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Sfogliando il libro della propria vita verso le pagine bianche, fatte di puro ascolto

di Francesco Lamendola - 05/12/2008


 

Le ombre invernali scendono sul lago al tramonto, incendiando la superficie dell'acqua di un rosso sanguigno e facendo risaltare, per contrasto, la linea nera del canneto sulla riva e le sagome incombenti dei monti, che lo chiudono nel mistero della notte imminente.
Fa freddo, soffia il vento e ogni forma di vita sembra essersi ritratta, scomparendo chissà dove. In realtà si è rifugiata negli anfratti più riparati, nel calore delle tane, sotto la corteccia degli alberi, neri cunicoli scavati entro la terra.
Rimpiattata nel buio, essa attende il gelo e la neve dei prossimi mesi, per poi esplorare timidamente la soglia dell'aria aperta, ai primi tepori primaverili.
Per intanto, tace e attende, paziente.
Ecco, ora l'ultimo raggio di luce è scomparso e l'aria bruna inghiotte ogni cosa, spegnendo perfino il ricordo delle brevi ore di sole. Il dì si riduce, in queste valli ai piedi delle Alpi, ad avari intervalli di luce fra l'alba e il tramonto, sempre più fugaci e sempre più freddi.
Rimane soltanto il mormorio del fiume che scende giù dalle rocce ed entra nel lago, prima di imboccare la valle che lo conduce dritto verso l'antico borgo di case in pietra, ai piedi del solenne santuario che pare sospeso nel vuoto, lassù, a mezza costa, affacciato come un nido d'aquila che solo a piedi, e con una lunga salita, è dato raggiungere.
Quando l'ultima scaglia di luce si tuffa nell'acqua e la notte dilaga ed avvolge l'intero paesaggio, un senso di solitudine e quasi di sbigottimento si diffonde nell'animo: come un'eco lontana, forse, di ciò che i nostri lontanissimi progenitori provarono quando videro avanzare le stesse ombre, lo stesso freddo invernale; quando videro tramontare il sole su quel mondo che, per essi, era ancora vergine e pieno di mistero, di minaccia e di prodigio.

Come sempre, cercando un amico fidato nei momenti di malinconia o di pensosità, apro il mio inseparabile Virgilio, dalle pagine ormai consumate per l'uso continuo e incessante; lo sfoglio e leggo a caso i primi versi che incontra lo sguardo: questi, bellissimi come tutti gli altri del sommo poeta latino («Georgiche», II, 315-42):

«Nec tibi tam prudens quisquam persuadeat auctor
tellurem borea rigidam spirante movere.
Rura gelu tum claudit hiemps nec semine iacto
concretum patitur radicem adfigere terrae.
Optima vinetis satio, cum vere rubenti
candida venit avis longis invisa colubris,
prima vel autumni sub frigora, cum rapidus Sol
nondum hiemem contingit equis, iam praeterit aestas.
Ver adeo frondi nemorum, ver utile silvis;
vere tument terrae et genitalia semina poscunt.
Tum pater omnipotens fecundis imbribus Aether
coniugis in gremium laetae descendit et omnis
magnus alit magno commixtus corpore fetus.
Avia tum resonant avibus virgulta canoris
et Venerem certis repetunt armenta diebus;
parturit almus ager zephyrique tepentibus auris
laxant arva sinus; superat tener omnibus umor;
inque novos soles audent se germina tuto
credere, nec metuit surgentis pampinus austros
aut actum caelo magnis aquilonibus imbrem,
sed trudit gemmas et frondes explicat omnis.
Non alios prima crescentis origine mundi
inluxisse dies aliumve habuisse tenorem
crediderim; ver illud erat, ver magnus agebat
orbis et hibernis parcebant flatibus euri,
cum primae lucem pecudes haussere virumque
terrea progenies duris caput extulit arvis
immissaeque ferae silvis et sidera caelo».

Versi che, nella traduzione italiana di Enzio Cetrangolo (in: Virgilio, «Tutte le opere», Firenze, Sansoni, 1993, p. 160), suonano così:

«Nessuno per quanto prudente ti spinga a toccare
la terra gelata dal vento di Bòrea: l'inverno
chiude le zolle coi rigidi strati di ghiaccio
e non lascia, dove già la semenza fu sparsa,
che affondi nel suolo la radice indurita.
Il tempo di piantare le viti è buono a primavera
quando viene la bianca cicogna nemica dei serpi
o d'autunno alle prime frescure quando i cavalli
del Sole, rapiti dal fuoco, non hanno raggiunto
ancora l'inverno e ormai l'estate è passata.
Ma primavera gli alberi, primavera le selve
riveste di figlie; a primavera un'ansia nuova
di vita riempie la terra. Allora l'Etere grande,
padre antico del mondo, scende nel grembo
con pioggia ferace ala sposa contenta e avvinto
al grande suo corpo tutta di sé la feconda
immenso generatore. Allora un canto dii uccelli
festoso risuona tra 'l verde di macchie lontane
e gli armenti aspettano i giorni d'amore;
i campi aprono il seno al soffio di Zefiro,
un alito umido scorre su l'erbe, ai nuovi
raggi del sole i germi si affidano e il tralcio
non teme il risveglio di Austro o il grande Aquilone
che a turbine scaccia la pioggia dal cielo,
ma tutte sporge le gemme e spiega le fronde.
Così risplendevano i giorni del mondo nascente,
era di questa dolcezza il primo respiro dell'aria;
primavera fu quella, primavera portava la terra
né forte come d'inverno l'Euro spirava
quando i primi animali bevvero a gorghi la luce
e la razza degli uomini dura levò il capo dal suolo
e vide nei boschi le belve e in cielo le stelle.»

Saggezza di Virgilio; umanità e profonda, inconfondibile pietas di Virgilio.
Proprio come basta una sola nota d'organo o di clavicembalo per riconoscere immediatamente la divina armonia di Bach, così basta un solo verso per riconoscere la grazia incomparabile, la dolente e struggente bellezza della poesia di Virgilio; di più: la sua santità, se santo è colui che aspira con ogni sua fibra alla purezza dell'anima e alla fedeltà verso il divino.
E - come per Dante - i versi di Virgilio non finiscono mai di dire quel che hanno da dire; non concludono mai il loro messaggio, non esauriscono mai il loro significato: ma sempre, sempre si prestano a un secondo, un terzo, un decimo e un centesimo livello di lettura; sempre dischiudono un ulteriore orizzonte, come quando si alza la nebbia e un paesaggio sconosciuto ci si offre allo sguardo, quasi per magia.

Non puoi lavorare la terra nell'aspra stagione invernale; non puoi forzare la zolla ad aprirsi per accogliere il seme, quando già la morsa del ghiaccio l'afferra e la stringe. Ma verrà la primavera, quando alberi e boschi si rivestiranno di foglie, quando un'ansia di vita nuova si spanderà gioiosamente sopra la terra: allora la zolla si aprirà, feconda, al lavoro dell'uomo, per dispensargli - madre generosa - i suoi frutti squisiti e abbondanti.
Sì, c'è una saggezza profonda in questi versi; una saggezza che può apparire evidente e perfino banale a una lettura distratta, mentre racchiude l'essenza stessa dell'arte di vivere: perché tale è la saggezza del mondo rurale, della civiltà contadina: sembra rozza ed elementare, mentre alberga in se stessa la saggezza medesima della terra, nostra nobile madre.
Non è forse questo l'errore più frequente che facciamo, nei nostri rapporti con noi stessi e con gli altri: quello di voler seminare quando non è la stagione, e di voler raccogliere quando nessuna semente ha fecondato la zolla? Quello di non rispettare i tempi stabiliti dalle leggi dell'armonia cosmica, quello di volerli forzare, per avere le cose quando lo esigono i nostri capricci e le nostre incostanti, puerili pretese?
Così come pretendiamo di avere la frutta e la verdura fuori stagione, perché siamo male abituati dai prodotti  chimicamente trattati, che si vendono al supermercato: allo stesso modo noi pretendiamo di raccogliere attenzione, amore e amicizia, quando non è venuto il momento, quando i tempi non sono maturi, quando il seme della fiducia non ha attecchito nel grembo dell'anima.
Sì, questo facciamo, di continuo: pretendiamo - bambini capricciosi e viziati - che i sentimenti maturino prima del tempo; e ci irritiamo se, allungando la mano sui rami, non troviamo il frutto che ci eravamo aspettati.
Non vogliamo aspettare che le cose maturino; malati di volontarismo, di decisionismo e, soprattutto,  d'impazienza, vorremmo che ogni cosa si sottomettesse al nostro volere.
Questa è solo una delle tante manifestazioni della nostra ignoranza, della nostra cecità e della nostra profonda disarmonia. 
Se fossimo in armonia con noi stessi e col mondo, sapremmo aspettare; ma no: siamo afflitti dalla nevrosi della fretta, dell'azione a ogni costo, dell'attività compulsiva e frenetica. Ci è stato detto - e noi lo abbiamo creduto - che le cose sono lì per essere afferrate, manipolate, lasciate e riprese di nuovo, secondo il nostro impulso del momento.
Nossignori: ogni cosa ha il suo tempo; per ogni azione, c'è il suo momento. E c'è anche il momento della non-azione, dell'azione che non agisce: il Wu wei dei taoisti; c'è anche il momento del silenzio, dell'apertura, dell'ascolto.
Parliamo troppo e ascoltiamo troppo poco; agiamo troppo, incessantemente, senza nemmeno sapere perché; e non abbiamo l'umiltà e la fiducia di lasciare che le cose ci vengano incontro, ci scorrano sopra, ci plasmino, ci pervadano, ci trasfigurino.
Ci crediamo Dio, e - in qualche parte del nostro ego smisurato - siamo convinti che, se non ci pensassimo noi, non ci penserebbe nessuno; che, se non agissimo, tutto andrebbe in malora; che, se non ci salvassimo con le nostre forze, non ci salverebbe nessuno.
Siamo vittime di un delirio di onnipotenza.
Non crediamo più nella forza provvidenziale del Tutto, non ci abbandoniamo con gioia e gratitudine nel flusso dell'Essere.
In breve, non abbiamo più fiducia nella Grazia (cfr. specialmente i nostri precedenti articoli «Possiamo contare solo su noi stessi per realizzare l'oltre uomo?»; «L'amore di carità ispirato dalla Grazia è il fulcro della nostra vita soprannaturale»; e «Voltar le spalle alla Grazia: il peccato d'origine della modernità», tutti consultabili sul sito di Arianna Editrice).

Così, dunque, sfogliamo velocemente, rabbiosamente, le pagine del libro della nostra vita, ben decisi a riempirle della nostra scrittura fitta, avida e impaziente. Pervasi da un autentico "horror vacui", non intendiamo lasciare al caso una sola pagina, una sola riga.
Ci sembrerebbe, se facessimo altrimenti, di perdere qualcosa, di rinunciare a qualcosa, di privarci di qualche cosa che è nostro, che ci spetta di diritto.
Poveri folli.
Non comprendiamo, non vogliamo comprendere che il libro della nostra vita è già scritto; e che a noi non è dato leggerlo, fino a quando non ne impareremo la scrittura.
È scritto in una lingua straniera, perché la mano che lo ha vergato non è quella di una creatura  umana; eppure, in qualche maniera misteriosa, noi potremmo leggerlo fin da ora, senza alcuna difficoltà, se ci ponessimo in un atteggiamento di umiltà, di ascolto, di apertura.
D'altra parte, anche se è già scritto, ciò non significa che noi non siamo chiamati alla sua compilazione: e anche questo è un mistero.
Innanzitutto, noi possiamo dire: no; possiamo prendere il libro e gettarlo via, lontano, nell'acqua fangosa della pozzanghera.
Oppure possiamo dire: sì; ma poi lasciarlo cadere, lasciarlo coprirsi di polvere, lasciarlo mangiare lentamente dalle tarme.
Possiamo, al contrario, dire: sì, e lasciare che una forza benefica che scende dall'alto, ci guidi la mano e ci conduca, di riga in riga, fino all'ultima pagina, sostenendoci nei momenti di stanchezza e confortandoci nei momenti di dubbio.
Infine possiamo dire: sì, e lasciare che le pagine bianche che ci stanno innanzi rimangano tali, mentre noi ci facciamo puro silenzio, puro ascolto, pura accettazione e puro abbandono fiducioso. Alla fine, quando avremo abbandonato ogni residuo di attaccamento al nostro piccolo Io e ogni malinteso senso di azione ad ogni costo, esse si riempiranno da sole, sotto la scrittura di una forza non umana, che scriverà per noi.
E tutto quel che dovremo fare, sarà di assecondare quella forza, mano a mano che le pagine bianche si riempiranno e correranno verso la fine, verso l'ultima pagina - e oltre.

Allora, in un lampo di luce, vedremo tutto, sapremo tutto, capiremo tutto.
Allora, non ci saranno più equivoci, incertezze, incomprensioni.
Sarà come vedere il mondo per la prima volta, tale quale esso apparve per la prima volta, vestito di tutto il suo splendore.