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La degenerazione finale del comunismo all’inizio del terzo millennio

di Eugenio Orso - 01/12/2008

Il processo degenerativo di un organismo alla nascita apparentemente sano può richiedere tempi lunghi, ma nel caso del comunismo cinese – l’unico sopravvissuto alla guida di un paese importante dopo il default sovietico e del blocco dell’Europa dell’est – e in quello di ben minore impatto internazionale del comunismo italiano, non ci sono voluti poi dei tempi biblici affinché si compia.

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Parte prima: la Cina

Per quanto riguarda la Cina, l’anno chiave della svolta che ha preparato il terreno alla degenerazione può essere individuato nel 1976, almeno a livello simbolico, anno gravido di eventi cruciali per quel paese e caratterizzato dalla morte del premier Zhou Enlai – il quale nel 1975 diede comunque il via alla così detta modernizzazione del paese, allontanandosi così dal solco originario della linea maoista – e dalla morte del leader storico Mao Zedong, guida nella lunga marcia, nonché artefice della vittoria contro i nazionalisti e della grande rivoluzione culturale proletaria.

In quel fatidico anno, i maoisti più radicali riuniti nella celebre “banda dei quattro” della quale faceva parte anche la vedova di Mao, prevedendo le future deviazioni in seno allo stesso comitato centrale del Partito Comunista Cinese, hanno tentato un colpo di mano per impossessarsi del timone e raddrizzare la rotta, ma senza apprezzabile successo.

Nel 1978, in seguito anche ad estese proteste popolari nei centri urbani, il PCC adottò ufficialmente la linea di riforme economiche proposte da Deng Xiaoping, l’astro nascente dell’apparato, e poi fu tutto un crescendo di cambiamenti non necessariamente positivi, in politica economica come in politica estera, fino ad arrivare al momento topico dell’adozione della celebre “economia socialista di mercato” nel 1992, subito dopo il crollo dell’URSS, che avrebbe definitivamente demolito i pilastri del vecchio comunismo novecentesco e liquidato la variante cinese del maoismo, innescando una nuova “rivoluzione culturale” e diventando addirittura la nuova ideologia.

In effetti, è proprio da quel momento che i potenti virus del mercato, del libero commercio mondiale, dell’accumulazione capitalista a tutti i costi – importati dall’occidente del mondo – hanno invaso definitivamente il grande organismo cinese e soprattutto la sua testa, il Partito Comunista, che non ha cambiato nome e tale è rimasto, almeno in apparenza, senza schiodarsi dai centri di potere, ma anzi, reprimendo il dissenso con l’uso di metodi polizieschi.

Con l’ammissione della Cina nella Organizzazione Mondiale del Commercio, l’ascesa di Hu Jintao alla carica di segretario del partito e il reddito pro-capito salito fino alla bellezza di mille dollari, fin dai primi tre anni del terzo millennio ci si avviava decisamente verso l’apoteosi del socialismo [o comunismo] mercatista.

Peccato che i termini socialismo [per non dire comunismo] e mercato – sempre libero nelle intenzioni dei suoi teorizzatori, dall’economia liberista dei classici fino ai giorni nostri, e mosso da egoismi individuali – sembrano essere decisamente antitetici e appaiati possono contribuire a generare soltanto un’aporia.

A parte la gigantesca accumulazione originaria di capitale che il “socialismo di mercato” cinese ha consentito, per altro ancora non impiegata per risollevare le sorti della numerosissima e fino ad ora trascurata popolazione rurale o per migliorare l’assistenza sanitaria concessa al popolo, pare quasi che gli astuti eredi di Mao Zedong e di Zhou Enlai abbiano modificato il vecchio detto comunista, secondo il quale i capitalisti venderanno anche la corda per impiccarli, trasformandolo in un più inquietante: “Venderemo noi ai capitalisti [occidentali, ovviamente] anche la corda per impiccarsi”.

Tanto che la Repubblica Popolare Cinese sembra fondata oggi – più che sul pensiero dei maestri della rivoluzione, a partire da quello di Mao, sull’emancipazione delle masse popolari e sulla lotta anti-imperialista, intendendo per imperialismo, da buoni comunisti, lo stadio supremo del capitalismo – sul finanziamento del debito estero della malconcia potenza statunitense e sull’iper-consumo dell’americano medio, elementi fondamentali del successo economico e commerciale cinese, in modo da sembrare essa stessa, in prospettiva futura, l’epicentro dello stadio supremo del peggior capitalismo.

Lo scoppio recente della crisi finanziaria globale, a partire da quelli Stati Uniti d’America ai quali la Cina sembra essersi legata a doppio filo, lo spettro della conseguente recessione economica – anch’essa globale, come tutto il resto ormai – la falcidia di stabilimenti e unità produttive e la disoccupazione di massa che avanza di pari passo proiettano, però, un’ombra sinistra sulla possibilità degli abili “comunisti di mercato” di mantenere, ancora per un po’ di tempo, tassi di crescita del PIL che sfiorano le due cifre e annunciano, per contro, l’arrivo della inedita “recessione cinese”, con percentuali di incremento del prodotto decisamente inferiori ad un rassicurante nove per cento.

Questa battuta d’arresto, che oscura i fasti di quel comunismo mercatista fino a ieri proiettato verso uno sviluppo che pareva senza limiti, potrà essere ben più insidiosa e foriera di tensioni della “congiuntura” che ha vissuto nel secondo dopoguerra l’Italia, quando la straordinaria crescita economica iniziata nel 1958, concentrata nel nord del paese, si è interrotta durante i primi anni sessanta dello scorso secolo.

Infatti, le attese frustrate delle masse urbane cinesi, impiegate a basso reddito nella produzione industriale, si stanno già facendo sentire in termini di rivolte e disordini spontanei, conseguenza della repentina chiusura di unità produttive che non riesco più a vendere copiosamente all’estero i loro prodotti e della delocalizzazione a rovescio, con le aziende americane e occidentali che se ne tornano a casa.

In un articolo di Debora Billi dei primi di novembre, pubblicato nel sito Apocalyipse now, apprendo che potrebbero essere ben centomila le fabbriche cinesi costrette a chiudere i battenti entro la fine del 2008, con un bilancio previsto per il 2009 decisamente più pesante.

Avendo gli imprenditori “comunisti” cinesi aperti al mercato assimilato tutti, o quasi, i peggiori vizi e i comportamenti scorretti degli omologhi occidentali, molti fra loro se la battono con i soldi rimasti a bordo delle solite auto di lusso, queste ultime non di produzione locale.

Recente è la notizia che un ricco cinese, Huang Guangyu – il quale può contare su un patrimonio valutabile in alcuni miliardi di euro ed è presidente della maggiore fabbrica di elettrodomestici del paese – risulta indagato per aver operato manipolazioni sulle quotazioni di alcuni titoli quotati alla Borsa di Shanghai, in complicità con il fratello finanziere …

Si tratta di un piccolo ma interessante case study, afferente al malcostume e alla truffa, che ci rivela una cosa molto semplice: non c’è poi una grande differenza fra il ricco cinese, cresciuto all’ombra del vecchio nume tutelare – il PCC – e del nuovo culto del mercato, e un celebre capitalista nostrano sotto processo, il Callisto Tanzi di Parmalat, abbagliato dall’illusione finanziaria.

Ai lavoratori sottopagati che sono improvvisamente espulsi dal processo produttivo non resta che protestare duramente o tornarsene in campagna – così come accadrà forse anche da noi, anche se qui non c’è più una campagna alla quale tornare per fare il contadino – e ciò significa un brusco crollo delle aspettative e degli entusiasmi per moltissimi e l’insorgere di disordini diffusi.

Almeno una parte significativa dei bistrattati lavoratori dipendenti italiani può godere di un po’ di assistenza, nella forma della storica cassa integrazione guadagni, sopravvissuta all’opera di demolizione dello stato sociale e alla fine del compromesso fordista, perché per i lavoratori cinesi – molti dei quali migrati da poco dalle immense e arretrate campagne di quel paese – a dispetto del “socialismo di mercato” e della guida che resta nelle mani del Partito Comunista, non c’è neppure l’equivalente.

Per quanto riguarda i disordini dovuti alla crisi economica e alla disoccupazione improvvisa, in pieno “paradiso” comunista e mercatista ed in particolare nella fascia costiera soggetta a maggior industrializzazione, i primi fuochi come si è detto si sono già accesi: è recente la notizia di violente proteste e attacchi ai veicoli della polizia nel Guandong, da parte di centinaia di operai buttati in strada senza troppi riguardi, con una misera liquidazione che corrisponde a cento dei nostri euro e un mese del loro stipendio.

In poche parole, i comunisti dell’ex impero di mezzo convertiti alla suprema crematistica di quest’epoca, hanno fiutato il business ed hanno finanziato gli sconsiderati consumatori americani – che compravano a man bassa i loro [scadenti] prodotti a basso prezzo e riempivano di debiti persino le carte di credito – e, alla fine della fiera, esplodendo la bolla finanziaria negli Stati Uniti come una super nova, rischiano di finire anche loro con la corda al collo, quella stessa corda che in misura significativa hanno contribuito a fabbricare.

Il prossimo futuro ci rivelerà se sarebbe stato meglio, per la Cina e per l’intero pianeta, che nell’ormai lontano 1976 la tanto vituperata “banda dei quattro” fosse riuscita nel suo intento restauratore, sbarrando in anticipo la strada all’affermarsi della nuova linea tardo-comunista in seno al PCC e alla società cinese: quel “socialismo di mercato” iper-produttivista che ha sconvolto, procedendo a braccetto con la globalizzazione di matrice americana, gli equilibri economici, sociali ed ecologici del mondo.

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Parte seconda: l’Italia

Per quanto riguarda i resti, gli scampoli e gli epigoni del glorioso Partito Comunista Italiano – il più grande partito comunista dell’occidente, ai tempi della guerra fredda e della divisione del mondo in due blocchi contrapposti – la storia, come sappiamo, è ben più squallida e desolante di quella che ha portato all’involuzione in senso mercatista del comunismo cinese, trasfiguarandolo.

Non merita spendere troppe parole sugli eventi che hanno provocato la “caduta” della così detta prima repubblica, in Italia, e l’eclissarsi degli storici partiti di massa; basta ricordare che la liquidazione del Partito Comunista, avvenuta con una lacerazione, mai definitivamente ricomposta, fra gli apostati maggioritari e quelli che allora erano i nostalgici, minoritari, ha segnato ufficialmente l’inizio di una caduta a vite che continua ancora oggi, e l’avvio di un processo degenerativo che conosce sempre di più momenti addirittura farseschi.

Dall’Ordine Nuovo di gramsciana memoria, che sosteneva la necessità dell’adesione del PSI all’Internazionale Comunista un po’ prima della svolta di Livorno del 1921 e della effettiva costituzione del PCdI, agli editoriali di Liberazione – attuale organo di Rifondazione Comunista – se ne è fatta di strada, ma non necessariamente verso il meglio, nella mutazione che ha portato i pretesi eredi del comunismo italiano, di Gramsci e di Togliatti, a diventare un partito mediatico, televisivo, aduso ai talk show come ai reality e disposto ad occupare posti di sotto-governo, a sottostare alle direttive dei poteri forti, di fatto svuotato di rappresentanza e di veri contenuti politici.

Durante la caduta a vite degli anni novanta e dei primi duemila, il processo di frantumazione si è accentuato, tanto che Rifondazione Comunista ha dovuto subire la “diaspora” del PdCI di Cossutta e Diliberto, mentre nel partito degli apostati del comunismo – il PDS, poi riciclatosi nei DS – sopravvivevano correnti, frazioni del “correntone” o tracce di partitini, che ancora si definivano ostinatamente comunisti, come ad esempio i comunisti democratici.

Se gli apostati del comunismo, fin dalla “gioiosa” e raffazzonata armata di Achille Occhetto che fronteggiava un pimpante Berlusconi da poco sceso nell’arena politica, hanno subito alcune mutazioni di rilievo – da PDS a DS, fino al recente cartello elettorale del PD costituito frettolosamente assieme ad ex-democristiani, cattolici vari, margheritini e popolari, con la totale scomparsa dei simboli storici e degli originari riferimenti ideologici – dando vita alla peggior sinistra liberista che si può immaginare e ad una brutta copia del Partito Democratico d’oltre oceano, quelli che si fregiano ancora dello storico titolo di comunisti hanno conosciuto un tristo e rapido processo di decadenza e marginalizzazione, fino a diventare, nell’ultimo e breve governo di Romano Prodi, autentici “specchietti per le allodole”, ricevendo qualche ministero e sotto segretariato, nonché la presidenza della camera dei deputati per il leader Fausto Bertinotti, in cambio di una buona dose di acquiescenza dinanzi a politiche decisamente mercatiste e anti-sociali.

I tardo-comunisti di Rifondazione e del PdCI non hanno mantenuto una sola delle loro impegnative promesse elettorali: dal miglioramento trasporti pubblici ferroviari per i pendolari, in luogo dell’esaltazione berlusconiana dell’alta velocità, all’abrogazione della legge che ha introdotto il lavoro precario in Italia.

Infatti, ricordiamo bene tutti che, mentre il ministro prodiano della solidarietà sociale e attuale segretario di Rifondazione Comunista, Paolo Ferrero, si occupava di bazzecole quali i decreti legge per regolare la pubblicità dei superalcolici, un’iniqua fiscalità, targata Tommaso Padoa-Schioppa e Vincenzo Visco, si apprestava ad appropriarsi di una parte cospicua delle già misere tredicesime pagate ai lavoratori, e la precarietà continuava a diffondersi indisturbata, incidendo negativamente anche sull’aspetto della sicurezza per chi è costretto a lavorare nei cantieri.

Abbandonati da quella “classe lavoratrice” che avrebbero dovuto degnamente rappresentare e che nei fatti hanno rinnegato, respinti dal Pd veltroniano che voleva sbarazzarsene, avrebbero dovuto aspettarsi la batosta elettorale di primavera, ma invece di correre ai ripari lasciando perdere i diritti degli omosessuali, la lotta all’omofobia, gli indulti ai criminali, le tutele ai tossici, la possibilità di adottare bambini per le coppie di travestiti – riconsegnando questi indecorosi cavalli di battaglia ai pessimi radicali – hanno preferito costituire in fretta e furia un cartello elettorale con i verdi e qualche altro gnomo della politica italiana “di sinistra”, rinunciando persino alla tradizionale falce e martello, e sono andati inevitabilmente incontro al disastro finale, suicidandosi in massa come dei lemming rossi.

Giunti a questo punto, l’evento di maggior rilievo non è stato il VII congresso di Rifondazione Comunista, nel mese di luglio, con la vittoria di Paolo Ferrero – seguito dall’Ernesto e da altri gruppi dell’ex minoranza interna – sul delfino gay di Bertinotti e presidente della regione Puglia, Nichi [Nichita] Vendola, e neppure il ritorno scaramantico ai vecchi simboli, da parte del “dinosauro” del centralismo democratico Oliviero Diliberto, ma, bensì, la partecipazione dell’onorevole Vladimiro Guadagno, in arte Vladimir Luxuria, ad una delle principali kermesse della televisione-spazzatura italiana – L’isola dei famosi, un’opportunità mediatica di guadagno, appunto, di affermazione e di propaganda di tutto rispetto – di cui si è avuta la clamorosa e “importante” notizia fin dal mese di giugno.

Quanto precede a dimostrazione che il suicidio politico di massa dei lemming rossi sta continuando e se i lavoratori del [non troppo] bel paese, stabili o precari che siano, devono lottare con il mostro della crisi, con le politiche economico-sociali di un governo che continua a ignorarli, con la paura della disoccupazione, con le rate del mutuo per la casa, con l’attacco tremontian-gelminiano al modello di istruzione che danneggerà i figli, e con le bollette delle utenze domestiche, i tardo-comunisti, ignorando bellamente tutto ciò, intravedono nella vittoria mediatica del travestito – pardon, transgender, per essere politicamente corretti – Vladimir Luxuria la principale occasione politica di riscatto dopo la recente débâcle elettorale, che ha sancito il divorzio definitivo con le “masse popolari” e i loro problemi reali.

Se il quotidiano Liberazione dell’elegante, affabile e telegenico guachiste Piero Sansonetti arriva al punto di paragonare Vladimir a Obama, Ferrero in persona gli offre un “posto” al parlamento europeo, per rappresentare degnamente l’Italia progressista …

E’ persino triste dover constatare fino a che punto il rutilante mondo della politica-spettacolo, il lato peggiore di quel berlusconismo contro il quale i nostri hanno dichiarato di voler combattere una guerra senza fine, li ha definitivamente fagocitati e trasformati nei pagliacci mediatici che oggi sono, completamente immemori della stessa tradizione comunista novecentesca, alla quale di tanto in tanto dicono ancora di ispirarsi, proiettandoli sul campo di una battaglia “virtuale” – non certo politica, sociale, storica – che non potranno che perdere, essendo le forze medianiche berlusconiane, anche loro dotate per altro di qualche contingente gay, ben più agguerrite e muovendosi sul terreno che più gli è congeniale fin dal loro apparire sulla scena.

E’ un po’ come lo scontro impari fra le lente divisioni di fanteria francese e lo strabiliante XIX corpo d’armata corazzato del generale Guderian nel 1940, fermato dallo stesso Hitler e dal OKW prima che potesse raggiungere Dunkerque… inutile precisare chi tiene il posto del generale tedesco, qui, oggi, in Italia e in campo mediatico.

Ad un Berlusconi settantenne quasi completamente rifatto, coperto di cerone più della mummia di Lenin, ma con molta minore dignità storica di questa ultima – che ancora “buca lo schermo”, che fa cucù alla Merkel davanti alle telecamere di mezzo mondo, che definisce il neo eletto presidente USA bello e abbronzato, che penalizza Sky e blocca il canone RAI, a tutto vantaggio della sua Mediaset e mantiene comunque alto gradimento personale e share – gli sparuti resti, gli scampoli e gli epigoni degenerati del comunismo italiano contrappongono ora immagini come quella di Vladimir Luxuria, un patetico travestito d’avanspettacolo di provincia spacciato, fin dalla cupa era bertinottiana in cui la fase finale del declino ha avuto inizio, per grande intelligenza politica.

Così, la competizione sul piccolo schermo ha consacrato Vladimir campione dell’Isola dei famosi e di tutta la trash-TV, sotto gli occhi della super siliconata Simona Ventura – una delle principali reginette dell’immondezzaio mediatico – ed è stata l’apoteosi, ma soltanto per gli obnubilati e i poveri di spirito, come se l’ex onorevole avesse sconfitto di botto la precarietà del lavoro, ottenuto un salario garantito per tutti e spuntato, finalmente, un aumento dignitoso delle pensioni minime.

Parafrasando con molta libertà il povero e dimenticato duo Marx & Engels, autore dello storico Manifesto del Partito Comunista, oggi possiamo ben dire, non senza qualche amarezza: uno spettro si aggira per le reti televisive italiane ed è lo spettro malconcio del comunismo.

 E con questo, anche per oggi ho finito di sparare sulla Croce Rossa.