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Terrorista

di Giuseppe Giaccio - 04/12/2008

 
 



All’indomani dell’11 settembre 2001 dopo il quale, secondo la retorica ufficiale, il mondo non sarebbe stato più quello di prima, gli statunitensi scoprirono con sgomento che il sogno americano continuava ad avere dei nemici. La sconfitta militare del nazismo prima e quella incruenta del comunismo sovietico poi, l’aprirsi della Cina al capitalismo e al consumismo occidentale, la globalizzazione descritta dai suoi aedi come un gioco a somma positiva, non erano bastati ad estirpare dalla faccia della Terra la mala pianta che si opponeva al “destino manifesto” che assegnava al paese a stelle e strisce il compito di rendere felice l’umanità intera, a condizione, ovviamente, che si facesse illuminare dalla fiaccola che si vede brillare a Manhattan. Di qui la domanda proposta, all’epoca, da tutti i mass media americani e riecheggiata ai quattro angoli del pianeta: “Perché ci odiano? Cosa abbiamo fatto di male per meritarci una simile tragedia?”. Dietro questo interrogativo si intuisce lo smarrimento di chi si sente sinceramente innocente e dà per scontato che le colpe, proiettate all’esterno, siano sempre e solo degli altri, incapaci di comprendere la missione salvifica affidata agli americani. Lo schema sottostante è quello classico: noi/loro, dove il primo termine della coppia costituisce il polo positivo, rappresentato dagli statunitensi e dalla loro way of life, il secondo quello negativo, rappresentato dall’islamismo. Pochi giorni dopo il crollo delle Torri gemelle, Richard Brookhiser riportava sul New York Observer il punto di vista della destra repubblicana in questo modo: “I perdenti del mondo ci odiano perché siamo potenti, ricchi e bravi (o almeno migliori di loro). Quando coloro che hanno agito spinti da quell’odio saranno stati ripagati sette volte sette, ricostruiremo le World Trade Towers, e con un piano in più, perché si rodano il fegato”. I democratici, a parte il linguaggio più sfumato, non dicono cose molto diverse.
John Updike prova invece ad esaminare la questione partendo dagli Stati Uniti, ad assumere un punto di vista interno. E lo fa ricorrendo agli strumenti della sua arte di poeta, critico e romanziere navigato (dopo il suo esordio, avvenuto nel 1959, ha pubblicato una sessantina di libri, ha vinto un premio Pulitzer e un American Book Award, ed è considerato uno dei più importanti scrittori americani viventi). L’interrogativo di cui sopra risuona anche nella sua ultima fatica narrativa, Terrorista, espressione letteraria delle paure che hanno percorso la società statunitense tanto gravemente ferita dal “Nine Eleven”. A porselo è un uomo politico: “Quella gente là… Perché vuole fare quelle cose orribili? Perché ci odia? Che cosa c’è da odiare?”. La risposta della sua segretaria è una dichiarazione di fede nell’american dream, la sua tranquillizzante riaffermazione: “Odia la luce. Come gli scarafaggi. Come i pipistrelli. La luce risplende nelle tenebre e le tenebre non l’hanno compresa”. La citazione, tratta dal prologo del vangelo di Giovanni, sembra suggerire che, per l’autore, a confliggere sono due fondamentalismi. Ad avviso di Updike, peraltro, le ragioni che rendono gli Stati Uniti oggetto di odio per gli stranieri, nella fattispecie mussulmani, sono, probabilmente, le stesse che spingono molti americani, se non proprio a detestare il loro stesso paese, certo a sentirvisi parecchio a disagio. Al punto di scappare, non si sa bene dove, purché lontano da un realtà percepita come castrante e disumana, come capita a Harry “Coniglio” Angstrom in uno dei più felici esiti narrativi di Updike, Rubbit, run (Corri, coniglio, Guanda). I protagonisti di questo suo recente romanzo, il giovane diciottenne Ahmad, il terrorista arabo-americano aspirante martire-suicida del titolo, e Jack Levy, il professore ebreo che lavora in un centro di orientamento per studenti di una scuola pubblica e che riesce a sventare l’attentato progettato dalla rete terroristica nella quale Ahamd è rimasto impigliato, benché schierati formalmente su fronti opposti, condividono la medesima, spietata e disincantata visione degli Usa: “L’America è tutta lastricata di uno spesso strato di grasso e catrame, un pasticcio vischioso che va dall’Atlantico al Pacifico e nel quale siamo tutti intrappolati”. È Levy che parla, ma potrebbe essere benissimo il mancato terrorista. Costui aggiungerebbe alla descrizione appena fatta qualche motivazione a sfondo religioso (assente in Levy, che è un ebreo secolarizzato e non credente), qualche spruzzata di teologia islamica appresa di seconda mano dal suo maestro spirituale, nonché mente dell’attentato, Shaikh Rashid, ma nella sostanza non si discosterebbe da questo giudizio negativo. Entrambi vivono a New Prospect, cittadina del New Jersey, una delle tante “trappole” di cui è costellata l’America mostrataci da Updike, che, come capita spesso nei suoi romanzi, non è quella della Grande Mela, familiare ai turisti beceri del mordi e fuggi immortalati dai film dei fratelli Vanzina, ma quella della provincia, teatro anche di tante trame horror di Stephen King o di massacri tragicamente reali come quello documentato da Michel Moore in Bowling a Columbine. È l’America profonda, la small town America, lontana dalle luci della ribalta, dove si fa presto ad accorgersi, molto più presto che a New York, che “quando hai esaurito l’entusiasmo, l’America non ti offre granché. Non ti lascia nemmeno morire, con gli ospedali che succhiano tutti i soldi che possono all’assicurazione sanitaria”. Dove la tanto esaltata religione civile è solo una fragile facciata, un vuoto scenario di cartapesta che non riesce a nascondere la realtà fatta di lotta per la sopravvivenza, di esclusione e discriminazioni, come Ahmad scopre in occasione della cerimonia del conferimento dei diplomi di scuola media superiore. Dove il cristianesimo è ridotto a uno show business gestito da scaltri predicatori che possono solo suscitare il disgusto in Ahmad, la cui vita, al pari del resto di quella di Levy, è segnata da una solitudine che l’uno e l’altro cercano inutilmente di attenuare, il primo ricorrendo a un Allah che funge da sostituto di un padre che lo ha abbandonato in tenera età e di una madre tutta presa dalle sue numerose avventure sentimental-sessuali e da improbabili velleità artistiche, il secondo lasciandosi andare a un’effimera storia d’amore senile con la madre del ragazzo, non riuscendo più a trovare motivi di attrazione in sua moglie Beth, che passa le giornate mangiando e ingrassando davanti al televisore perennemente acceso. È l’America in cui adolescenti “impregnati di disperazione” trovano sfogo in guerre per bande (è il caso di Tylenol) e nella droga e considerano del tutto normale vendere il proprio corpo, come capita a Joryleen, la ragazza di cui Ahmad è innamorato. Privi di prospettive, questi giovani “credono che la mente umana sia eternamente in vacanza e che da oggi in poi non avrà altro da fare che assimilare divertimento”. È in una realtà così disgregata che può attecchire il terrorismo. Invece di guardare la pagliuzza nell’occhio (islamico) altrui – sembra dire Updike – guardiamo la trave che è nel nostro.
Il giudizio che Ahmad esprime su questo mondo disperato e disperante, di cui anch’egli fa parte, è, in apparenza, senza appello: “Ciechi animali in branco che sbattono l’uno contro l’altro alla ricerca di un odore che li conforti”. Eppure, in queste parole così dure c’è forse la spiegazione del fallimento dell’attentato terroristico. Ahmad è affascinato dagli insetti, che ama osservare, scrutare, e che non riesce ad uccidere, colto forse da un senso di pietà nei loro confronti. Probabilmente, è proprio ad essi che pensa quando, chiuso nella cabina del camion imbottito di esplosivo che dovrebbe scoppiare sotto il Lincoln Tunnel, si vede circondato da uomini, donne e bambini rinserrati nelle loro scatole motorizzate, tanti destini che lui sta per spezzare e che lentamente si avvicinano a quella grande bocca nera alla quale resteranno attaccati per sempre come mosche. Intorno a lui, “la grande città brulica: gente elegante, gente trasandata, qualcuno bello, ma per la maggior parte no, e tutti ridotti alle dimensioni di insetti dagli edifici imponenti che li circondano, eppure corrono, vanno di fretta, concentrati, sotto il lattiginoso sole mattutino, su un qualche progetto, un qualche intrigo, una qualche speranza che si tengono per sé, la ragione per vivere un altro giorno, ciascuno impalato sul paletto della coscienza, rivolto al miglioramento di sé e all’autoconservazione. Questo, soltanto questo. I diavoli, pensa Ahmad, mi hanno portato via il mio Dio”. In lui, la pietas che alberga in ogni cuore umano alla fine prevale e gli consente di uscire dal tunnel, sia metaforico che reale, in cui si era cacciato, e di rivedere la luce del giorno. Molti di coloro che si collocano dall’altra parte della barricata, e che un giorno sì e l’altro pure ci impartiscono lezioni di democrazia, avrebbero bisogno di compiere un tragitto simile.

Autore: John Updike
Titolo: Terrorista
Edizioni: Guanda, Parma 2007
Pagine: 293

[tratto da Diorama letterario n. 288]