaruwa.
Il governo non sta cercando di restaurare il vecchio sistema d’irrigazione?
Senanayake: Hanno restaurato un certo numero di stagni con gli
aiuti della Banca Mondiale, ma solo quelli grandi e non basta. I
grandi stagni servono solo se quelli piccoli dei villaggi funzionano,
ma questi sono per lo più interrati.
È competenza del Dipartimento dell’Irrigazione fare la manutenzione,
ma non possono essere conservati da una burocrazia.
Quando la struttura sociale del villaggio crolla, gli stagni non possono
che interrarsi e restare tali. Se vogliamo restaurare la nostra
agricoltura tradizionale, dobbiamo prima restaurare la vita sociale
e la cultura che l’avevano fatta sorgere, senza la quale non può
essere gestita.
Tenakoon: Sono completamente d’accordo. Non sono gli stagni
che devono essere restaurati, ma tutto il sistema di coltivazione.
Avevamo cinque tipi di stagni e ognuno assolveva una specifica
funzione. Lo stagno della foresta, scavato nella giungla sopra al villaggio,
non serviva per l’irrigazione, ma per dare acqua da bere agli
animali selvatici. Sapevano che era per loro, lo avevano imparato
in migliaia di anni, in questo modo non venivano nei villaggi in
cerca d’acqua e non interferivano con le nostre attività agricole.
Lo stagno di montagna serviva per l’acqua destinata alla coltura
chena. Altri stagni minori, chiamati Pota Wetiye, controllavano
l’erosione e fungevano da depositi di limo, impedendo che
questo finisse nei serbatoi di stoccaggio dell’acqua. I serbatoi di
stoccaggio, chiamati gemelli, erano in coppia. Usati uno alla volta
per permettere una pulizia continua, erano collegati a un gran
numero di serbatoi del villaggio.
Senanayake: Questi serbatoi giocavano un ruolo essenziale nella
vita rurale tradizionale. Immaginare un villaggio nella zona asciutta
senza un serbatoio dell’acqua, era come immaginarlo senza il
tempio o senza risaie. Di fatto i tre elementi fondamentali del
villaggio erano il tempio (dagoba), la risaia (cumbura) e lo stagno
o serbatoio (wewa).
Com’era il villaggio tradizionale?
Tenakoon: Le case erano costruite una accanto all’altra. In questo
modo occupavano il meno possibile di terra preziosa. Questa
situazione favoriva l’essenziale cooperazione fra gli abitanti del
villaggio. Per esempio, una sola donna poteva custodire contemporaneamente
i bambini di diversi vicini. La collaborazione è essenziale
quando è necessario il massimo numero di persone nei
campi per la mietitura o la manutenzione degli invasi d’acqua.
Com’era organizzata la manutenzione degli stagni d’acqua?
Tenakoon: Faceva parte del servizio Rajakari che era dovuto al re.
Ciascuno doveva fare questo servizio 40 giorni ogni anno. Non
aveva lo scopo di servire i propri capricci o voglie. Era un lavoro
da fare nell’interesse della comunità intera.
Senanayake: Naturalmente gli inglesi fraintesero l’intero principio
del Rajakari considerandolo una reliquia del passato feudale
e lo abolirono.
Fu una delle cose più distruttive mai fatte dagli inglesi. Distrussero
in questo paese il principio stesso della cooperazione.
Fortunatamente non fu abolito completamente, ma restò a indugiare
in una forma rudimentale.
Gli abitanti dei villaggi continuarono a lavorare 14 giorni l’anno
per il bene comune, una tradizione che è stata soppressa definitivamente
nel 1970 dal Dipartimento dell’Irrigazione. I burocrati
non tollerano nessun lavoro di cooperazione tra gli abitanti
perché questo riduce la necessità dei loro servizi. Naturalmente,
adesso che è loro competenza provvedere alla manutenzione degli
stagni e dei serbatoi d’acqua, non fanno nulla.
Da tutto quello che mi avete detto si deve concludere che voi
rifiutate l’intero pacchetto dell’agricoltura tecnologica occidentale?
Tenakoon: Lo rifiuto.
Preferireste essere un contadino tradizionale della vecchia
scuola?
Tenakoon: Lo preferirei, ma tutto è fatto per rendere questo il più
difficile possibile. Agli occhi delle istituzioni sono un miserabile
perché pratico un’«agricoltura di sussistenza» e sono un ignorante
perché non sono stato sottoposto a un’educazione occidentale.
Tutte le mie conoscenze, in particolare le tradizioni e la cultura
del mio popolo, non contano nulla. Sono perfino considerato un
disoccupato perché non faccio parte dell’economia ufficiale e do
uno scarso contributo al funzionamento del mercato. Mi hanno
perfino detto che sono un mendicante.
Senanayake: Tutto questo cambierà presto, diventerai un modello
e i nostri giovani verranno in massa per imparare da te le nostre
tradizioni. Dovrà essere così, perché le attuali tendenze non sono
sostenibili. Il problema è sfuggito di mano. Il taglio della giungla
per far posto alle piantagioni sta provocando sia un grande aumento
nell’erosione del terreno che la contaminazione delle vasche
per l’acqua, in un modo che non ha precedenti. Non c’è più
nessuno che faccia la manutenzione di questi bacini antierosione,
né dei serbatoi gemelli né di quelli dei villaggi. Nel frattempo tutti
si trasferiscono in città. Colombo adesso ha grandi baraccopoli
che non esistevano in passato. Se la tendenza attuale continua,
somiglierà presto a Calcutta. La gente sta diventando sempre più
dipendente dall’economia moderna per la sua alimentazione e i
prezzi salgono molto velocemente. Al Governo non interessa dar
da mangiare alla gente, se gli interessasse non userebbe metà della
nostra terra per realizzare prodotti commerciali per l’esportazione,
ma restaurerebbe invece il sistema agricolo del passato. Il tentativo
di trasformare questo paese in una versione tropicale delle
nazioni industriali dell’Occidente è un suicidio: può solo portare
malnutrizione e carestia. Tutto ciò nello Sri Lanka che dovrebbe
essere, com’è stata in passato, «una terra di latte e miele».

Tratto da The Ecologist, Vol. 12, n. 5, 1982, pp. 209-216.commerciali.