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Palestina: un anno dopo Annapolis

di Eugenio Roscini Vitali - 04/12/2008

 
 
 

E’ passato un anno dalla conferenza di Annapolis, il negoziato di pace che, secondo il presidente americano George W. Bush, avrebbe dovuto mettere fine alla crisi israelo-palestinese e dare stabilità ai delicati equilibri mediorientali. In realtà l’impegno preso dal premier israeliano Ehud Olmert e dal presidente palestinese Mahmud Abbas (Abu Mazen) non si è dimostrato altro che un tenue soffio di speranza, l’ennesima illusione di pace che si è scontrata con la realtà di tutti i giorni, quella che il popolo palestinese vive ora dopo ora a Gerusalemme est, Betlemme, Ramallah, Hebron, Nablus, Jericho, Jenin, Gaza… Di quanto inutile sia stata la conferenza di Annapolis ne parla il segretario generale dell’Iniziativa Nazionale Palestinese, Mustafa Barghouthi, che in un articolo pubblicato dall’agenzia di stampa Maan riassume la situazione con la fredda e disarmante razionalità dei numeri.

Il piano concordato il 27 novembre 2007 nel Maryland prevedeva il raggiungimento di un accordo che, entro la fine del 2008, avrebbe dovuto affrontare e risolvere i punti cardine della questione, primi fra tutti il problema del ritorno dei profughi, lo status di Gerusalemme est e la definizione dei confini. Quelli che ci propone il dottor Barghouthi, ex ministro dell'Informazione nel governo di unità nazionale ed oggi deputato del Consiglio Legislativo Palestinese, eletto in una lista indipendente, sono dati scaturiti da un attenta esame delle statistiche. Si tratta di cifre e percentuali spietate, ma vere come vero è il numero di attacchi israeliani - cresciuti del 300% in dodici mesi - o quello degli insediamenti, salito di 20 volte nella West Bank e di 38 nella sola Gerusalemme, o dei checkpoints, passati da 521 a 699.

L’analisi che Barghouthi ci mette a disposizione sottolinea quanto la conferenza di Annapolis si sia dimostrata un negoziato a senso unico, con i palestinesi che, nonostante gli sforzi, non hanno la capacità di trattare con gli israeliani che, invece, impongono sul terreno la ragione della forza. Sono stati contati 3.063 attacchi in un anno, 1.700 nella West Bank e 1.363 nella Striscia di Gaza; 543 palestinesi uccisi, 65 nella West Bank e 478 nella Striscia di Gaza, 71 dei quali ancora minorenni; 2.362 palestinesi feriti, 1.125 nella West Bank e 1237 nella Striscia di Gaza, 138 dei quali ragazzi o bambini; 770 prigionieri rilasciati a fronte dei 4.945 imprigionati, 4351 catturati nella West Bank e 547 nella Striscia di Gaza, 351 dei quali di età inferiore ai 18 anni.

Dal 2006, inizio dell’assedio della Striscia di Gaza, i pazienti morti negli ospedali per mancanza di medicinali sono stati più di 260. Secondo le organizzazioni umanitarie, se non si prendono provvedimenti immediati la crisi sanitaria è certa: sono 160 i tipi di farmaci che mancano a causa del blocco dei valichi e 130 quelli che stanno per terminare; 90 le apparecchiature fuori uso, 31 delle quali macchine per la dialisi. Eccetto la momentanea apertura dei corridoi di transito delle merci, come nel caso di Kerem Shalom, da cui sono passate quantità limitate di viveri e medicinali, e di Karni, sbloccato per la consegna di gasolio industriale, sono più di 23 giorni che la Striscia di Gaza è isolata. La quantità di combustibile che arriva da Israele non sopperisce al fabbisogno della centrale elettrica che è a continuo rischio di blocco e mancano anche il gas da cucina e la benzina per le automobili.

Ci sono 121 insediamenti e 102 avamposti israeliani nella West Bank, e sono 462 mila i coloni che li abitano; 2.600 le nuove abitazioni costruite, il 55% delle quali oltre il muro di separazione, il che equivale ad un aumento dell’offerta del 550%. Teoricamente il territorio palestinese occupato è dell’1,5%; praticamente le infrastrutture israeliane utilizzano più del 40% della Palestina che ricade sotto il controllo dell’Autorità Nazionale. A Gerusalemme est gli sfratti sono all’ordine del giorno e nell’agosto scorso le autorità israeliane hanno autorizzato, anche se in modo preliminare, lo sviluppo di Maskiot, un insediamento ebraico che sorge nella valle del Jordano, ad est di Jenin. Nella West Bank il 74% delle strade principali è ormai sotto il controllo delle Forze di Difesa Israeliane: 699 i checkpoint registrati il mese scorso, 178 in più dello scorso anno; 30 le persone uccise negli ultimi 12 mesi in prossimità dei posti di controllo, tra loro anche ragazzi.

La politica israeliana dell’apartheid continua inesorabile anche nei beni di prima necessità. L’acqua pro capite a disposizione dei palestinesi è 1/6 di quella fornita agli israeliani; i consumi per uso domestico parlano di 60 litri al giorno per ogni palestinese, 220 per ogni israeliano. Diverso il discorso relativo ai prezzi: considerando il prezzo dei generi di consumo in shekel (moneta israeliana il cui valore corrisponde a circa 0,256 dollari americani), rispetto agli israeliani i palestinesi pagano l’elettricità e l’acqua più del doppio (13,0 – 6,3 ; 5,0 – 2,4). Infine, del muro di separazione, la cui costruzione ha raggiunto i 409 chilometri (57%) con aggiunto l’innalzamento di altri 66 chilometri (9%) che sono ancora in fare di realizzazione. Quanda sarà completata, la barriera di “sicurezza” raggiungerà una lunghezza di 723 chilometri e si svilupperà per il 14% lungo la linea di confine stabilita dalle Nazioni Unite e per l’86% all’interno della West Bank.

Questa è l’immagine della Palestina che ci da Mustafa Barghouthi a un anno dalla conferenza di Annapolis. Un po’ poco rispetto agli obiettivi che George W. Bush, Ehud Olmert e Mahmud Abbas si erano preposti; il meno peggio, se si pensa a cosa potrebbe accadere se dalle prossime elezioni israeliane dovesse uscire vincitore Binyamin Netanyahu.