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Il rinascimento dell’agricoltura guida la crescita dei beni e la decrescita delle merci e dei rifiut

di Maurizio Pallante - 20/11/2008



Solo la diminuzione della produzione di merci che non sono beni
e l’aumento della produzione di beni che non sono merci consentono
di ridurre il consumo della natura e la produzione di rifiuti,
l’inquinamento e l’effetto serra. Solo la decrescita consente di
realizzare una più equa distribuzione delle ricchezze della terra
tra i popoli e di valorizzare le differenze culturali che li caratterizzano,
eliminando le cause che costringono, o convincono, masse
crescenti di poveri a lasciare le proprie terre. Ma se è impossibile
pensare che chi governa l’economia, la finanza, la politica e la
comunicazione a livello mondiale possa fare una scelta del genere,
chiunque può dare un contributo attivo in questa direzione
con le proprie scelte di vita, con la costruzione di rapporti sociali
fondati sulla collaborazione anziché sulla competizione, con un
impegno politico adeguato nella propria realtà locale. Per piccolo
che sia, i suoi effetti si moltiplicano e si propagano ben più di
quanto si possa credere. È capace di realizzare nei fatti fenomeni
analoghi a quello teoricamente descritto dall’apologo sul battito
d’ali d’una farfalla che può mettere in moto una catena d’eventi in
grado di scatenare, dopo un lungo intervallo di tempo, un uragano
dall’altra parte del mondo. La somma dei battiti d’ali di tante
farfalle può dare esiti di portata imprevedibile.
Uno stile di vita improntato alla decrescita contrasta
i processi che costringono e convincono a emigrare.
Chi mangia frutta e verdura di stagione, autoprodotta in un orto
urbano, nel giardino o sul balcone di casa, o comprata da un contadino
vicino, meglio se tramite un gruppo d’acquisto solidale,
si nutre in maniera più sana spendendo meno di chi l’acquista
al supermercato. Contestualmente innesca una serie di processi
sociali, economici ed ecologici di grande portata. Contribuisce a
ridurre il consumo di fonti fossili nel settore dei trasporti, il numero
dei camion che intasano le strade, l’effetto serra, i fatturati
delle società monopolistiche multinazionali della grande distribuzione
e del settore agroalimentare.
La diminuzione dei fatturati della grande distribuzione accresce
le quote di mercato e i redditi dei piccoli produttori agricoli
del nord del mondo, intaccando la causa principale che li costringe
a emigrare nelle città. La diminuzione dei fatturati delle società
monopolistiche […] agroalimentari frena la loro espansione territoriale
che sta distruggendo le foreste e i piccoli contadini del
sud del mondo che, se continuano a ricavare da vivere nelle loro
terre, non sono costretti a diventare braccianti o a emigrare nelle
periferie delle megalopoli del sud del mondo e nei paesi del nord
[...]. Le filiere corte, l’autoproduzione e il consumo di prodotti di
stagione consentono di evitare, o diminuire, l’uso di prodotti di
sintesi nell’agricoltura e nella conservazione dei cibi, a vantaggio
della salute umana, della fertilità dei suoli, del ciclo dell’acqua;
a svantaggio delle multinazionali monopolistiche della chimica e
dei prodotti farmaceutici. La valorizzazione dell’autoproduzione
e della produzione contadina di beni in sostituzione dell’acquisto
di merci intacca infine il dogma fondante della crescita, dimostrando
che non sempre comporta miglioramenti della qualità
della vita, mentre invece la decrescita è in grado di consentirli.
Fare il bracciante agricolo nella piantagione di banane di una
multinazionale e spargere veleni in cambio di un salario di sussistenza
è meglio che essere disoccupato, ma peggio che lavorare
un fazzoletto di terra sufficiente a produrre, in modo sano e senza
dipendenza dal mercato industriale, il cibo per la propria famiglia
e un po’ di eccedenze da vendere per ricavare il denaro necessario
a comprare ciò che non si produce da sé. Guadagnare un
salario come badante di una persona anziana non autosufficiente
dall’altra parte dell’oceano e dell’equatore è meglio che non avere
reddito, ma peggio che lavorare per la sussistenza della propria
famiglia e dare assistenza ai propri genitori quando diventano
vecchi.
Chi acquista al supermercato frutta esotica in ogni stagione
dell’anno sostiene le società monopolistiche multinazionali del
settore agroalimentare, la loro posizione dominante nei paesi del
sud del mondo, l’esproprio delle terre dei contadini poveri, la
loro trasformazione in salariati agricoli e il loro supersfruttamento,
il loro sradicamento dalla terra in cui sono nati per andare in
cerca di redditi altrove. C’è uno stretto legame tra la frutta che
mette a tavola e la baraccopoli che si vede dalle finestre di casa
sua. Tra il tempo che passa in un luogo di lavoro alienante dove
guadagna il denaro necessario a comprarla in un centro commerciale
e il suo bisogno di badanti per assistere i genitori a cui non
gli resta tempo da dedicare.
La valorizzazione delle economie fondate prevalentemente
sull’uso delle risorse locali e sulle filiere corte (nell’agricoltura,
nelle costruzioni, nell’energia, nelle produzioni artigianali), dove
l’autoproduzione di beni mantiene un ruolo non marginale e gli
scambi commerciali si limitano a quanto non può essere più vantaggiosamente
autoprodotto, capovolge culturalmente il rapporto
tra nord e sud del mondo. Non è più il Nord, che ha esteso progressivamente
la mercificazione a tutti gli aspetti della vita umana
e ridotto il mondo a un unico grande mercato attraverso la globalizzazione,
ad avere il ruolo di modello da imitare per uscire dalla
miseria e raggiungere l’abbondanza, ma il Sud, dove sono sopravvissute
la cultura, il sapere e il saper fare necessari a ricavare con
misura dai luoghi in cui si vive ciò che è necessario per vivere, a
indicare l’unica strada possibile per invertire la tendenza che sta
portando l’umanità all’autodistruzione insita in un processo che,
avendo posto la crescita infinita a scopo delle attività produttive,
non può non andare a schiantarsi contro i limiti della natura
e già vi si sta schiantando. Naturalmente ciò non significa che i
paesi industrializzati debbano riorganizzare le loro economie sul
modello dei paesi del sud del mondo, ma che nelle economie di
quei paesi sono rimasti un sistema di valori e una concezione del
lavoro in grado di consentire un uso e uno sviluppo delle tecnologie
industriali più ragionevole, più vantaggioso, meno inquinante,
più rispettoso dei cicli e dei ritmi della natura.
Il rinascimento della campagna guida la riscoperta del sapere
e del saper fare necessari all’autoproduzione di beni per autoconsumo,
degli scambi non mercantili fondati sul dono e la reciprocità,
della dimensione comunitaria, della lentezza e della misura, la
sostituzione di un fare finalizzato a fare sempre di più con un fare
bene finalizzato alla contemplazione, consentono ai gruppi umani
di mantenere un rapporto equilibrato con gli ambienti in cui
vivono perché non richiedono un consumo crescente di risorse,
non generano quantità crescenti di rifiuti, non comportano la necessità
di utilizzare quantità crescenti di energia. Se si coltiva un
pezzo di terra per ricavarne i generi alimentari necessari a coprire
il fabbisogno della propria famiglia, produrne più di quanti se ne
consumano direttamente o se ne possono vendere in un mercato
locale è solo una fatica inutile. Se, invece, si coltiva per vendere
ciò che si produce e guadagnare il denaro necessario a comprare
le merci offerte dal mercato, ci si propone di far crescere progressivamente
le rese per ettaro e ridurre i costi di produzione, usan270
do protesi chimiche, energetiche e meccaniche in sostituzione del
lavoro umano. Se si coltiva per l’autoconsumo e l’autosufficienza
regionale non si affatica la terra forzandola a superprodurre o a
produrre fuori stagione, né si inquinano gli ambienti da cui si trae
il proprio sostentamento. Il lavoro umano si connota come cura
dei luoghi in cui si vive e da cui si ricavano i beni necessari a vivere.
Se, invece, si producono merci da vendere per ricavare il denaro
necessario ad acquistare le merci di cui si ha bisogno al posto
dei beni che non si autoproducono più, il legame col territorio si
rompe e il lavoro perde la sua connotazione di cura. Diventa lo
strumento per ottenere un reddito monetario, indipendentemente
dall’utilità di ciò che si fa o dai danni che crea. Le economie
prevalentemente di sussistenza hanno capacità di futuro. Le economie
finalizzate alla crescita del pil rendono sempre più grave la
crisi ambientale planetaria avvicinandola progressivamente a un
esito finale in cui comincia a delinearsi la possibilità dell’estinzione
della specie umana. Non hanno futuro.
Poiché per ottenere una proteina animale sono necessarie almeno
10 proteine vegetali, chi elimina la carne dalla sua dieta, o
ne riduce il consumo, contribuisce a ridurre l’entità della superficie
terrestre coltivata per alimentare i bovini, che attualmente ammonta
a oltre un terzo di tutti i terreni agricoli. Di conseguenza si
ridurrebbe la necessità di abbattere le foreste per ricavare nuovi
pascoli e di allontanare più o meno forzosamente i piccoli contadini
dalle terre che coltivano per autoconsumo, costringendoli a
emigrare. Ma non è tutto. Per produrre un chilo di carne di manzo
occorrono 16 litri di petrolio e 10.000 litri d’acqua. Chi adotta
una dieta prevalentemente vegetariana, oltre a guadagnarci in
salute e in denaro, contribuisce a ridurre le emissioni di anidride
carbonica in atmosfera e a rendere disponibili maggiori quantità
di acqua per l’agricoltura di sussistenza, consentendole di soddisfare
meglio il fabbisogno alimentare e di aumentare i redditi
monetari di chi la pratica. C’è uno stretto legame tra la quantità
di carne che si mette in tavola, la quantità delle medicine di cui
si ha bisogno, i flussi migratori e la sofferenza di quanti vengono
sradicati dal loro mondo.
Chi ristruttura la sua casa coibentandola per ridurre le dispersioni
energetiche, fa in modo che nel suo condominio si paghi il
riscaldamento a consumo, applica valvole termostatiche ai termosifoni,
installa infissi con doppi vetri evoluti, d’inverno indossa
una maglia di lana in casa, utilizza elettrodomestici e lampade
ad alta efficienza, installa fonti rinnovabili, si sposta con i mezzi
pubblici, può ridurre almeno dei due terzi i propri consumi energetici,
riducendo il proprio contributo all’effetto serra, i profitti
delle multinazionali dell’energia e la motivazione di fondo delle
guerre per il controllo delle fonti energetiche fossili che hanno insanguinato
il secolo scorso e questo inizio di secolo. Le guerre, sia
per il terrore che scatenano tra la popolazione civile, sia perché
le impediscono di continuare a procurarsi regolarmente il cibo,
sono uno dei principali fattori delle migrazioni forzate dai paesi
del sud ai paesi del nord del mondo. C’è uno stretto legame tra la
dipendenza assoluta dalle fonti fossili, l’uso dissipativo dell’energia
nella propria casa e la prostituzione nelle vie su cui si affacciano
le sue finestre, e il senso d’insicurezza con cui si percorrono
tornando dal lavoro alla sera.
Se gli incrementi di produttività si traducessero in riduzione
dell’orario di lavoro anziché in aumento della produzione di merci
da trasformare sempre più rapidamente in rifiuti, si ridurrebbe
la necessità di manodopera straniera nei paesi ricchi del nord del
mondo, ma si ridurrebbe anche il loro fabbisogno di risorse. Aumenterebbe
pertanto la quota disponibile per creare occupazione
nei paesi poveri, per cui le persone in età di lavoro non sarebbero
incentivate a emigrare, ma potrebbero mettere la loro forza e le
loro capacità professionali a servizio del proprio paese. Le misure
governative finalizzate a contrastare la riduzione dell’orario di
lavoro e a incentivare la possibilità di continuare a lavorare anche
dopo aver raggiunto l’età della pensione, accentuano il divario tra
paesi poveri e paesi ricchi e contribuiscono ad accrescere i flussi
migratori. La riduzione dell’orario di lavoro consentirebbe inoltre
di dedicare più tempo all’autoproduzione di beni e alle relazioni
interpersonali, a partire da quelle familiari, riducendo la necessità
di acquistare dalle strutture pubbliche (ospizi, asili nido) o da
privati (badanti, baby sitter) i molti servizi alla persona.
Uno stile di vita non omologato sui modelli consumistici, oltre
a migliorare la qualità della vita di chi lo pratica, può contribuire
a rimuovere le cause che inducono a emigrare in misura superiore
a quanto comunemente si pensi, ma non basta se non è accompagnato
da un analogo impegno a livello politico. Chi si propone di
ridurre il proprio consumo di merci che non sono beni e di aumentare
l’uso di beni che non sono merci, non può non proporsi
l’obbiettivo che il comune in cui vive faccia altrettanto, aumentando
l’efficienza energetica dei propri edifici e utilizzando fonti
rinnovabili per soddisfare il fabbisogno residuo, deliberando
un allegato energetico al regolamento edilizio che non consenta
di costruire o ristrutturare gli edifici privati se consumano più
di 70 kWh al metro quadrato all’anno, imponendo il recupero
delle acque piovane e non consentendo di usare acqua potabile
negli sciacquoni dei gabinetti, disincentivando l’uso di stoviglie
di plastica negli esercizi pubblici, acquistando prodotti biologici
a filiera corta per le mense di sua competenza, bloccando
l’espansione edilizia, incentivando la ristrutturazione energetica
degli edifici esistenti, recuperando le maggiori quantità possibili
di materie prime secondarie dai rifiuti urbani, potenziando i
trasporti pubblici e ponendo limitazioni al traffico privato. Un
impegno di questo genere, che si può attuare promuovendo forme
di coinvolgimento della società civile nella gestione della cosa
pubblica, o costituendo liste civiche in caso di chiusura da parte
delle assemblee elettive, può diventare il riferimento politico per
quella parte crescente dell’elettorato che non si riconosce più nelle
strutture oligarchiche dei partiti e nelle due varianti, sempre
meno differenziate, della destra e della sinistra, assunte dall’ideologia
della crescita.
Chi considerasse queste proposte utopiche, o capaci di coinvolgere
soltanto frange limitate di persone perché indietro non
si torna, farebbe bene a pensare che verranno comunque imposte
dalla riduzione della disponibilità e dagli aumenti dei prezzi
del petrolio. Se per l’ideologia della crescita questa prospettiva
è terrorizzante, a chi è capace di liberarsi da questa camicia di
forza mentale appare come una eccezionale opportunità, come
un aiuto insperato e immeritato offerto dalla Terra ai popoli dei
paesi industrializzati per indurli a compiere scelte di saggezza e
salvezza che altrimenti non sarebbero capaci di fare. Se solo un
Dio ormai ci può salvare, come riteneva Heidegger, questo è il
segno che si è mosso a compassione della specie umana.