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La lezione di De Martino, fu lo studioso del tarantismo

di Marino Niola - 03/12/2008

 
Fu lo studioso del tarantismo pugliese, di quello che lui stesso definì come "l´etnos del Mezzogiorno, il dolorante mondo dei contadini e dei pastori"

Pra le altezze rarefatte della ragione idealistica e le convulsioni ritmiche delle tarantolate salentine, tra la severità sussiegosa e distante dello storicismo crociano e l´immersione commossa nelle arcaiche profondità del Sud. Tra questi estremi si snoda l´intera vicenda umana e scientifica di Ernesto De Martino, padre dell´antropologia italiana, di cui il primo dicembre ricorreva il centenario della nascita.
Ragioni prima politiche e poi teoriche - due dimensioni che nella sua opera non si separeranno mai - guidano il cammino del grande intellettuale napoletano oltre le colonne d´Ercole di Eboli. Comincia negli anni Cinquanta la nekya meridionale di De Martino, la sua discesa negli inferi di un Mezzogiorno che è al tempo stesso una dimensione antropologica, una regione dell´anima e una ferita meridiana della storia.
Nel profondo Sud il raffinato filosofo trova quel che altri grandi antropologi come Lévi-Strauss e Malinowski cercano in terre lontane. Una nuova coscienza dei limiti e delle virtù della propria civiltà. Un modo di guardare il proprio sé, individuale e collettivo, nello specchio di una abissale differenza. Un´operazione problematica, spesso traumatica, che espone il ricercatore al rischio di veder vacillare le proprie certezze, di revocare in questione i fondamenti stessi della propria identità, del proprio essere nel mondo. Esattamente come accade all´intellettuale De Martino ascoltando la nenia funebre intonata da una contadina lucana con suoni, parole e gesti da tragedia greca. Lungi dal considerare le lacrime della donna come una pittoresca, o superstiziosa sopravvivenza, lo studioso si interroga su se stesso e sulla sua cultura, sullo scandalo di quella faglia storica così profonda da rendere una sua concittadina, e contemporanea, lontana da lui quanto un´aborigena australiana. Scheggia di un´altra storia non più nostra, avrebbe detto Pasolini. Oggetto di ricerca, se non di esperimento.
Il primitivo di De Martino è dunque quello che lui stesso definisce "l´etnos del Mezzogiorno, il dolorante mondo dei contadini e dei suoi pastori". Una umanità oppressa dove la magia aiuta gli uomini a far fronte alla precarietà dell´esistenza e rappresenta un antidoto simbolico e condiviso, contro quella che De Martino definisce, con termine heideggeriano, la crisi della presenza.
La chiave di volta dell´antropologia storica demartiniana è la ricerca sul tarantismo pugliese condotta alla fine degli anni Cinquanta nel Salento. Dove la cura musicale del morso della tarantola diventa il paradigma di un orizzonte magico e simbolico in grado di dare un nome, anche se non un rimedio, al male e alla miseria di un´umanità minore. Dall´indagine sul tarantismo nasce La terra del rimorso, il libro più famoso dell´antropologia italiana.
Che sia tra i selvaggi delle Americhe o fra i contadini italiani, il viaggio etnografico è in ogni caso un´uscita da sé, un distacco dai limiti angusti del proprio angolo di mondo per cercare, nelle alterità vicine e lontane, un´immagine più compiuta di sé che comprenda perfino il modo in cui ci rapportiamo a queste alterità. Il frutto più maturo dell´umanesimo occidentale è la capacità di negarsi, diceva Cesare Cases. A questa autocritica culturale De Martino contribuì con la fondazione della leggendaria "collana viola" di Einaudi, concepita insieme a Cesare Pavese, con lo scopo dichiarato di sprovincializzare la cultura italiana, stretta tra idealismo, marxismo e pensiero cattolico. Rendendo in questo modo finalmente accessibili autori proibiti come Jung, Kerényi, Eliade, Mauss, Durkheim.
Ma, quel che più conta, questa critica De Martino la sbatté in faccia all´Italia del miracolo economico, che ancora si cullava nell´illusione delle magnifiche sorti e progressive, nell´escatologia del benessere, e che era improvvisamente costretta a contemplare con stupore orrificato le contadine lucane che si percuotevano il petto ululando come delle menadi in lutto, o le tarantolate salentine che si arrampicavano sugli altari con l´agilità spiritata di ragni equilibristi. Era il lato oscuro dello sviluppo, quella non-storia sofferente che offriva alla trasformazione del paese un doppio tributo: quello di chi emigrava e quello di chi restava. Spaesamento da una parte e arretratezza dall´altra. Le donne tarantolate erano storicamente e anagraficamente sorelle del Rocco di Visconti e delle madri dolenti di Pasolini. Ma anche della folla stracciata e sognante di Miracolo a Milano.
Oltre a capolavori come Il mondo magico, Sud e magia e Morte e pianto rituale nel mondo antico - vincitore del Viareggio 1958 - l´eredità che il grande antropologo, scomparso nel 1965, ha lasciato alla cultura italiana consiste in una officina antropologica che non ha mai smesso di produrre sollecitazioni a pensare. Soprattutto oggi che il mondo, come lui stesso diceva, ha più che mai fame di simboli per dire i suoi mali. Per lenire i suoi dolori.