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Manifesto ecofondamentalista

di Sergio Cabras - 22/11/2008

Fonte: ecofondamentalista



La situazione attuale dell'umanità, e del pianeta a causa di essa, è in una fase decisiva, così critica da poter ritenere che se non ci sarà quanto prima un generalizzato scatto di consapevolezza e di comportamenti pratici conseguenti, il prossimo futuro sarà realmente catastrofico con esiti e conseguenze imprevedibili. Questo inoltre, e paradossalmente, avverrebbe proprio nel periodo della storia dell'umanità in cui questa avrebbe potenzialmente avuto forse le migliori condizioni materiali e conoscitive per risolvere i propri problemi e permettere alla generalità delle persone sul pianeta una vita quantomeno un po' più facile che in passato. Le conseguenze catastrofiche della presente situazione, per colmo di ingiustizia, hanno spesso come prime vittime, coloro che meno hanno responsabilità quanto alle loro cause.
Con ogni probabilità non ci sarà alcuna svolta di consapevolezza e di comportamento reale abbastanza generalizzata da essere significativa prima che le prime conseguenze catastrofiche veramente pesanti non cominceranno ad avvenire con tragedie di proporzioni mondiali tali da spaventare profondamente la generalità delle persone e coinvolgere un basilare istinto di sopravvivenza nella ricerca concreta di una alternativa. Ma sia oggi - per chi già la va costruendo - sia allora - quando sarà una necessità assoluta - saranno i comportamenti pratici di ognuno di noi l'unica cosa che davvero potrà fare la differenza perché sono i fatti materiali, economici, strutturali e non altro ciò che crea la forma del mondo che l'uomo trasforma per sé stesso, e in questo Marx aveva ragione: se non passano per i fatti, e i fatti strutturali, le chiacchiere stanno a zero.
Ma è altrettanto vero che le forme che gli esseri umani danno alle soluzioni che trovano alle proprie necessità materiali, fra le varie possibili, sono quelle che sorgono - in rapporto alle oggettive condizioni materiali - dalla propria immaginazione, dal proprio spirito, dalla propria consapevolezza, dalla propria condizione psicoenergetica, relazionale e così via……. e rispetto a questo Marx - e con lui tutti i materialisti - era completamente cieco.
Non troveremo mai il modo alla lunga corretto di rapportarci al mondo senza anche guardare dentro noi stessi.
Guardare al mondo e a noi stessi sul piano intellettuale significa elaborarne una visione, una consapevolezza della realtà e tracciarne una definizione teorica che ci si avvicini il più possibile.
Questo significa elaborare una welthanshauung e delle linee guida per una prassi conseguente, una filosofia e un'etica dunque, in una parola un pensiero forte del quale credo ormai ci sia, di nuovo, quantomai bisogno.
Se, dunque, saranno solo i fatti, i comportamenti pratici, a cambiare la realtà, questi comportamenti saranno difficili, scomodi da adottare, e ci vorrà una forte motivazione, una profonda convinzione per farlo, soprattutto per farlo quando ancora non sarà la paura, il puro e semplice panico a muoverci.
Perché la nostra direzione non sia solo una tardiva fuga ma la costruzione di una alternativa, abbiamo bisogno oggi di chiarezza, di una visione del mondo, di un pensiero forte che sia alla base delle nostre scelte: forse non ci dirà comunque dove andremo, ma ci dirà da dove siamo partiti nel senso che ci darà la consapevolezza della base su cui ci sosteniamo: una cosa molto utile per procedere in ogni singolo prossimo passo.

Questo pensiero forte - che cercherò di argomentare e di esprimere rispetto a varie questioni e da molteplici punti di vista - deve necessariamente porsi come un radicale superamento di ogni concetto di destra e di sinistra, dato il manifesto fallimento/esaurimento di entrambi i filoni di pensiero. Ma ciò non può essere fatto (come invece mi pare avvenga oggi) con un atteggiamento da 'usa-e-getta' intellettuale per cui si abbandona uno strumento senza averne un altro nuovo e non potendo quindi poi far altro che ricercarne dei surrogati, ma al contrario con la costruzione di una radicalmente altra visione del mondo basata su altre fondamenta e che sappia anche naturalmente comprendere ed integrare gli aspetti della realtà già colti da queste ormai insufficienti prospettive.

Per costruire una descrizione della realtà che ci aiuti ad uscire dalla situazione in cui ci troviamo, dobbiamo lavorare su un piano intellettuale, ma non dobbiamo essere troppo teorici: una visione del mondo ci serve ad affrontare i problemi della realtà dunque dobbiamo partire dalla realtà concreta che ci troviamo di fronte.
Sebbene il male, l'oppressione, la violenza, lo sfruttamento ecc…, siano sempre esistiti presso tutti i popoli e in tutte le epoche, ciò che fa veramente grave la situazione di oggi è che le dimensioni dei problemi che abbiamo di fronte, in qualità e quantità, i meccanismi in gioco e le conseguenze che ci minacciano sono fuori misura rispetto a tutto ciò che è avvenuto prima nella storia dell'umanità. Questo è ciò che fa sì che le questioni in gioco oggi non coinvolgano solo il destino di questo o quel popolo, ma coinvolgano il pianeta intero e l'umanità tutta tanto da rendere evidente quanto il nodo di fondo sia proprio il posto di essa al suo interno.
In tutta la storia premoderna tutto il male che gli esseri umani potevano fare a sé stessi e agli altri esseri umani e non e all'ambiente, per tremendo che fosse, rimaneva entro limiti 'ecocompatibili' nel senso che non coinvolgeva - e non poteva neanche potenzialmente coinvolgere per i mezzi ed i meccanismi che metteva in atto - irreversibilmente la totalità del pianeta o anche solo dell'umanità.
Solo oggi si presenta una tale situazione e ciò avviene in un'epoca dominata da meccanismi economici, tecnologici e culturali che hanno avuto origine nell'Occidente moderno - anche se ormai si estendono e vengono vieppiù fatti propri anche altrove in una modernità contemporanea che non è più solo occidentale.
E allora qual è il cuore di ciò che è avvenuto in questa invenzione occidentale della modernità (che ha , tra l'altro, tra le sue vittime, lo stesso occidente tradizionale)?

La modernità, invenzione dell'Occidente, è il compimento definitivo dell'homo nominans, del modo di rapportarsi dell'essere umano al mondo attraverso il linguaggio ovvero il compimento dell'illusione che questo utile, indispensabile strumento immateriale sia la realtà stessa, il più completo assorbimento mai realizzatosi nella creazione umana del mondo come (pseudo) realtà culturale.
Avendo l'uomo, attraverso i concetti (che sono una essenzializzazione del linguaggio) e il pensiero razionale, liberato sé stesso da quanto di ignoto e indefinibile percepiva (con un misto di rispetto e di paura - e di senso del sacro) nell'universo mondo, ha potuto, a partire da questi 'mattoni' concettuali, costruirsi il suo mondo, fatto a propria misura, e chiamarlo realtà. Ha potuto credere che questa sola sia la realtà e, avendo avuto successo nei moltissimi e stupefacenti risultati tecnologici che sono scaturiti da questa profonda rivoluzione conoscitiva e che hanno completamente cambiato la sua esistenza, ha dimenticato perfino la possibilità che ciò che dà realtà e senso a questa sua esistenza si trovi al di là del suo controllo.
Per l' homo nominans ciò sarebbe inconcepibile: sarebbe come dire che il fondamento di sé stesso è estraneo a sé stesso ovvero che è al di là della sua possibilità di nominarlo, quindi di definirlo, di conoscerlo, di controllarlo, di manipolarlo. Noi stessi, in ultima analisi, saremmo fuori dalla portata di noi stessi se da “cogito” non “ergo” più “sum”.
Saremmo quindi nella nostra più vera sostanza riportati al caos di uno stato di natura indefinibile e perciò privo di senso.

E' interessante notare quanto nell'approccio al mondo secondo lo strumento del linguaggio che è appunto un approccio fondamentalmente strumentale, utilitaristico, manipolatorio (invero lo stadio povero dell'evoluzione umana) la mancanza di scopo equivalga ad una mancanza di senso: nel linguaggio comune dire che una cosa non serve a niente è come dire che non ha senso, chiederci qual è lo scopo della vita è chiedersi il senso della vita e dire che non c'è uno scopo nella vita suona come dire che la vita non ha senso e quasi che non ha valore o che non si possa distinguere su una scala di valore tra le azioni che in essa si compiono.
E' interessante notare che non avendo più l'orizzonte religioso dello scopo nell'al di là sempre più si diffondono comportamenti sociali e individuali che sembrano basarsi sul principio che la vita non ha fondamentalmente senso il che rende tutto relativo, ed ogni comportamento e perfino identità individuale indifferentemente libero e in ultima analisi in-significante.
E' interessante notare che alla progressiva incapacità di ognuno di noi nel trovare un senso alla nostra esistenza in quanto tale ovvero nel fatto di per sé di esistere, di essere vivi su questa Terra, corrisponde la nostra quasi totale incapacità (se ci osserviamo bene) di fare una qualsiasi azione (a partire dal sorgere dei nostri pensieri) senza che questa abbia uno scopo - per quanto sottile, per quanto inconscio -, un orizzonte di risultato da raggiungere in positivo o in negativo.
E' interessante notare come a questa progressiva ottimizzazione del nostro saper vivere solo puntando costantemente a degli scopi che diano alle nostre azioni il senso e la prospettiva che non sappiamo trovare nel nostro vivere puro e semplice corrisponda una crescente condizione di caos e di anomia sia in rapporto all'ambiente che al mondo sociale, alla possibilità di valori culturalmente condivisi e al nostro stesso senso di identità individuale. Tale condizione assomiglia in modo paradossalmente convergente al presunto caos dello stato di natura indefinibile e privo di senso in cui l' homo nominans si sarebbe visto sprofondare se avesse dovuto riconoscere il fondamento della propria esistenza in qualcosa al di là del mondo del linguaggio e dei concetti ovvero al di là del proprio controllo.

Non sarà forse perché, comunque la mettiamo, rimane il fatto puro e semplice che la realtà vera, i fondamenti e la sostanza della nostra vita, in ultima analisi sono al di là del nostro controllo, sono al di là della nostra capacità di definirli?
E allora non sarà che, pur riconoscendo fino in fondo l'imprescindibile utilità del linguaggio, del pensiero concettuale e della logica, bisogna pure non dimenticarne la realtà strumentale, convenzionale e sapere che, oltre un certo limite, questi non sono la realtà e che con essi non lo è tutto il mondo che essi creano, il mondo della Cultura?
Il credere alla autentica, definitiva realtà del mondo creato dal linguaggio, dal logos, che ci ha portato contro la Natura e contro noi stessi (che poi sempre la Natura siamo) è una strada senza uscita percorsa nel buio fino a cadere nel precipizio credendo di scalare il cielo.
Ma d'altra parte noi non possiamo fare a meno di teorie e linguaggio per orientarci nel mondo, anche per trovare strade al di là di essi: sono questi gli strumenti che abbiamo, ma possiamo usarli consapevoli dei loro limiti.

Se la società occidentale moderna, si è invischiata in questa illusione e nelle sue conseguenze, se ha ormai trascinato anche il resto del mondo contemporaneo in questa situazione e nei suoi stessi atteggiamenti, possiamo andare a cercare l'ispirazione per una diversa visione del mondo nelle tradizioni e nelle culture non occidentali e/o non moderne, possiamo cercare dei fondamenti in tratti comuni alle forme di vita umana, e anche non, che possiamo ritrovare sostanzialmente in forme analoghe nella generalità dei popoli del mondo ed anche in epoche diverse. Non per ripeterne i modelli, il che sarebbe inadeguato dato che - anche non riconoscendo l'inevitabilità della Storia (come si vedrà più avanti) - il tempo si 'muove' solo in avanti. Ma per cogliere l'intuizione profonda di qualche verità fondamentale che queste forme originariamente ispirava e che può dare ispirazione anche a noi oggi.

L'imperfezione (la non-perfezione, la non-esattezza) delle culture tradizionali, premoderne, ovvero il loro arrestarsi di fronte allo sconosciuto, di fronte al sacro, di fronte al limite, al tabù….. ne ha impedito la liberazione intellettuale ed il ritardo tecnologico che ciò ha comportato le ha condannate alla scomparsa nel momento che son dovute entrare in competizione con altre meglio attrezzate. Inevitabile.
Ma il loro fermarsi davanti al limite del sacro (sebbene possano forse aver collocato questo limite nel punto sbagliato) ci lascia l'insegnamento che questo limite esiste, che il non-conoscibile esiste, che non siamo distaccati dall'Universo di cui facciamo parte con cui siamo una sola cosa nella nostra più fondamentale profonda sostanza - quindi anche qui ed ora - anche se non capiamo come ( non parliamo poi di perché).
Il loro fermarsi davanti al sacro, il loro fondante riconoscimento che esiste il non-conoscibile, il non-manipolabile, il non-controllabile, il qualitativamente più grande di noi ( anche se è da vedere dove/come questo sia) ci insegna che si può vivere e costruire una società ed una cultura, ed arte e musica e filosofia e vite individuali e sociali degne di essere vissute senza dover andare sempre più avanti ed abbattere ogni limite, senza separarci, alienarci radicalmente dalla Natura e l'Universo di cui siamo inevitabilmente parte anche se non capiamo come.
Non capire, ma riconoscere e rispettare, può essere un modo di arrivare a capire al di là delle parole, ma senza restringere la conoscenza allo scopo di farne proprio l'oggetto: si tratta di osservare/praticare la realtà senza focalizzare la propria visione dell'oggetto di conoscenza nei limiti della prospettiva che ha il proprio scopo come punto di fuga.
Non è che dobbiamo smettere di conoscere e di ragionare, niente affatto, ma dobbiamo pure tener presente che le società tradizionali hanno funzionato - e spesso anche bene - per millenni senza chiedersi troppi perché del perché del perché, senza spaccare sempre il capello in quattro mettendo in dubbio qualsiasi cosa, ma imparando attraverso la pratica di stili di vita spesso limitati e ripetitivi ma molto radicati e fondati su condizioni di vita integrate con l'ambiente e la comunità. C'è in questo un apprendimento, una formazione ed una conoscenza che passa attraverso il corpo, l'azione ed il silenzio, vive nell'esperienza e non è comunicabile in modo astratto o solo verbale. Per questo nel trionfo dell'homo nominans questo approccio conoscitivo non è riconosciuto ed è spazzato via, ma attenzione: non è ignoranza, è il contrario: è la conoscenza che ci manca e di cui abbiamo bisogno per trarne la materia con cui costruirci nuove strade, nuove forme praticabili attualmente.
Per cui la welthanshauung, il pensiero forte che ci serve oggi, non è una filosofia soltanto astratta: è una consapevolezza fondata e fondante, ma che viva nel presente delle situazioni concrete della nostra condizione e che cresca nell'esperienza. Deve essere ciò che in-forma un modo di vivere, non solo e non tanto un modo di pensare. Questo significa anche che, legato alla realtà vivente e all'esperienza, questo pensiero non ha bisogno di trattare concetti e definizioni con una rigida esattezza, astratte preoccupazioni di logica formale o pretese di scientificità (1) : deve invece mantenersi su un piano concretamente empirico e, espressione esso stesso della Natura, deve accontentarsi di verità di massima, verità funzionali, dinamiche, che descrivono movimenti, modalità, più che sostanze ed oggetti visti in una presunta misurabile fissità. Nondimeno deve essere un pensiero rigoroso e coerente. Coerente logicamente al proprio interno, ma coerente anche dal punto di vista della praticabilità: non serve se può esser messo in pratica solo dai santi (anche se senza coerenza ci stiamo solo a prendere in giro) e non serve neanche se la stessa persona che lo esprime poi vive in tutto un altro modo (anche se la coerenza assoluta è sempre solo una pretesa teorica e moralista).

Dunque è un altro modo di vivere che ci serve ed una visione che lo fondi e che ci dia la convinzione necessaria per affrontare le difficoltà che comporta il realizzarlo e che ci spieghi perché è così difficile e così necessario. E' con la pratica che si impara e con la pratica che si elabora la teoria. E' con la teoria che si capisce perché e come praticare e si indirizza il proprio sforzo.

Se approfondiamo con attenzione teoricamente e praticamente la realtà della nostra vita, quale che sia, dobbiamo riconoscere che siamo parte della Natura e del pianeta e dell'Universo: ci viviamo dentro e , qualsiasi cosa questo implichi e significhi o meno, non potremmo esistere al di fuori di ciò: se alle nostre idee, giudizi e valori smettiamo di credere, questi scompaiono; le realtà fisiche e biologiche rimangono tali sia che le riconosciamo o meno, anche quelle che avvengono dentro di noi.
La Natura si muove secondo certe leggi, certe forme e tendenze di massima, non rigide, non tali da non consentire anomalie, ma neppure indeterminate o disordinate: c'è un certo ordine e delle modalità ricorrenti - al di là che questo significhi qualcosa o meno e cosa siano queste forme o 'leggi' - , questo è un dato di fatto facilmente riscontrabile, altrimenti non potremmo neppure dare dei nomi alle cose.
Le basi della nostra sopravvivenza e quindi del nostro benessere o meno sono in quelle poche semplici e basilari funzioni e necessità su cui si fonda la nostra vita: mangiare, bere, dormire, espellere i rifiuti organici, proteggersi dalle intemperie, avere una casa o comunque un proprio spazio vitale/territorio, avere una attività energetica sessuo-affettiva soddisfacente, avere una attività creativa qualificante nel lavoro e negli scambi sociali. Queste sono le forme elementari e basilari della nostra vita come esseri umani e al comprendere e realizzare la forma compiuta, equilibrata e soddisfacente di queste sia per quanto riguarda noi stessi che la comunità umana nel suo insieme che il pianeta nel suo insieme dovremmo dedicare in primo luogo il nostro tempo ed i nostri sforzi. Attraverso questo possiamo capire la nostra condizione umana, il nostro posto nella Natura, le nostre caratteristiche personali in rapporto agli altri esseri umani. Attraverso questo possiamo costruire forme di vita individuali e collettive che siano sostenibili e positive nell'ambito della comunità umana in generale e del pianeta.
Facendo questo non c'è bisogno di fare nulla di particolarmente buono per migliorare il mondo o la condizione degli altri, non c'è bisogno di “migliorare noi stessi” cercando di piegarci verso un altruismo ideale che non ci appartiene. E' sufficiente realizzare la propria vita come normali esseri umani tenendo conto di essere parte dell'umanità e del pianeta quindi di avere direttamente interesse a non danneggiarli quantomeno nei limiti del possibile per costruire un mondo realisticamente equilibrato e pacifico senza cadere nell'utopia - con le conseguenze postume della delusione e dello scetticismo. In questo modo il nostro interesse personale e quello generale coincidono. Senza bisogno di giustificarcela troppo filosoficamente, dobbiamo riconoscere il fatto empirico che siamo parte di una realtà più generale e che è nostro interesse vivere in un mondo in cui il benessere da ogni possibile punto di vista sia il più generalizzato possibile, senza per questo diventare dei santi. Il conflitto fa inevitabilmente parte della realtà e in rari casi probabilmente anche la violenza, ma è nostro interesse limitare questi casi al minimo possibile e probabilmente possiamo avvicinarci allo zero e gestire quelli che rimangono in modo corretto.
Riconoscere la nostra fondamentale unità col resto del mondo (sulla base della Natura ovvero di una realtà basilare e di fatto e non di valori culturali o morali che sono contestabili) concilia l'egoismo con l'altruismo e permette di perseguire la forma di vita che è tanto nel massimo del nostro autentico interesse (perché ci realizza come quegli esseri che veramente siamo) quanto nell'interesse generale del mondo (che pure veramente siamo).
Un principio fondamentale in un'ottica ecofondamentalista dunque è pensare, considerare, valutare, vedere le cose da un punto di vista eco-centrico e non antropocentrico tanto nella vita individuale che in quella sociale e politica, economica, legislativa. Questo significa cercare una terza via tra la democrazia liberale e la teocrazia - che sono poi i due poli opposti a cui idealmente tendono oggi o in prospettiva storica i regimi politici nel mondo .
Altro principio altrettanto fondamentale è agire di conseguenza nella propria vita: ciò che si pensa giusto da un punto di vista ecocentrico va praticato e in questo modo compreso a un livello più profondo e in questo modo realizzato. Infatti non deve trattarsi di un'ideologia astratta ed imposta alla realtà artificialmente e su scala di massa, ma deve prender forma in una serie di vite individuali concrete votate alla realizzazione di una nuova forma di vita, vivendo in primo luogo la propria da un punto di vista ecocentrico. E' qualcosa che deve realizzarsi più con lo spirito di una religione che come un'ideologia politica.
Questo ha una enorme serie di conseguenze sul piano economico, politico, sociale, culturale, relazionale, ambientale ecc…
In questa ottica perseguiremo la pratica di una forma di vita e quindi di economia, di lavoro, di tecnologia, di modalità di produzione-consumo che sia il più autenticamente possibile eco/socio-sostenibile e lo faremo anche come una scelta militante in quanto, sebbene lavoreremo concretamente sulle nostre vite, lo faremo con una motivazione che guarda anche al cambiamento della società. Lo faremo attraverso il lavoro e gli altri aspetti della vita, non - almeno non fondamentalmente e/o non in prima istanza - attraverso l'ideologia o con la politica o con la formazione di gruppi, partiti, campagne di propaganda ecc… : ci concentreremo in primo luogo sulle nostre vite quotidiane, le nostre scelte quotidiane, il modo in cui guadagneremo i soldi e il modo in cui li spenderemo, in cui intratterremo i nostri rapporti, in cui terremo il nostro spazio, in cui educheremo i nostri figli. Ma, certo, saremo attenti, consapevoli e conseguenti alla dimensione sociale del nostro agire ed alle sue conseguenze(2). Per cui ci comporteremo in termini di solidarietà e cooperazione da un lato e di boicottaggio dall'altro.
Il boicottaggio è la forma privilegiata di lotta politica: oggi contiamo più come consumatori che come produttori ed il boicottaggio è un'arma formidabile che abbiamo nelle nostre mani. Ma il boicottaggio funziona anche come produttori: la non-collaborazione dovrebbe coinvolgere la nostra vita lavorativa facendoci evitare qualsiasi impiego o professione che ci faccia anche indirettamente partecipi delle attività che distruggono la natura e sfruttano le persone.
Il boicottaggio si può estendere anche alla sfera dei rapporti personali isolando le persone che si comportano in modo dannoso e distruttivo sui vari piani della vita compresa la professione con cui si guadagnano da vivere.
Il boicottaggio è la forma principe della lotta non violenta. La non-violenza va sempre scelta come forma di lotta, almeno nei limiti del possibile, sia perché è in grado di convincere e di attrarre l'appoggio dell'opinione pubblica, sia soprattutto perché la violenza è necessaria quando si vuole fare un salto in avanti ovvero quando la gran parte della popolazione non è pronta a non collaborare col sistema distruttivo. Se invece lo fosse, semplicemente non ci sarebbe bisogno di combattere: basterebbe fermarsi. E se la gente non è pronta, non lo sarà neppure dopo l'eventuale rivoluzione, così non ne accetterà i necessari sacrifici, si renderà necessaria la disciplina, il controllo, la repressione e si finirà in una dittatura peggiore del sistema precedente come è stato infatti il destino di molte rivoluzioni.
La forma principe, sia di boicottaggio che di forma di vita eco/socio/compatibile è la vita neo-contadina in campagna nelle forme possibili che oggi può prendere.
Sebbene per molti questa scelta possa essere eccessivamente difficile e preferiranno puntare su cambiamenti in senso eco/socio/sostenibile più moderati nella propria vita (e le possibilità e i gradi sono tanti), la scelta di vita neo-contadina in campagna è l'obiettivo a cui puntare perché è quello che più che mai toglie definitivamente sostegno al sistema consumista e che più permette di crescere nella consapevolezza pratica del proprio posto nella Natura e realizzarlo. Inoltre chi vive in campagna (e almeno in parte della campagna) è realmente indipendente da questo sistema e si sottrae anche alla vita di città - e le città sono uno degli elementi più distruttivi nella situazione odierna, sia dal punto di vista dell'inquinamento e dei consumi che da quello dello sviluppo e la diffusione di culture, mentalità e stili di vita quantomai insostenibili.

Le città, nel senso delle grandi metropoli, da un punto di vista ecofondamentalista, non dovrebbero esistere affatto costituendo esse un ambiente totalmente artificiale, che produce una cultura dell'artificialità e che pesa terribilmente sull'ambiente in termini di inquinamento e consumi.
Così come molte altre cose oggi imperanti (lo sfruttamento delle multinazionali, l'imperialismo degli USA, l'inquinamento dato dal consumismo, l'omogeneizzazione culturale provocata dai mass media ecc…), le metropoli dovrebbero cessare di esistere. Ma la via ecofondamentalista a questa cessazione non è quella di distruggere: non è antagonista. E' quella di sottrarre il terreno sul quale queste cose poggiano, che siamo noi, la nostra partecipazione, il contributo diretto o indiretto che diamo come lavoratori (a qualsiasi livello ) e/o come consumatori. Sottraiamoci il più possibile a tutto ciò, costruiamoci delle alternative, e queste cose crolleranno da sole mentre nel frattempo già saranno sorti nuovi modi e la capacità umana di metterli in pratica.
Il salto in avanti violento di una rivoluzione non permetterebbe questo: alla fine di questo salto mancherebbe il terreno sotto i piedi e bisognerebbe tornare indietro anche se in modo dissimulato.
La vita in campagna e/o in piccoli centri urbani eco-compatibili legati alla campagna ed una società/economia/cultura incentrata (fondamentalmente, ma non ideologicamente in modo esclusivo) sull'agricoltura biologica su piccola scala è il modello a cui puntare.
E' evidentemente un modello in controtendenza, anzi irrealistico a vedere le tendenze attuali, ma se guardiamo le cose in una prospettiva ecocentrica non abbiamo scadenze storiche, non è nei termini della nostra vita che dobbiamo veder compiuto questo disegno su scala generale proprio perché la nostra parte nel costruirlo è la nostra vita individuale che dedichiamo a realizzarlo quanto più possibile da parte nostra qui ed ora realizzando al tempo stesso più pienamente la qualità della nostra vita e noi stessi come esseri consapevoli della nostra intrinseca interrelazione con il Tutto. Non è dunque attraverso il sacrificio della nostra vita presente, ma al contrario attraverso la sua piena realizzazione ed il nostro riappropriarcene come esseri umani naturali che costruiamo un futuro migliore. Come ho già detto non è una strada che si percorre con lo spirito della utopia politica, ma con quello della religione anche se non è propriamente una religione, non almeno (senza riti, senza chiesa, senza paradisi, senza Dio) nel senso convenzionale.
Della religione ha il senso del sacro, della sacralità della Realtà, della Vita in quanto tale ovvero così com'è nella sua natura e quindi anche della Morte, dell'eterna Trasformazione.
L'eterna Trasformazione ci insegna, con il Buddhismo, che in tutto l'universo non c'è nulla che sia fisso o permanente: presto o tardi tutto non è che movimento.
Per cui c'è movimento ma non possiamo trovare qualcosa di cui possiamo dire questo è ciò che si muove. Questo vuol dire che è davvero realistico pensare a noi stessi come entità interrelate e non a sé stanti, interrelate con la Natura però, prima e più fondamentalmente che con i nostri simili umani - per cui il punto di vista ecocentrico (che comprende anche e correttamente quello umano e sociale).
Come non possiamo trovare in sé stesso un qualcosa così non c'è qualcosa di Sacro. Il sacro, il senso del sacro di cui parlo è la sacralità della Realtà, della Vita così com'è, tutta intera, sacra per il fatto solo di essere ciò che c'è: non è un sacro che ha all'opposto il profano o il non-sacro. Non ha un opposto perché lo comprende.
Il senso di questo sacro è il senso dell'essere al di là del concepibile della Natura che fa sì che davanti ad essa spontaneamente ci inchiniamo con il nostro corpo e con la pratica della nostra vita e con ciò ci inchiniamo anche a noi stessi e al percorso senza fine che compiamo nelle molteplici situazioni per capire e realizzare cosa questo significhi.

Ciò che questo significa è al di là delle parole e si capisce con la pratica, una pratica sostenuta dalla fede in una visione del mondo che però è a sua volta sostenuta dalla pratica: una fede, ma non una fede fideistica, una fede empirica.
Del resto questo “sacro” non è sacro perché sta scritto da qualche parte che lo sia o perché incarni un valore supremo, ma è una qualità che ci troviamo noi nella Vita, semplicemente perché siamo vivi. E' un senso del sacro che ci porta al di là di noi stessi, ma non è astratto dal nostro interesse.
Non proprio dunque un pensiero religioso, ma neppure un pensiero scientifico.

La Scienza, probabilmente il più grande contributo che l'Occidente abbia dato alla storia del pensiero umano, funziona molto bene, ma ha dei limiti che gli sono intrinseci (infatti fuori del limite di ciò che è definibile e misurabile non può veramente funzionare); il problema è che spesso chi la pratica se ne dimentica.
Legate strettamente al successo del pensiero scientifico occidentale sono le nozioni di progresso e di libertà.

L'enfasi che la modernità ha posto su queste idee è legata alla visione antropocentrica che si basa, come la Scienza, sulla percezione del mondo attraverso il linguaggio ed i concetti fino ad identificarsi con una pseudo-realtà come creazione culturale e dimenticando o separando da essa le basi biofisiche della nostra esistenza e quelle psicosomatiche della nostra mente. I mutamenti avvenuti grazie alle scoperte scientifiche e tecnologiche hanno permesso di ottenere ed aspirare ad una sempre maggiore libertà individuale e con questa come punto di fuga è stato dato un ordine prospettico al succedersi degli avvenimenti. Tale ordine, identificato col 'progresso', è stato preso come spirito della Storia, altra invenzione moderna ed occidentale.
Progresso e Libertà hanno fatto di noi i veri padroni della Storia, i veri dèi dell'unica realtà credibile; ci hanno liberati dalle pastoie e dalla schiavitù della vita tradizionale e ci è parso di diventare solo in quel momento veramente umani (tanto è vero che molto a lungo abbiamo visto come subumani i popoli premoderni).
Poco più di due secoli dopo l'inizio di tutto ciò, se oggi ci troviamo a considerare che ciò che chiamiamo progresso sta rischiando di condurci a catastrofi mai viste prima, se ci troviamo a riconoscere che una libertà individuale senza precedenti non ci ha portato una maggiore felicità e senso di soddisfazione nelle nostre vite, ci sembra di essere disarmati di fronte ai meccanismi della Storia della quale ci scopriamo non più padroni, ma strumenti attivi ancorché impotenti, capaci anzi forzati a produrla, ma senza possibilità di sceglierne le linee di tendenza.
La Storia è rimasta come l'ultimo dio, un dio che abbiamo noi creato, ma che ci è sfuggito di mano.
Doveva essere il frutto delle nostre azioni possibilmente intenzionali, doveva essere informata da uno Spirito Razionale, ed è diventata una sorta di volontà impersonale automatica mossa da meccanismi inevitabili per una tautologica necessità storica. Dobbiamo davvero credere che siamo condannati a correre verso la catastrofe perché il processo storico del progresso deve comunque procedere? Non sarà piuttosto che due secoli e più fa abbiamo commesso un grosso errore di prospettiva e che ora che ci siamo impigriti grazie alla nostra comodità, non vogliamo riprendere a chiederci davvero cosa stiamo facendo e perché e ci affidiamo invece al comodo alibi di un meccanismo superiore inevitabile al quale siamo sottoposti come si faceva una volta con Dio? Non è questa oggi la superstizione della Storia? E' questa la nostra libertà?
Non è forse che stiamo sacrificandoci in una ostinazione suicida per non rischiare di dover ammettere che il progresso, questa sorta di elemento di riscatto escatologico che sta a dar valore e senso, nonostante tutto, all'enorme prezzo in termini ecologici e di vite umane che abbiamo fatto pagare al pianeta nel percorso di sviluppo della tecnologia e dei consumi e nell'ampliamento della libertà individuale (di chi ha i mezzi per permettersela) è solo, visto in una prospettiva più ampia, l'idolo, l'agnello d'oro di turno che la nostra forma di civiltà ha innalzato a giustificare sé stessa, i suoi interessi e la sua forma di dominio?
E' questo cambio d'oggetto che ci rende più civili, più progrediti?

Tutto nasce dal vedere le cose come non sono: dalla prospettiva antropocentrica che è falsa perché l'uomo non è il centro della realtà, neanche della propria.
Per questo motivo non può essere la Libertà, che oltre un certo limite è un'illusione prometeica, ma la Realizzazione, nel senso buddhista della parola, l'orizzonte della nostra visione.
Mentre la Libertà segna un cammino di progresso che ispira una Storia lineare, la Realizzazione è un processo di inveramento sempre più pieno e profondo che si incentra su sé stesso e la propria vera natura. E' un processo continuo, è una crescita ed è per ciò dinamico, ma il suo movimento non è quello del treno o dell'aereo che si muovono linearmente con una direzione che è uno scopo, bensì quello della crescita di un albero o di un alveare che complessificano vieppiù la propria rete di interconnessioni interne e si estendono nello spazio in un rapporto organico con l'ambiente circostante rimanendo sé stessi nel compiere la propria natura. Mentre l'aereo e il treno son fatti per qualcosa, ovvero per accrescere la nostra libertà di spostamento e come mezzi utili rispetto a questa possono diventare successivamente un taxi, un bus, una nave, un aereo più moderno ecc…, l'albero o l'alveare vivono e crescono semplicemente per vivere, naturalmente, senza scopo e, nella loro interrelazione plurimillenaria con le altre forme di vita circostanti, hanno preso quella determinata forma e quel funzionamento che sostanzialmente non cambiano se non lentissimamente e per necessità di sopravvivenza.
L'albero o l'alveare non hanno la libertà individuale di comportarsi come nuvole o come meduse né ne hanno alcun desiderio: realizzano la loro propria natura data dalla rete planetaria di interrelazioni che ha fatto sì che la vita in loro prendesse quella forma.
E' una certa determinata forma, non rigidamente definita nei minimi particolari, ma è fatta e funziona in quel modo, non in un modo qualsiasi e questo è dato dalla loro interrelazione con tutto il resto ovvero è il loro posto nel mondo - e si vede chiaramente quando un essere vivente, animale o vegetale, sta bene o sta male, se può realizzare il suo essere in questo 'posto' (la sua forma caratteristica di vita) o meno.
Il fatto che per l'essere umano ciò sia molto meno definibile e molto più complesso non vuol dire che non sia. Anche per gli individui e le società umane ci sono modi di vivere che al loro interno e in relazione all'ambiente (in qualsiasi modo lo si voglia intendere) creano condizioni di armonia ed altri che risultano in disarmonia (non c'è bisogno di stabilire criteri astratti per valutare questo: basta osservare sinceramente la nostra propria esperienza diretta, la qualità della nostra vita). Quelli che stanno in limiti di almeno relativa armonia all'interno e all'esterno sono “il posto nel mondo” per l'essere e le società umane. Le altre sono fuori da questo e portano conseguenze disastrose: il margine, lo spettro dell'accettabile, specialmente per l'essere umano, con la sua capacità di adattamento, è vasto, ma non illimitato perché, sebbene vige un ampio 'regime di libertà' nella Natura, non è la libertà ad esserne il principio informatore, non almeno, nel senso che la intendiamo noi.
Il fatto che in realtà l'uomo abbia la libertà di vivere ed organizzarsi anche in molti altri modi senza tener conto di qualsiasi idea di un qualche suo “posto nel mondo” o di nulla del genere e perfino in modi che sono di fatto del tutto contrari a questo non dimostra altro che non è la libertà il criterio con cui giudicare queste cose.
La libertà - che riguarda ciò che si può pensare o credere o dire o fare, ma anche avere, intraprendere economicamente, produrre, consumare, sprecare…. - è un bene importante, sacrosanto, ed una grande conquista, ma è relativo, non può essere l'orizzonte ultimo, il punto di fuga della prospettiva della nostra vita: va ridimensionata.
L'Occidente l'ha scoperta e la difende, ma oggi non è più il solo ad avere i mezzi per permettersela e non tutti la concepiscono nello stesso modo e c'è il forte rischio che libertà contrapposte e incompatibili si escludano a vicenda. E in ogni caso se pure tutti i popoli e gli individui per ipotesi concordassero sullo stesso modello di 'libertà' (e allora sarebbe poi questa ancora una libertà?) e condividessero i mezzi per permettersela, sarebbe la Natura stessa ad imporre dei limiti a ciò che ad ognuno è possibile fare su questa Terra per motivi di sostenibilità ecologica.
Non è quindi la libertà il principio di fondo che ci può guidare nella Storia perché ci porterebbe solo a perdere essa stessa e con essa molte altre cose. A guidarci deve essere invece la Realizzazione, ma la Realizzazione non ci guida nella Storia, bensì nel presente, nella vita, perché dal punto di vista della Realizzazione la Storia non esiste: esiste il tempo, esistono gli avvenimenti e le trasformazioni, ma non la Storia. La Storia è un fatto umano, la Realizzazione, anche quando avviene in un uomo, è la Realtà che si fa Realtà; non appartiene a quell'uomo, né agli esseri umani in generale, anche se non li esclude, e neppure appartiene a nessun altro.
E' proprio la Realtà, ed è al di là delle parole.

Ma ciò che conta qui è che , avendo come orizzonte la Realizzazione non si è separati dall'ecosistema e non ci si allontana dal proprio “posto nel mondo”.
Cosa è questo?
Non è facile dirlo e non è rigidamente definibile, è anche mutevole, ma non sono infiniti i suoi modi possibili di essere: esiste, funziona e va capito. Praticarlo è capirlo e va fatto/visto da un punto di vista ecocentrico, non egocentrico, non eterocentrico, non antropocentrico, non teocentrico.
Qual è il centro di questo ecocentrismo? La risposta non è univoca, ma ce ne sono molte di sbagliate; capirla è praticarla.
Il punto qui è che non si tratta di andare verso qualcosa. Si tratta più di fermarsi, capire ed agire di conseguenza. Si ferma la linearità della Storia, se ne recupera in parte la precedente visione circolare (del tempo), ma forse una spirale, circolare, ma che al tempo stesso avanza ad ogni giro e lo fa sempre più incentrandosi sul suo centro potrebbe essere un'immagine più adeguata.

La libertà che si prende l'ecofondamentalista è quella di uscire dalla Storia (o dalla superstizione di vederla come una realtà unica ed inevitabile). L'ecofondamentalista riconosce la Storia come la risultante della somma di tutte le scelte e i comportamenti concreti individuali e collettivi e recupera la nozione fondante della modernità dell'Uomo come artefice della Storia: si comporta come tale a partire dalla propria. La Storia di cui si riconosce artefice è la vita, quella che si svolge nelle vite di tutti i viventi in una rete così complessa da non poter essere capita fino in fondo, può essere però vissuta. E' in ultima analisi Natura, non Cultura.
All'interno dei limiti naturali che abbiamo come esseri umani ( e che non sono solo fisici) è la nostra vera libertà: di compiere noi stessi al di là delle credenze culturali correnti create dall'Uomo. La vita diventa Storia quando se ne vuol rendere una versione selezionata attraverso lenti culturali pretendendo che segua un percorso che deve compiersi dove diciamo noi.
Prima che dunque la Storia si compia precipitandoci nel baratro o comunque portandoci in una condizione di vita che ha perso ogni armonia con la natura, interna ed esterna, l'ecofondamentalista si riprende l'unica cosa che ognuno di noi veramente ha: la sua vita.
In questa vita egli cerca di realizzare un modo di vivere che il più possibile si avvicini all'essere ecocompatibile ovvero uno stile di vita che, se per ipotesi fosse adottato dalla generalità degli abitanti della Terra, tutti potrebbero stare decentemente bene ed il pianeta potrebbe ecologicamente sopportarlo.
L'ecofondamentalista pratica questo nei fatti, prima ed ancor più che con le parole e mentre procede aggiusta il tiro nei suoi sforzi per realizzare sempre più a fondo questo obiettivo o, viceversa, per scegliere
più opportunamente i compromessi almeno provvisoriamente inevitabili per poter comunque procedere nel realizzare almeno in parte questo progetto al quale comunque consacra la propria vita anche se, realisticamente, relativamente alle condizioni date e alle sue possibilità.
La nostra vita si muove nella dimensione del Possibile che non è senza limiti, ma che non dobbiamo rinchiudere, per eccesso di razionalismo o di paura, in progetti rigidamente prefissati o in un 'realismo' fin troppo prudente.
Nel procedere sia praticamente che teoricamente in questo cammino l'ecofondamentalista sviluppa sempre più approfonditamente una visione ecocentrata delle cose ed una consapevolezza del posto degli esseri umani nel mondo/nella Natura. Il suo essere, in misura maggiore o minore, comunque in relazione con gli altri, fa sì che le sue scelte ed i suoi sforzi, pur incentrati soprattutto sulla sua vita, famiglia, amici ed ambito sociale diretto abbiano un qualche effetto (anche piccolo ma concreto, consistente, solido, che passa al livello dell'esperienza diretta) sulla società più allargata.
Nel crescere nella sua pratica e consapevolezza contribuisce a creare un mondo migliore, non migliore secondo qualche principio astratto, ma secondo una comune esperienza diretta, più armonioso per sé e per gli altri senza per questo diventare un santo o rinunciare a voler soddisfare un primario e sano egoismo di godere della propria vita come essere terreno e naturale, anzi crescendo proprio a partire dalle proprie necessità.
In questo modo procede nella realizzazione di sé stesso, della propria natura e della Natura in genere.
Questa Realizzazione consiste proprio nel non vedere/vivere più queste tre cose come separate ed attualizzare di momento in momento e di situazione in situazione questa non-visione (oltre la visione, una visione interiorizzata nell'atto, nell'essere/vivere) nella propria vita e nel mondo.

NOTE:
(1) Non mi interessa stabilire se in termini di logica formale sia ammissibile o meno che Achille raggiunga la tartaruga: mi basta sapere che secondo la mia esperienza e quella della generalità dei miei simili l'ha sempre raggiunta e superata nei fatti.
(2) Coscienti anche che quando stili di vita diversi si diffondono nella società di fatto la trasformano e ciò non può non tradursi, presto o tardi (secondo il grado di questa diffusione) in cambiamenti nell'ordine legislativo e politico.