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Mondo in fiamme. Barbarie o civiltà

di Edgar Morin - 15/02/2006

Fonte: Avvenire


 
   
Il ventesimo secolo ha inventato la mostruosità della nazione monoetnica. All’interno degli imperi che regnavano sull’Europa centrale e sull’Europa dell’est all’inizio del ventesimo secolo – austroungarico, ottomano, zarista – operavano forze d’integrazione e d’intesa tra i popoli.

Il ventesimo secolo ci ha permesso di misurare la barbarie prodotta dall’idea di nazione quando essa è fondata sulla volontà di purificazione etnica. Naturalmente non si può ridurre la nazione ai suoi effetti barbari, poiché essa è anche operatrice di integrazione tra etnie. Detto questo, il ventesimo secolo ha inventato la mostruosità della nazione monoetnica. All’interno degli imperi che regnavano sull’Europa centrale e sull’Europa dell’est all’inizio del ventesimo secolo – austroungarico, ottomano, zarista – operavano forze d’integrazione e d’intesa tra i popoli. Nell’impero ottomano, ad esempio, prevaleva la tolleranza religiosa e non l’accanimento a convertire. Quanto all’impero austroungarico, già prima del primo conflitto mondiale si avviava, malgrado e a causa di tutti i dissensi e gli scontenti dei suoi numerosi popoli, verso il riconoscimento di una certa autonomia e la coesistenza pacifica delle nazionalità: ungheresi, cechi, croati. Purtroppo la volontà dei vincitori, in particolare della Francia, nel 1918 ha portato all’incrinarsi di quegli equilibri. I vincitori hanno imposto il formarsi di nazioni che, in seguito alla disgregazione e alle ripartizioni arbitrarie, si sono trovate di colpo a sprofondare nella logica plurietnica delle nazioni moderne (quanto a Serbia e Grecia, si erano già emancipate nel diciannovesimo secolo). Ciascuna di loro, comprendendo in sé significative minoranze etniche e religiose, ha voluto pensarsi in forma monoetnica.

Lo storico Toynbee, testimone della guerra greco-turca del 1921, definì disastrosa l’importazione in quelle regioni dell’idea occidentale di nazione. Si produsse allora una doppia purificazione etnica: turca e greca. I turchi hanno espulso dall’Asia minore le consistenti popolazioni greche che vi erano stanziate fin dall’antichità, deportandole in Macedonia. Le popolazioni turche della Macedonia sono state invece deportate in Turchia.

Nel 1990 la nazione jugoslava era indubbiamente incompiuta nel suo process o d’integrazione dei popoli che la costituivano, però il processo era iniziato. È vero che essa aveva subito una dittatura e che l’integrazione poteva essere considerata imposta dal totalitarismo, un totalitarismo comunque moderato dopo la rottura con l’Urss. Quella nazione incompiuta si è smembrata in più nazioni in uno scatenarsi di crudeltà e barbarie guerriera. L’obiettivo della purificazione etnica veniva perseguito sia dai serbi sia dai croati, che hanno espulso consistenti popolazioni serbe. A Sarajevo restava una certa polietnicità, con serbi che occupavano ancora posizioni importanti nel potere, nella stampa ecc. Il male della purificazione si ritrova, questa volta in maniera pacifica, nella separazione tra cechi e slovacchi.

Non sto parlando espressamente di purificazione nazista, che può essere considerata il culmine dell’ossessione purificatrice di una nazione e che purtroppo affonda le radici nella storia europea. Osservo tuttavia che, dopo la vittoria degli Alleati nel 1945, si verificano fenomeni di purificazione delle popolazioni tedesche, deportate dalla Slesia divenuta polacca e dai monti Sudeti ritornati cechi. Anche dei polacchi sono stati deportati dalle zone ucraine annesse dai sovietici. E restano ancora, nelle nostre nazioni occidentali, minoranze convinte che la presenza straniera di emigrati naturalizzati contamini l’identità nazionale. La xenofobia, l’antisemitismo persistono nonostante l’integrazione europea. I nazionalismi sciovinisti, fondati sull’idea di purezza, non sono morti.

Quest’epoca di mondializzazione comporta gravi pericoli. Come sempre, civiltà e barbarie si affiancano. Si assiste al ritorno di virulenze etniche, nazionali e religiose in moltissimi Paesi e regioni. Certe ondate di violenza possono farci pensare che sia possibile una guerra tra religioni o tra culture, o addirittura tra civiltà. Ciò dimostra, ancora una volta, che la mondializzazione presenta aspetti contraddittori e divergenti. Si assiste al tempo stesso a una universalizzazione tecno-economica e a resistenze, compreso il ritorno a religioni e a culti particolaristici.

Un’idea ha cominciato a farsi strada negli ultimi decenni del ventesimo secolo, anche se ha origini più antiche: l’idea di una navicella spaziale, la terra, veliero in cui naviga l’umanità. La navicella è spinta oggi da quattro motori: scienza, tecnica, economia e profitto, e i motori non sono controllati. Non mi riconosco in un pensiero binario e non dico che la scienza sia cattiva, anzi: dico che essa ha sviluppato poteri di distruzione inauditi e incontrollati. L’attuale sviluppo tecno-economico produce il degrado della biosfera che a sua volta conduce al degrado della civiltà umana. In altri termini, la navicella spaziale va incontro a catastrofi senza che nessuno la possa controllare.

Tutto ciò mostra le ambivalenze e le complessità di questa doppia pianetizzazione. Non potrebbe l’Europa produrre nuovi antidoti che scaturiscano dalla sua cultura, a partire da una politica di dialogo e di simbiosi, una politica di civiltà che promuova le qualità della vita e non solo la quantità, che fermi la corsa all’egemonia? Non potrebbe trarre nuove risorse dall’umanesimo planetario che ha forgiato in passato? Non potrebbe reinventare l’umanesimo?

(testo tratto dal volume “Cultura e barbarie” in uscita nei prossimi mesi per i tipi di Raffaello Cortina Editore; traduzione di Anna Maria Brogi)