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Guareschi, non solo Don Camillo

di Enrico Nistri - 08/12/2008

  

La letteratura italiana ha conosciuto il caso di due autori la cui fama e in certo qual modo la cui stessa identità sono state sopraffatte dal personaggio, o dai personaggi da loro stessi creati: Carlo Lorenzini, in arte Collodi, per l’Ottocento, Giovannino Guareschi per il secolo scorso. Nel caso del primo, la prevalenza di Pinocchio fu un evento tutto sommato fortunato. Giornalista brillante, impiegato della Prefettura di Firenze in forza delle sue benemerenze risorgimentali, grazie al suo capolavoro Collodi riuscì in vita a pagare i debiti di gioco strascinando di mala voglia la storia del suo burattino, a costo di farlo risuscitare dopo l’impiccagione; dopo morto si è assicurato un posto nella storia della letteratura internazionale, non solo per l’infanzia.
Per Giovannino Guareschi, le cose andarono in maniera diversa. L’autore di Mondo piccolo non nacque con don Camillo, o meglio con la coppia di amici-nemici don Camillo- Peppone, che poi, a pensarci bene, era una trinità, col Cristo a fare da arbitro. Quando pubblicò il primo racconto della serie, era già un giornalista e un umorista affermato, direttore e fondatore di Candido dopo la magica stagione del Bertoldo. Il successo delle sue creature gli recò il benessere materiale e una fama internazionale, ma in certo qual modo finì per sopraffarlo, sovrapponendosi alle sue stesse convinzioni politiche.
Anticomunista d’istinto, nemico di ogni compromesso, artefice forse più dello stesso De Gasperi della sconfitta elettorale del Fronte popolare, finì per essere visto come un anticipatore del dialogo. Un po’ perché il Guareschi scrittore, sensibile alle sfumature psicologiche e all’humanitas dei personaggi, era superiore al Guareschi giornalista, assediato – com’è naturale – dai condizionamenti della cronaca e dalle pulsioni polemiche. E molto in quanto, a differenza che ai tempi di Collodi, ai suoi tempi c’era il cinema; e il successo dei film tratti dai racconti di Mondo piccolo, se da un lato favorì la diffusione dei libri, finì anche per sbiadirne se non annullarne la valenza politica. Habent sua fata libelli: figuriamoci le pellicole. La saga di don Camillo e Peppone è stata, dal punto di vista cinematografico, un capolavoro, che smentisce il vecchio detto dei critici cinematografici secondo cui i bei film si fanno con i brutti libri, e viceversa. Non a caso le sue puntate, ritrasmesse ai nostri giorni ancora con straordinari indici d’ascolto, sono fra le poche a sfuggire alla censura che colpisce le pellicole in bianco e nero, ormai l’unica vera censura della nostra televisione, commerciale e non. Ma il messaggio di Guareschi fu stemperato in una visione quasi irenistica dei rapporti politici nella “Bassa” del dopoguerra, che fece infuriare l’autore, come dimostrano le sue continue proteste coi produttori, e che fece sembrare a molti don Camillo e Peppone gli antesignani del “dialogo”. Si verificò in questo modo una singolare dicotomia, in cui è forse possibile scorgere una fra le radici della tragedia di Guareschi.
Da un lato la trasposizione cinematografica del suo capolavorò operò – secondo i brutti ma efficaci neologismi coniati da Claudio Quarantotto sul Borghese – un processo di «comicizzazione, irrealisticizzazione e deanticomunistizzazione» del suo messaggio. Dall’altro, quasi per reazione, Guareschi radicalizzava il suo impegno politico, scoprendo ragioni e argomentazioni sempre più politicizzate, sino a pubblicare nel 1954 su Candido le lettere che accusavano De Gasperi di aver sollecitato i bombardamenti “alleati” sulla capitale: l’infortunio professionale che segnò la sua vita e ne accelerò il declino fisico.
Guareschi, beninteso, era sempre stato un uomo di destra, anche se, durante il Ventennio, non era stato un fascista zelante. Anzi aveva rischiato il confino per avere scagliato improperi contro Mussolini sotto gli effetti di una memorabile sbronza che si era preso dopo aver saputo che il fratello era disperso in Russia. Si era anche fatto molti mesi in un Lager per internati militari italiani per essersi rifiutato, come ufficiale di complemento che aveva giurato fedeltà al re, di prestare servizio nella Rsi. Dopo la guerra, alle elezioni del 18 aprile 1948, aveva invitato a votare, per fermare i comunisti, per la Dc. Il suo divorzio da De Gasperi – cui rinfacciava di essersi dichiarato «un trentino imprestato all’Italia» e di avere votato, da deputato trentino al parlamento austroungarico, i crediti di guerra nel primo conflitto mondiale – maturò dopo, come il suo disprezzo, largamente ripagato, per Scelba. La condanna per diffamazione nei confronti di De Gasperi, la detenzione, in cui nulla gli fu risparmiato, e che gli fece rimpiangere il Lager tedesco, le pressioni subite dal suo editore, Rizzoli, perché chiudesse Candido esasperarono un processo che era in atto già da molti anni.
Il Guareschi degli anni ’60, quello che chi scrive ha imparato a conoscere e ad amare dalle rubriche su Oggi e sul Borghese, non era un neofascista, ma faceva proprie molte argomentazioni della destra che non rinnegava gli anni tra le due guerre: l’ostilità alle celebrazioni del 25 aprile, considerate l’esaltazione di una sconfitta e di una guerra fratricida, l’anticonsumismo, la simpatia, lui reduce dai Lager, per i vinti della Liberazione.
Uno dei suoi ultimi scritti su Oggi fu la recensione de I sette colori del fascista francese Robert Brasillach, da poco edito dalle edizioni del Borghese. Del resto, La rabbia, il filmdocumentario girato insieme a Pier Paolo Pasolini, nella parte da lui commentata, non è certo un documentario politicamente corretto e non è un caso se il suo delfino alla guida del Candido fu Giorgio Pisanò, che all’epoca non era un senatore del Msi, ma la cui militanza politica e giornalistica, anche dopo il servizio militare nella Repubblica Sociale Italiana, non era certo un mistero. L’uomo che la sensibilità degli spettatori delle pellicole tratte dai suoi libri identificava, sbagliando, con un precursore del “dialogo” e cui Giovanni XXIII aveva offerto di scrivere un catechismo popolare, era uno strenuo avversario della nuova liturgia e di quello che lui definiva la “repubblica conciliare” e che poi sarebbe definito il compromesso storico. Una situazione schizofrenica? O la conseguenza di un mero equivoco?
Ci aiuta a dare una risposta a questo interrogativo Non solo Don Camillo (L’Uomo Libero Onlus, San Giorgio d’Arco, pp. 128), il felice volume che il giornalista Marco Ferrazzoli ha dedicato, come recita il sottotitolo, all’«intellettuale civile Giovannino Guareschi». Felice perché, nella ricca e a volte ridondante letteratura fiorita dopo un lungo oblio sullo scrittore emiliano, questo saggio costituisce una felice eccezione. A differenza di molti biografi e di qualche agiografo, Ferrazzoli non tira infatti Guareschi per la giacchetta, non cerca di fare un santo di lui, che un santo non fu, se non altro perché, come a tanti uomini di destra, piacevano molto il vino e le donne; ci risparmia i grotteschi tentativi di annessione compiuti dallo stesso quotidiano del Pci, che alla sua morte l’aveva liquidato come uno “scrittore mai sorto”, ma anche da qualche leghista dimentico che lo scrittore “padano” disprezzava «quella categoria di squallida gente del nord» che sogna «un canale che divida l’Italia da Firenze in giù».
Con chiarezza, rigore, probità intellettuale e morale, l’autore ci presenta il padre di don Camillo per quello che fu: un vero scrittore, un giornalista politico nemico di ogni trasformismo, un umorista di razza, un patriota monarchico con sfumature nazionaliste, ma a suo modo anche un europeista ossessionato dal timore del tramonto dell’Occidente, un sincero credente, ma anche un uomo distrutto nel fisico e nel morale dalla crudele detenzione cui fu sottoposto – anche per il suo rifiuto d’interporre appello – nelle patrie galere. E, soprattutto, fa parlare Guareschi: lo fa parlare attraverso i suoi scritti ma anche gli scritti e le azioni di coloro che lo amarono e di coloro che lo odiarono.
La redazione del Secolo d’Italia che in occasione della vicenda Togliatti organizzò un referendum in sua difesa (primo firmatario lo storico Gioacchino Volpe) e tra gli scrittori che brindarono alla sua condanna (compreso il patron di un celebre premio letterario versiliese) c’erano anche i primi collaboratori del Candido, fra i quali anche Natalia Aspesi, Achille Campanile e, sotto pseudonimo, Oriana Fallaci, e lo stesso Pier Paolo Pasolini, il quale, a proposito della parte di La rabbia, il film in cui collaborarono insieme, commentata da Guareschi, dichiarò: «Se Eichmann potesse risorgere dalla tomba e fare un film, farebbe un film del genere». Eppure, per la solita eterogenesi dei fini, sarà proprio la riproposizione vent’anni fa del film La rabbia a cura dell’allora federazione romana del Msi, a riposizionare la fortuna di Pasolini “a destra”. Fu infatti con il dibattito «Ripensare Pasolini... scandalosamente» – che accompagnò la visione del film, e che si tenne il 3 dicembre 1988 nella sezione romana del Msi di via Acca Larenzia con la partecipazione di esponenti del partito – Adalberto Baldoni, Lodovico Pace, Remo Cioce e Antonio Fede – che iniziava la vera e propria fortuna del “pasolinismo” a destra. Grazie a Guareschi, Pasolini viene celebrato pubblicamente dalla destra in maniera ufficiale. E il dibattito si svolse addirittura in un luogo sacro del Msi come la sede di Acca Larenzia, dove dieci anni prima erano stati assassinati tre militanti. Fu quasi uno scandalo. E ci fu chi, come Beppe Niccolai, disse che era ora che si discutesse sui punti di contatto tra il pensiero pasoliniano e la destra. Insomma, quella “rabbia” ha sempre fatto discutere, allora come quest’anno. E Guareschi si prende la sua rivincita...