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Non cercare mai di dire il tuo amore se non puoi sopportare di non essere compreso

di Francesco Lamendola - 02/12/2008


William Blake (1757-1827), il grande poeta, pittore e mistico inglese del primo Romanticismo, così cantava l'impossibilità dell'amore umano:

«Never seek to tell thy love,
love that never told can be;
for the gentle wind does move
silently, invisibly.

I told my love, I told my love,
I told her all my heart;
trembling, cold, in ghastly fears,
ah! she doth depart.

Soon as she was gone from me,
a traveller came by,
silently, invisibly:
he took her with a sigh.»

Ed ecco la traduzione italiana di A. Bertolotti (in Bertolotti, Montali, Saviano, «I testi e il metodo. La poesia e il teatro», Milano, Minerva Italica, 2003, p. 91):

«Non cercare mai di dire il tuo amore,
l'amore che mai può essere detto;
come il vento dolce si muove

silenzioso, invisibile.
Ho detto il mio amore, il mio amore,
le ho detto tutto il mio cuore;
tremando di freddo, pieno d'orrore e paura,
ma lei se ne andò.

Appena si fu allontanata da me,
un viaggiatore passò,
silenzioso, invisibile;
la prese con un sospiro.»

In questa poesia di William Blake, scritta nel 1793, troviamo una sobria ed efficace rappresentazione della impossibilità di esprimere l'amore umano.
È un'esperienza antica quanto l'uomo e che, tuttavia, incessantemente si ripete, perché gli esseri umani non sono in grado di trarne un insegnamento e continuano a disperdere parole d'amore che non verranno raccolte, che non verranno comprese.
William Blake non afferma che l'amore sia impossibile, ma che è impossibile esprimerlo: che è illusorio cercare, nel rapporto fra uomo e donna, quella totale comprensione o, addirittura, quella fusione di pensieri e sentimenti, tanto celebrata dalla concezione romantica.
Le parole d'amore sono indicibili: per quanto espresse con tutto il cuore e con tutta l'anima; per quanto profonde, sincere e sofferte; per quanto esse impongano l'abbandono di ogni schermo, difesa o nascondimento (per questo il poeta le pronunzia «tremando di freddo, / pieno d'orrore e paura»), la creatura amata non le comprenderà e se ne andrà altrove.
La prenderà il primo che passa, sorgendo dal nulla, e se la porterà via; e all'amante non resteranno che amari ricordi e dolorosi rimpianti.
Esagerazioni, pessimismo ad ogni costo?
Eppure, si tratta di una esperienza attestata in modo così concorde e universale, così regolare e, si vorrebbe dir quasi, così monotono, che essa parlerebbe da sola, se non vi si opponesse una forza imperiosa e istintiva che sgorga dal profondo, la quale non si rassegna ai duri insegnamenti dell'esperienza e vuol continuare a credere e a illudersi, a dispetto di tutto.
Abbiamo già esposto, in altra sede, le ragioni filosofiche per le quali riteniamo che non sia possibile che due esseri umani possano reciprocamente entrare in sintonia piena e totale (cfr. «Non  si  può  intuire  direttamente  l'oggetto, ma  solo  ri-crearlo  internamente», consultabile sul sito di Arianna Editrice).
Le riassumiamo brevemente.
Poco o nulla possiamo conoscere dell'oggetto, al di là della sua mera superficie; quando diciamo: tu, rivolgendoci a un altro ente, nulla in realtà sappiamo di esso, oltre al nome che gli applichiamo (di persona, di animale, di pianta, di minerale, ecc.).
Qualcuno sostiene che, mediante l'empatia, è possibile effettivamente penetrare oltre la scorza opaca che avvolge gli enti ed entrare in sintonia con la loro essenza profonda: una specie di riduzione eidetica (avrebbe detto Husserl) basata però, in questo caso, sull'affettività. Dopo aver eliminato tutto quello che quell'ente non è, tutto quello che è accidentale, tutto quello che gli fa da semplice sfondo, si potrebbe così entrare almeno in parte nella sfera del suo essere intimo, della sua essenza.
Forse è così; ma, prima di lasciarsi andare a un ingiustificato ottimismo, bisogna riflettere che l'empatia può trasformarsi in antipatia, e che una conoscenza basata su fattori emozionali e affettivi può facilmente rovesciarsi nel suo contrario. E allora quale delle due possibilità è quella vera: si conoscono le cose quando le si ama e si entra in sintonia immediata con esse, oppure quando le si odia e si prova per esse un sentimento di profonda avversione?  Potrebbero essere false entrambe, e non offrire - né l'una né l'altra - un approccio oggettivo alla conoscenza dell'altro, ma soltanto una deformazione soggettivistica di esso: di segno positivo o di segno negativo, questo - dal punto di vista gnoseologico - fa poca importanza.
Ma allora, se né la ragione, né i sensi, né l'affettività ci garantiscono un approccio "realistico" all'oggetto, vuol dire che siamo condannati a vivere in una dimensione eternamente solipsistica, ove il mondo intero finisce per ridursi entro i limitati orizzonti della mia mente individuale?
D'altra parte, è noto che un medesimo oggetto può essere percepito in maniera completamente diversa da due, o più, soggetti diversi; e, se questo è vero sul piano fisico, a maggior ragione lo è sul piano spirituale. Non basta: perfino il medesimo soggetto può percepire un oggetto in maniera diversa, in diversi momenti e differenti situazioni psicologiche.
I soldatini con i quali giocavamo quando eravamo un bambini di otto anni costituivano per noi degli oggetti vivi ed entusiasmanti, mentre al nostro io di adulti essi non appaiono più che come figurine di plastica o di terracotta, senza vita e senza splendore.
E quel vecchio edificio dai muri ricoperti d'edera e con le imposte sempre socchiuse, che per noi era il regno misterioso e un po' inquietante di chissà quali presenze, oggi non ci appare che come una vecchia casa un po' fatiscente, totalmente priva di fascino e di mistero.
Non parliamo poi della diversa percezione di quei particolari oggetti che sono le persone, specialmente quelle che hanno  acceso in noi forti sentimenti e che ora, forse, sono cadute in un autentico oblio e giacciono in un angolo semi-abbandonato della nostra memoria.
È a questo punto che ci appare la fondamentale giustezza della teoria di Cassirer, secondo il quale «il senso in cui un oggetto viene integrato nella coscienza individuale non è solo una 'interpretazione', ma una vera e propria fondazione interiore dell'oggetto, che Cassirer chiama 'oggettificazione': una presentazione o una ri-creazione interiore dell'oggetto di esperienza con la quale poi ognuno rimane a contatto».
Pertanto ciascuno di noi, entro certi limiti, si crea il proprio mondo e lo popola di oggetti più o meno significativi, più o meno luminosi e gratificanti, secondo le sue proprie aspettative e la sua propria visione della realtà.
Di ciò siamo talmente convinti, da spingerci anche oltre e immaginare che perfino dopo la morte (come abbiamo sostenuto nell'articolo «Alcune ipotesi sull'«altro mondo» e sulla mente non localizzata», sui siti di Edicolaweb e di Arianna Editrice), in sostanza, quel che ci attende non sarebbe altro che la solidificazione delle nostre paure, dei nostri desideri e delle nostre aspettative (per cui il materialista  convinto potrebbe anche precipitare nel nulla); concezione che, fra l'altro, è in accordo con antichissime forme di conoscenza esoterica, quale ad esempio quella espressa nel cosiddetto «Libro tibetano dei morti».

Da quanto detto, tuttavia, non vogliamo trarre la conclusione che l'amore sia impossibile, ma - per usare le parole di William Blake - che sia impossibile dirlo; o, se si preferisce, che sia impossibile dirlo con la speranza di essere compresi, e quindi realizzando una comunione d'anime.
L'amore non può essere compreso, perché non può essere detto; e non può essere detto, perché non esistono strumenti che ci permettano di penetrare nell'essenza del tu. Quel che possiamo fare, nel migliore dei casi, non è di penetrare nel tu, ma di ri-crearlo, di ri-fondarlo all'interno del nostro io; in altri termini, di creare un essere fantasmatico, frutto della proiezione dei nostri desideri e delle nostre aspettative, al quale assegniamo arbitrariamente il pronome tu, mentre non è che una sfaccettatura del nostro io.
Questa conclusione può apparire pessimistica, ma solo a quanti non vogliono accettare i reali limiti della natura umana.

Vi è, del resto, una possibilità di uscire dal vicolo cieco cui l'amore sembra destinato dalla nostra impossibilità di accedere all'io dell'altro; e, benché essa sia aperta, in teoria, a chiunque, in pratica viene percorsa solo da pochissimi individui eccezionali.
Si tratta di questo: desistere dalla vana fatica di voler penetrare a forza all'interno del tu e abbandonarsi, con piena fiducia e con infinita gratitudine, all'unico Tu che non delude e non può deludere, perché è il Tu del quale siamo parte, dal quale traiamo origine e verso il quale muoviamo, anche se inconsapevolmente: ossia al Tu dell'Essere.
Il Tu dell'Essere ci si rivela, almeno parzialmente, nella misura in cui ci poniamo rispetto ad esso in maniera totalmente disinteressata, così come non siamo né saremo mai in grado di fare con un tu limitato, esigente ed imprevedibile, come lo è - se vogliamo essere sinceri e guardarci dentro onestamente - il nostro io.
L'Essere è la pienezza che illumina di luce propria (come aveva intuito Dante), per cui chi riesce ad avvicinarsi al suo mistero con una offerta di amore mistico, totalmente disinteressata e totalmente fiduciosa, riceve anche la grazia di una visione più chiara e penetrante rispetto agli altri enti, dunque anche rispetto ai tu che formano i nodi decisivi e gli incontri determinanti del nostro cammino esistenziale.
Come dire che solo quando siamo in grado di levare lo sguardo verso il Tutto, possiamo scorgere con maggiore chiarezza anche i particolari. In pratica, avviene il contrario di quel che si verifica nel mondo sensibile, dove prima noi scorgiamo i dettagli delle cose ed i singoli oggetti, poi ci innalziamo a contemplare il tutto; prima lo scalatore vede davanti a sé le pareti di roccia, e solo quando arriva in cima può ammirare l'immenso panorama che si stende ai suoi piedi.
Il mistico, infatti, è colui che vede dopo aver chiuso gli occhi, secondo l'antica massima di Platone, secondo la quale noi cominciamo a vedere realmente solo quando gli occhi del corpo si sono chiusi: nel buio, che diventa luce, il mistero delle cose si rivela dall'interno.
Ecco allora che il Tu dell'Essere, nella chiara luminosità dell'Assoluto, ci rivela anche il mistero dei singoli esseri, dei singoli tu; e ci permette - fino a un certo punto - di gettare uno sguardo là dove, procedendo direttamente dall'io al tu, troveremmo la barriera invalicabile che separa il fenomeno, la  cosa quale ci si manifesta, dal noumeno, ossia la cosa in sé.
L'Essere, dunque, diviene garante della conoscenza reciproca fra gli enti e della possibilità di pronunciare parole d'amore dall'io al tu; e, fuori di quella suprema garanzia, le parole d'amore divengono indicibili e menzognere, né vengono comprese, né possono essere ricambiate, nel senso più vero e profondo del termine.