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La disonestà intellettuale di Hegel è nella sua presunzione di mediare tutto, anche il paradosso

di Francesco Lamendola - 08/12/2008


 

Due fra le opere di filosofia più profonde e meno lette del XIX secolo sono le «Briciole di filosofia» (1844) e la «Postilla conclusiva non scientifica alle Briciole» (1846), entrambe pubblicate a firma di Johannes Climacus: in realtà, le due maggiori opere speculative di Sören Kierkegaard, il grande filosofo danese (Copenaghen, 1813-1855).
Le due opere strettamente interrelate.
Nelle «Briciole», Kierkegaard affronta il problema se  possa esservi un punto di partenza storico per una coscienza eterna.
Sullo sfondo dei tentativi teologici di conciliare verità di fede e ragione, sviluppatisi a partire da Hegel e dai suoi epigoni, specialmente  da H. L. Martensen, Kierkegaard ribadisce il carattere paradossale del cristianesimo e la sua irriducibilità alle categorie dell'intelletto.
Osserva E..P. Burkard (in «Dizionario delle opere filosofiche», a cura di Franco Volpi, Milano, Bruno Mondadori, 2000, pp. 621-22):

«Lo spunto di partenza è offerto dalla figura del maestro Socrate nel rapporto con i suoi allievi . In senso socratico, l'allievo si trova già in possesso della verità e il maestro rappresenta per lui soltanto l'occasione per ricordarsene (anamnesi). Le cose stanno diversamente nel caso della rivelazione cristiana. Qui l'allievo non è in possesso della verità (in seguito al peccato egli si trova invece nella condizione di non verità) e deve riceverla interamente dal maestro (Dio calato nel tempo), insieme alla possibilità di capirla. Il momento in cui l'allievo viene posto in questa condizione assume in tal senso un significato decisivo: è infatti l'irruzione dell'eternità nella temporalità, attraverso cui ha luogo una rinascita. Dio, per poter porgere la verità all'allievo, è dovuto entrare nel tempo e diventare uomo.  Il paradosso contro il quale cozza l'intelletto, Dio che si fa uomo e muore,  è assieme il contenuto e la passione della fede.  Poiché ognuno in qualsiasi tempo deve ricevere da Dio stesso  la condizione della verità e deve compiere sempre di nuovo e originariamente l'atto di fede nel paradosso, in relazione  a tale atto non c'è alcuna differenza essenziale tra chi è contemporaneo di Dio e chi è venuto più tardi.»

La «Postilla conclusiva» muove dalla domanda iniziale su come posso io, un Singolo esistente, pormi in rapporto con il cristianesimo; per passare poi a sviluppare il concetto di esistenza e il concetto di verità.
Essa si può considerare come l'opera più «esistenzialista» di Kierkegaard, nel senso che è forse quella in cui maggiormente egli pone al cento della riflessione la concretezza, l'unicità e l'irripetibilità della singola esistenza umana e la impossibilità, per essa, di avere di se stessa una forma di sapere che sia meramente esteriore ed oggettivo.
Di nuovo, il grande bersaglio è costituito da Hegel e dalla sua scuola; e, in particolare, dal tentativo hegeliano di esporre in maniera oggettiva la verità del cristianesimo, con l'ausilio di tutto il dotto apparato della ricerca storica, della critica biblica e della filosofia speculativa, sostenendo che esso non ha nulla a che fare con la ricerca della verità da parte del credente.
Come nota ancora il Burkard (op. cit., p.617):

«Il vero problema è quello dell'appropriazione soggettiva della verità. Qui il singolo "è infinitamente e personalmente interessato  al suo rapporto con la verità in una passionalità che mira alla sua felicità eterna". Per il pensiero oggettivo il soggetto diventa indifferente e, quindi, lo diviene anche la cosa, dato che questa ha significato solo in relazione a un soggetto. All'oggettivazione si contrappone il fatto che ogni essere pensante è al tempo stesso un pensante esistente ed è legato in quanto tale alla sua esistenza: "L'unica realtà sulla quale un soggetto esistente non si limita solo a sapere è la sua propria realtà effettiva, il fatto che egli esiste, e questa realtà è il suo interesse assoluto". Solo nell'esistenza ci sono serietà nella decisione, divenire, storicità. la via verso la verità è così l'approfondimento appassionato dell'interiorità, e a questo proposito vale la proposizione: "La soggettività è la verità". Ma il singolo si accorge al tempo stesso  che, su un piano più elevato, egli si trova nella non verità a causa del peccato, e che questa non verità può essere superata solo attraverso la fede e la redenzione. Il soggetto esistente si rapporta in modo patetico alla sua felicità eterna quale fine assoluto che trasforma la sua stessa realtà. Il segno dell'elemento religioso è il dolore, perché nello sviluppo dell'interiorità si spegne l'immediatezza del rapporto con la realtà esterna, alla cui finitezza l'uomo rimane tuttavia legato. Guardando retrospettivamente gli stadi dell'esistenza (…) Kierkgaard li differenzia ulteriormente introducendo le determinazioni intermedie di ironia e umorismo e creando una spaccatura nello stesso elemento religioso: la religiosità A (dell'immanenza) è caratterizzata dallo sforzo di trovare il rapporto con Dio nella dialettica dell'interiorizzazione, poiché l'eterno può essere "ubique et nusquam". La religiosità B (l'elemento cristiano) è determinata dal paradosso che l'eterno sia divenuto nel tempo (Dio si è fatto uomo) e che quindi l'individuo temporale non si rapporta a qualcosa di eterno bensì all'eterno nel tempo, giungendo quindi a esso non per forza propria ma solo perché Dio istituisce il rapporto nel tempo.»

In altre parole, Kierkegaard è convinto che non vi è maniera intellettualmente onesta di avvicinarsi al paradosso del cristianesimo se non riconoscendone la dimensione, appunto, paradossale, ossia  l'irruzione dell'eterno nel tempo, di Dio nella storia.
Disonesto, invece, è pretendere di poter trattare il cristianesimo come una forma di verità conciliabile con l'intelletto, perché ciò significa togliere ad esso ciò che di veramente specifico e, al tempo stesso, ciò che di unico esso pone alla coscienza del singolo: la possibilità di un «salto» radicale non contro la ragione, ma oltre la ragione.
Questo aspetto è stato messo in evidenza con particolare chiarezza da Giambattista Picinali (in: Mancini, Marzocchi, Picinali, «Filosofia», a cura di Salvatore Veca, Milano, Bompiani, vol. 3, 1996, 2000, pp. 128-129):

«La questione fondamentale (il "problema di Lessing") che Climacus si pone, concerne la pretesa dell'evento storico cristiano di essere "nell'individuo il punto di partenza per la sua coscienza eterna": "Io, Johannes Climacus, nato in questa città di Copenaghen, di anni trenta, uomo semplice e schietto come lo è la maggior parte della gente di qui, ammetto che per me, come per una semplice domestica e un professore, c'è in attesa un sommo bene che si chiama beatitudine eterna. Io ho sentito dire che il cristianesimo è la condizione per ottenere questo bene e ora mi domando: come posso io rapportarmi a questa dottrina?" ("Postilla").
Non si tratta qui della verità del cristianesimo: né la critica biblica né il fatto che esista una chiesa possono del resto considerarsi una prova della sua verità. Si tratta piuttosto del rapporto dell'individuo col cristianesimo: dunque della "preoccupazione dell'individuo che è interessato  con passione infinita al suo rapporto verso la dottrina cristiana".  Un problema che naturalmente non si era posto a Socrate il quale, del resto (ma Kierkegaard ha presente il Socrate platonico), in virtù della dottrina dell'anamnesi, riteneva accessibile all'uomo la verità e il bene. Un problema che Lessing si era posto con grande onestà, riconoscendo la trascendenza della fede cristiana e la necessità del salto, senza peraltro trovare la forza per compierlo.
Un problema che con disonestà Hegel ha voluto negare con il suo ostinato immanentismo. Nella sua presunzione di mediare tutto, Hegel ha unito soggetto e oggetto, pensiero ed essere, finito e infinito, interno ed esterno, tempo ed eternità.  Togliendo la contraddizione, egli ha liquidato la passione dell'interiorità  e il paradosso che è essenziale al cristianesimo. Il suo proposito di giustificare filosoficamente il cristianesimo si è risolto in un  "superamento" di esso, cioè nella sua negazione: la verità assoluta è il concetto puro.  Così facendo, Hegel ha tradito l'individuo che non trova , e non può trovare, nella speculazione, posto alcuno: "nel sapere storico l'uomo riesce a sapere un sacco di cose sul mondo, nulla su se stesso". Inevitabilmente la speculazione consente di parlare del "si" impersonale, senza che mai si riesca a dire qualcosa dell'individuo reale, la cui esistenza non si lascia cogliere nel pensiero. Fuori dell'individuo non c'è interiorità; senza interiorità , non c'è passione e senza passione  non si dà decisione. Esattamente l'opposto di ciò che il cristianesimo esige.
"L'uomo semplice confessa umilmente di essere un peccatore, proprio lui in persona (il Singolo); Egli non ha affatto bisogno di conoscere tutte quelle difficoltà  che sorgono quando non si è semplici e umili. Ma quando manca questa umile coscienza di essere personalmente un peccatore (il Singolo), anche se per il resto l'uomo possedesse tutta la saggezza e tutta la scienza umana, tutti i doni dell'intelligenza, tutto questo gli servirebbe ben poco. Il cristianesimo si leverà terribilmente contro di lui, in proporzione della sua scienza, trasformandosi o in orrore o in pazzia; finché quest'uomo  non si decida o a rinunciare al cristianesimo o a entrare nel cristianesimo, grazie ai tormenti  di una coscienza affranta, che sono ben altra cosa dalla propedeutica scientifica, dall'apologetica ecc…: tutto nella misura in cui lui ne sentirà bisogno per entrare nel cristianesimo per la porta stretta, attraverso la coscienza  del peccato ("Esercizio del cristianesimo").»

Quindi, in definitiva, il tradimento di Hegel è duplice: verso il paradosso del cristianesimo, che non si lascia inserire nella logica della mediazione, ma conserva tutto intero il suo carattere di sfida al sapere umano e scientifico; e verso il singolo individuo, che non trova, nella riduzione della verità assoluta al concetto puro, nulla che gli possa fornire la benché minima indicazione nel pelago nebbioso dell'esistenza concreta, nulla che parli veramente di lui e a lui, nella profondità della sua dimensione interiore.
Anche se, cronologicamente, Hegel appartiene alla stagione romantica, l'essenza della sua concezione filosofica è prettamente illuministica e razionalistica; la sua concezione del reale è di tipo logico astratto; i suoi presupposti e le sue conclusioni, puramente ed esclusivamente immanentistici. La passione, come ha osservato giustamente Kierkegaard, non trova alcuno spazio nel sistema di Hegel; ma senza passione, non è possibile che l'individuo possa operare una decisione. Quest'ultima, infatti, non è il frutto di un processo puramente logico, ma investe la sfera dell'interiorità e l'aspirazione dell'essere umano verso la dimensione trascendente.
In ciò, anzi, ci sembra consistere una ulteriore forma di tradimento e di disonestà dell'hegelismo: nel fatto che esso misconosce una aspetto fondamentale e costitutivo della condizione umana, ossia l'aspirazione a una verità infinita che sia, al tempo stesso, una verità-per-me e non solamente una verità logico-astratta, di carattere universale (e perciò generale).
A Kierkegaard va riconosciuto il merito di aver affermato chiaramente che non si dà un Pensiero oggettivo e universale, che sia, al tempo stesso, intelligibile dal singolo individuo, e nel quale esso possa riconoscersi; che il pensiero (nella sfera del finito) è sempre pensiero di un soggetto pensante, che è esistente e, quindi, soggettivo; che la verità, dunque (nella sfera del finito), non è e non può essere che la soggettività, ossia verità interiore del singolo individuo.
Ma, appunto per questo - e questo è l'elemento centrale della filosofia di Kierkegaard - che però gli esistenzialisti hanno espunto dal loro orizzonte - si pone l'esigenza di una verità trascendente, si pone la necessità di una verità assoluta che, dall'eterno, entri nella sfera del tempo e, mediante la categoria etica della decisione, diventi una verità-per-me; e tale è il paradosso del cristianesimo, di Dio che entra nel tempo, facendosi uomo.

Scrive Kierkegaard nella «Postilla conclusiva» (III, 1; in: Kierkegaard, «Opere», a cura di Cornelio Fabro, Firenze, Sansoni, 1993, pp. 425-29):

«Com'è noto, la filosofia hegeliana ha tolto il principio di contraddizione e più d'una volta Hegel stesso ha citato al suo severo tribunale quei pensatori che rimanevano nella sfera dell'intelletto e delle riflessione e che di conseguenza affermavano che c'è un aut-aut.  Da allora è diventato un gioco molto apprezzato che appena qualcuno fa allusione a un aut-aut, ecco arrivare trotterellando a cavallo un hegeliano (…) che ottiene la vittoria e se ne ritorna di corsa a casa. Anche da noi gli hegeliani hanno fatto parecchie spedizioni, specialmente contro il vescovo Mynster, per riportare la brillante vittoria della speculazione, e Mynster più d'una volta è stato considerato come un punto di vista superato: anche se, per essere un punto di vista superato, egli stia benissimo, e ci sia piuttosto da temere che l'enorme sforzo che la vittoria è costata abbia spremuto troppo le forze dei signori vincitori invitto. Eppure sembra che alla base di questa battaglia e di questa vittoria ci sia un equivoco. Hegel ha perfettamente e assolutamente ragione : dal punto di vista dell'eternità, sub  specie aeterni, nel linguaggio dell'astrazione, nel puro pensiero e nel puro essere, non c'è alcun aut-aut. Come diavolo potrebbe esserci, se per l'appunto l'astrazione rimuove la contraddizione? Hegel e gli hegeliani dovrebbero piuttosto prendersi l'incomodo di spiegare cosa significa questa commedia, l'introdurre nella logica la contraddizione, il movimento, il passaggio ecc.  I difensori  dell'aut-aut hanno torto quando invadono il campo del pensiero puro e vogliono difendere in esso la propria causa. Come il gigante Anteo, con cui lottò Ercole, perdeva tutta la sua forza appena veniva sollevato da terra, così l'aut-aut della contraddizione si trova eo ipso eliminato appena è elevato al di sopra dell'esistenza e portato nell'eternità dell'astrazione. D'altra parte Hegel ha anche completamente torto quando, dimenticando l'astrazione, la pianta in asso e si precipita nell'esistenza per eliminarvi  di prepotenza il doppio aut.-aut. Infatti è impossibile far questo nell'esistenza, perché allora io sopprimo nello stesso tempo l'esistenza. Quando elimino (astraggo) l'esistenza, non c'è più nessun aut-aut, quando lo elimino nell'esistenza, questo significa che elimino anche l'esistenza, ma allora non è che io lo elimini nell'esistenza.  (…)
Ogni pensiero logico è nella lingua dell'astrazione e sub specie aeterni. Pensare l'esistenza a questo modo, significa prescindere dalla difficoltà che c'è nel pensare l'eterno nel divenire, cosa del resto inevitabile dal momento che colui che pensa è per suo conto nel divenire. Da ciò deriva che pensare astrattamente è molto più facile che non esistere, quando questo non sia ridotto a ciò che si chiama e si dice esistere, come ciò che si dice essere-soggetto. Qui ritorna la constatazione che il compito più facile è il più difficile. Esistere, si pensa di solito, non è una cosa speciale, né tanto meno un'arte: esistere è di tutti, non è vero?, mentre pensare astrattamente è privilegio raro! Ma esistere in verità, quindi penetrare con la coscienza la propria esistenza, cioè oltrepassarla quasi nell'eternità, eppure al tempo stesso esser presente in essa e mantenersi in divenire: questa sì ch'è una cosa veramente ardua. (…)
Pensare l'esistenza in abstracto e sub specie aeterni è sopprimerla nella sua essenza, e ha il suo riscontro nel merito tanto strombazzato della liquidazione del principio di contraddizione. L'esistenza non può essere pensata senza movimento  e il movimento non può essere pensato sub specie aeterni. Trascurare il movimento non è propriamente un capolavoro, e introdurlo come passaggio nella logica, e con esso il tempo e lo spazio, non è che una nuova confusione. Infatti nella misura in cui il pensiero è eterno c'è una difficoltà per l'esistente. L'esistenza è come il movimento: è molto difficile avere da fare con essa. Se li penso li abolisco e quindi neanche li penso più. Sembra pertanto che sia esatto dire che c'è qualcosa che non si lascia pensare: l'esistere. Ma la difficoltà ritorna, e ciò per il fatto che il pensatore esiste, e il pensare pone insieme l'esistenza. (…)
Esistere, quando non s'intenda ciò nel significato scadente, non si può senza passione. Perciò ogni pensatore greco era anche essenzialmente un pensatore appassionato. »

Non solo un pensatore appassionato: ma un pensatore etico.
Per il razionalismo, cogito ergo sum significa solo che esiste il pensante astratto e indifferenziato; ma il pensante è sempre un pensante esistente, cioè un pensante concreto e singolare. E, quando il pensante comincia a pensare finalisticamente il proprio pensiero, dandogli per scopo qualcosa d'altro, entra in gioco l'interesse: e, con l'interesse, l'etica.
L'etica non ha affatto bisogno di sforzi intellettuali per provare la mia esistenza; l'etica mi impegna ad esistere e, di conseguenza, mi impegna alla passione e alla decisione.
Questi concetti possono forse apparire datati oggi che, sempre più, vediamo la decisione disancorata dal terreno della passione, cioè dell'etica, e affidata alla statistica, alla tecnica, alle macchine. Oggi, probabilmente, Hegel sarebbe contento di vedere che gli esseri umani non sentono più il bisogno di pensare il proprio pensiero, ma solo di pensare in astratto: in astratto costruiscono le bombe atomiche, in astratto producono organismi geneticamente modificati, in astratto procedono alla clonazione di esseri viventi. In astratto, cioè in risposta ad esigenze, programmi e obiettivi che non nascono dalla passione, ma da un fredda, disumana razionalità oggettiva, che nulla sa di misteri,  perché riconosce solo problemi: problemi da risolvere; e che, effettivamente, l'informatica sempre più risolve per essa.
C'è ancora spazio, nel mondo contemporaneo, per la passione del pensiero, che nasce dall'interiorità dell'esistenza individuale; o è sopraggiunta per sempre l'era dei Titani, macchine e strumenti di un Logos strumentale e calcolante che non s'interessa al problema concreto e irripetibile della mia vita, qui e ora, ma solo e unicamente della vita in generale, come fatto puramente oggettivo e statistico?