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L’incubo planetario bussa ancora alle porte dell’Ossezia, e sta cercando

di Stefano Serafini - 30/11/2008


Una mostra fotografica a Roma ripercorre i massacri nascosti dalla
retorica russofoba

 

Lo scorso 28 novembre, a Roma, nella cornice di Trastevere spazzata da
un temporale eccezionale, ha avuto luogo l’inaugurazione della mostra
fotografica “Ossezia del Sud - Agosto 2008: cronaca di giorni tragici”,
organizzata dall’agenzia di stampa russa RIA Novosti.

La mostra – che proseguirà fino al 6 dicembre, a ingresso libero –
raccoglie negli spazi della B Gallery (piazza di S. Cecilia, 16,
info@b-gallery.it) una selezione di fotografie scattate dai
corrispondenti russi precipitatisi in Ossezia del Sud e nella sua
capitale Ckhinvali (Tskhinvali, secondo la traslitterazione inglese)
dopo le prime frammentarie notizie sui bombardamenti indiscriminati,
l’annientamento della guarnigione delle forze d’interposizione, e il
massacro dei civili ossetini. Si tratta dei fotoreporter di RIA Novosti
Mikhail Fomičev e Maksim Avdeev, quest’ultimo soltanto ventunenne e alla
sua prima esperienza su un campo di battaglia, un battesimo del fuoco
che ha lasciato il segno.

All’informale inaugurazione, quasi intima, si sono presentati
giornalisti, esponenti dell’informazione indipendente su Internet,
professori universitari, e a sorpresa è intervenuto anche il giornalista
e deputato europeo Giulietto Chiesa. In rappresentanza del proprio
popolo hanno preso la parola Inal Pliev, già capo dell’ufficio stampa
del Presidente dell’Ossezia del Sud, e la giornalista sudossetina Maria
Kotayeva, i quali hanno raccontato le atrocità subite e delle quali sono
stati testimoni diretti, ringraziando con calore l’Italia per
l’attenzione prestata a questa tragedia. Dopo i racconti di carneficine,
pioggia di artiglieria Grad, carri armati e nascondigli pieni di terrore
e di cadaveri in putrefazione, hanno espresso verso Giulietto Chiesa,
invitato subito a parlare, sentimenti toccanti. Il noto giornalista e
parlamentare, spesso intervistato dalle emittenti russe e asiatiche, è
infatti divenuto un simbolo di speranza per il popolo sudossetino, fin
dalle sue prime visite che risalgono al 1991, cioè al primo massacro
etnico in quella regione. Pliev lo ha fra l’altro ringraziato
pubblicamente e con parole commosse, per aver tratto in salvo col suo
intervento lo scorso mese otto ostaggi, rapiti dall’esercito georgiano
dopo il cessate il fuoco nell’indifferenza delle autorità internazionali.

L’organizzatore della mostra, il giornalista Sergej Startsev,
caldeggiando l’importanza di non perdere di vista questa regione e il
pericolo crescente in cui vivono i suoi abitanti nonostante l’accordo di
pace Medvedev-Sarkozy, ha aggiunto che Giulietto Chiesa ha avuto anche
il merito di denunciare, a seguito del suo ultimo, recente viaggio al
confine sudossetino in veste di parlamentare UE, la latitanza di fatto
degli osservatori europei, e il rischio altissimo che le continue
provocazioni armate sfocino in una nuova aggressione etnica dagli esiti
imprevedibili.

Chiesa dal canto suo è intervenuto spiegando i plurimi precedenti
georgiani di pulizia etnica subiti dai sudossetini (un popolo con la sua
lingua propria, discendente degli antichi Alani), perorando il loro
diritto a non tornare più sotto il controllo dei propri massacratori, e
ha aggiunto che la caparbietà di certi ambienti militari e politici a
voler fare entrare la Georgia comunque nella NATO, nonostante i crimini
da essa perpetrati, espone noi tutti europei a un azzardo mortale:
quello, indipendentemente dalla nostra volontà, magari per decisione di
un Saakashvili, di finire ingoiati dalle guerre caucasiche,
mondializzandone immediatamente le dimensioni.

L’importanza della mostra fotografica è dunque duplice, poiché essa
parla con voce piccola ma ferma in difesa di un popolo oppresso e
dimenticato dai media, e a favore della pace mondiale. È poi
significativa a fronte del comportamento dei mezzi di comunicazione
europei e americani, che non hanno inviato una sola troupe in Ossezia né
durante, né dopo la pulizia etnica georgiana, ignorando volutamente un
evento terribile: oltre 30.000 profughi ossetini in fuga verso la
Federazione Russa tra il 4 e il 7 agosto, terrorizzati dai primi
bombardamenti; la città di Ckhinvali, compresi l’ospedale, l’università,
le case civili e l’acquedotto, rasa al suolo nella notte tra il 7 e l’8
agosto con l’artiglieria pesante e i bombardamenti aerei dell’esercito
georgiano modernamente equipaggiato ed istruito col contributo di Stati
Uniti, Ucraina e Israele; quasi 1.700, nella maggioranza civili, i
massacrati con i carri armati e le granate lanciate intenzionalmente nei
rifugi, in un’operazione di dichiarata pulizia etnica chiamata in codice
Clean field, cioè “piazza pulita”; oltre 190.000 profughi a seguito del
conflitto (furono 110.000 nel 1991-92), secondo i dati UNHCR[1].

Aggiungiamo che la notte dell’8 agosto la Russia, che conta le prime
vittime dell’aggressione in 25 suoi soldati, di stanza a Ckhinvali per
un mandato di pace siglato in accordo con la Georgia e il beneplacito
delle Nazioni Unite, chiese l’intervento immediato del Consiglio di
Sicurezza dell’ONU per un cessate il fuoco, ma Stati Uniti e Gran
Bretagna opposero il loro veto[2]. Le Olimpiadi sono in pieno corso,
l’umanità televisiva guarda altrove, mentre Saakashvili, in nome del
«ripristino dell’ordine costituzionale», mette a ferro e fuoco una città
addormentata.

A quel punto, con una scelta che lascia sorpresi molti osservatori, il
presidente Medvedev invia le truppe e i mezzi della Federazione Russa
più vicine in soccorso degli ossetini, la maggioranza dei quali ha
passaporto russo. Solo allora, come un’orchestra ben affiatata, la
stampa occidentale si accorge del conflitto, per titolare a gran voce
che “la Russia invade la Georgia”. Alcuni giornalisti vengono inviati a
Tbilisi, capitale della Georgia distante circa 80 km da Ckhinvali, per
rilanciare a tutto il mondo come “notizie” (tutte sistematicamente
smentite dai fatti e dai testimoni nelle ore successive) le
dichiarazioni del presidente Mikheil Saakashvili, secondo il quale la
Russia avrebbe attaccato per prima, avrebbe invaso la Georgia
addirittura con 80.000 uomini, bombardato Tbilisi e l’oleodotto BTC,
ecc. In una delle pagine più nere della storia dell’informazione
democratica, per giorni, CNN, BBC e Fox News danno il la a tutti i mass
media occidentali che ne raccolgono dichiarazioni, immagini e commenti
come oro colato, senza tener conto che quell’oro esce direttamente
dall’ufficio della propaganda di una delle parti in guerra, un paese
caucasico governato con brutalità da un presidente che elimina
fisicamente i propri oppositori politici e applica la censura chiudendo
televisioni e giornali. Oltre alla bandiera europea esposta senza
diritto dal suo presidente in TV, la Georgia ha alle sue spalle almeno
quattro atroci precedenti tentativi di sterminio della minoranza
sudossetina. Eppure i nostri commentatori la dipingono come una piccola
e coraggiosa democrazia in lotta contro una Russia prevaricatrice e
imperialista.[3]

Ma soprattutto, nessuna notizia viene fornita sui profughi e sui morti
sudossetini, se non in maniera tendenziosa, dove le responsabilità
risultano confuse, e contorsionisti del giudizio salomonico si impegnano
in raggelanti esercizi di cinismo. Alcune agenzie di informazione (CNN,
Reuters) giungono ad utilizzare i mezzi più vergognosi, dimostrando non
soltanto cattiva fede, ma l’effettiva pianificazione della guerra
mediatica, e di questo il futuro dovrà tenere conto: foto truccate, con
finti morti[4]; immagini delle rovine di Ckhinvali rubate alla TV russa,
riconosciute sia dal cineoperatore sia dagli abitanti, trasmesse come
riprese di una città georgiana «bombardata dai russi»[5]; addirittura
l’intervista a una vecchia sudossetina piangente sulle rovine della sua
casa, che racconta di aver perduto anche le ultime foto del figlio
ucciso dai georgiani nel pogrom del 1991, trasformata in una povera
«anziana georgiana, la cui abitazione è stata bombardata dai russi»[6].

Un capitolo a parte merita l’informazione su Internet, che al contrario
del mondo cosiddetto “professionale” ha dimostrato in molti casi durante
questa vicenda una accuratezza e una serietà degne di speranza. La rete
si è subito attivata, fin dalle prime ore del conflitto, nell’analisi e
nella raccolta di informazione, proponendosi apertamente come
contropotere democratico e dal basso alla propaganda dei media
tradizionali, anticipando di settimane le notizie che avrebbero poi
fatto timidamente capolino sui giornali[7]. Se dal punto di vista
informativo, per un numero importante ma ancora limitato di utenti,
questo è un risultato positivo, resta il fatto che alla grande
maggioranza del distratto pubblico occidentale è stata comunque imposta
una fortissima “impressione” falsa della realtà, con un’operazione di
evidente e vittoriosa propaganda pianificata e gestita da un potere
transnazionale. Essa ci rivela l’esistenza di un’ipoteca globale,
gravissima e senza precedenti, sulla democrazia e sulla pace.[8]

Chiudiamo questa breve carrellata informativa, dunque, con l’invito a
visitare la mostra. Essa è un’occasione per riflettere su una tragedia
le cui ceneri covano ancora, rischiando di far divampare un'altra volta
il fuoco su un popolo sofferente, e insieme di consumare quel che resta
della nostra civiltà. Leviamo la nostra voce. Quel che accade deve farci
alzare in piedi contro i pianificatori di guerre, i maestri di menzogna,
e la stessa malattia mortale dell’oppiato cinismo occidentale diffuso da
chi ormai detiene il controllo lobale dei media. Questa tragedia è come
uno squillo di tromba. Ci insegna che noi europei stiamo perdendo ogni
giorno la libertà e la dignità, e che tali valori devono essere
continuamente di nuovo riguadagnati, perché non ci sono stati dati in
esclusiva e per sempre una volta per tutte.

[1]
http://www.un.org/russian/news/fullstorynews.asp?newsID=10236 ;
http://www.unhcr.org/news/NEWS/4208a2ff4.html

[2] http://www.un.org/News/Press/docs//2008/sc9417.doc.htm

[3] Dai titoli drammatici di Repubblica alle invettive russofobe di
Bernard Henry Lévy su Il Corriere della Sera, dal direttore del TG1
Gianni Riotta, che apparve il 9 agosto ai telespettatori per spiegare il
conflitto con la malvagità del “vero volto di Putin”, a Enrico Piovesana
di PeaceReporter, che vedeva nel controllo del… «contrabbando della
vodka» l’obiettivo segreto della movimentazione dell’esercito della
Federazione russa (
http://it.peacereporter.net/articolo/1235/), le
vergogne del giornalismo italiano di quei giorni di guerra meriterebbero
un libro, se non destassero troppo ribrezzo. Le posizioni hanno
cominciato a cambiare soltanto dieci giorni dopo il conflitto, con lo
sfaldarsi del fronte internazionale della propaganda. L’ultimo
giapponese, il New York Times, ammetterà a mezza voce di aver scritto
falsità solo il 7 ottobre, quasi un mese dopo le proteste dello stesso
Congresso USA contro la Segreteria di Stato. Alcuni importanti deputati
americani infatti hanno accusato in seduta di essere stati ingannati a
riguardo della guerra di Georgia, cominciata con “un errore orribile e
grossolano” da Saakashvili e non dai russi, ricevendo per tutta risposta
da Daniel Fried, sottosegretario di Stato per gli Affari Politici, le
seguenti, grottesche scuse: abbiamo sbagliato perché ci siamo fidati
delle informazioni fornite da Saakashvili (seduta del Congresso del 10
settembre 2008). Le prese di distanza dalla Georgia giungono ormai, nel
panorama politico USA, persino da personaggi antirussi come Ed Royce,
oltre che da esponenti importanti sia democratici che repubblicani come
Hillary Clinton, Gary Hart, Howard Berman, William Delahunt, Brad
Sherman, Dana Rohrabacher e Ted Poe. In Italia è del 19 agosto
l’apparizione della prima intervista a un testimone sudossetino, su La
Nazione – QN che gli riserva un occhiello in prima pagina (L. Bianchi,
“«Vi racconto gli orrori della pulizia etnica»”, 19/08/2008, p. 18).
Limes ha dedicato quindi agli inizi di settembre un buon volume alla
vicenda, riconoscendo lo sfondo reale della guerra fin dal significativo
titolo: Russia contro America peggio di prima. La verità sulla guerra in
Georgia (numero speciale suppl. al n. 4/2008). Credo sia significativo
che perfino l’editoriale di una rivista certamente non sospettabile di
simpatie pacifiste o di russofilia, Military Technology, abbia esposto
aperte critiche ai falchi NATO come Jaap de Hoop Scheffer, e alla
«massiccia campagna di propaganda per “portare la democratica Georgia
nella NATO”» (Ezio Bonsignore, “The Kosovo Payback”, 9/2008, p. 6)!

[4]
http://russia-insider.livejournal.com/25329.html traduzione e
commento italiani in: 
http://mirumir.altervista.org/2008/08/il-conflitto-in-georgia-ossezia.html

[5] http://www.globalresearch.ca/index.php?context=va&aid=9854 ; ma
anche in L. Bianchi, “«Vi racconto gli orrori della pulizia etnica»”, La
Nazione, 19/08/2008, p. 18

[6] Ho assistito personalmente, con un senso di shock e di rabbia, alla
prima intervista trasmessa dalla TV russa, e un’ora dopo alla sua
versione ribaltata sulla TV del mio Paese, lo scorso agosto. La cosa è
stata osservata da altri, e riportata da Sergey Startsev in “Perché noi
russi abbiamo perduto la guerra dell’informazione”, Limes, numero
speciale Russia contro America peggio di prima, cit., p. 165.

[7] Per fare un solo esempio, in Italia si è distinto il blog
http://mirumir.altervista.org con un’accurata ricerca di informazione e 
documenti tradotti dal russo e dall’inglese.

[8] Si veda la mia analisi di un increscioso incidente occorso al sito
web di CNN, a tale riguardo: Stefano Serafini, Mosca di un’Internet! La
propaganda mediatica, CNN, la guerra e la rete, ripreso da diversi siti
web e blog (p.es.
http://www.ariannaeditrice.it/articolo.php?id_articolo=20754 ), 14/08/2008