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Crisi, la lobby oligarchica di cui non dobbiamo fidarci

di Alfonso Tour - 08/12/2008

Fonte: wallstreetitalia

 
L’economia statunitense a novembre ha perso 533.000 posti di lavoro, si tratta del maggior calo in un mese dal dicembre 1974 (602.000). Il tasso di disoccupazione è passato dal 6,5% al 6,7%, il più elevato dal 1993. Lo ha comunicato il Dipartimento del lavoro statunitense. La perdita di 533.000 posizioni lavorative è nettamente superiore alle stime degli economisti che avevano preventivato la perdita di 335.000 unità. È stato inoltre rivisto in peggio il dato di ottobre con una perdita di occupati salita di 80.000 unità a 320.000 unità.

Nemmeno i più pessimisti avrebbero potuto prevedere la rapidità e l’ampiezza dell’attuale recessione. Le notizie, che si succedono a ritmo incalzante, assomigliano sempre più ad un «bollettino di guerra». L’ultima in ordine di tempo giunge dagli Stati Uniti: nel solo mese di novembre sono stati persi 533mila posti di lavoro. Dall’inizio dell’anno, ossia nell’arco di 11 mesi, ne sono andati in fumo 1.91 milioni. La situazione in Europa non è migliore, come dimostrano i tagli dei tassi di interesse annunciati giovedì scorso dalla Banca centrale europea e dalla Banca d’Inghilterra e da quella di Svezia. Gli interventi di banche centrali e governi, che si sono susseguiti negli ultimi mesi, non producono risultati significativi e oggi il mondo è sull’orlo di una nuova Grande Depressione.

Per evitare di cadere in una spirale deflazionistica, gli Stati Uniti hanno chiaramente scelto di usare tutti i mezzi a loro disposizione. Ancora ieri il presidente della Federal Reserve, Ben Bernanke, non ha escluso che la banca centrale, che oramai è diventata una banca onnipresente, possa stampare dollari a ritmi ancora più sostenuti e mettersi ad acquistare i titoli del debito pubblico americano. La scelta americana è comprensibile: per gli Stati Uniti la caduta dei prezzi avrebbe conseguenze devastanti.

Infatti il debito accumulato da famiglie, imprese, Stato federale e dallo stesso Paese crescerebbe rispetto a redditi in calo e ad entrate fiscali in forte diminuzione. Il rischio di una caduta del valore del dollaro e dell’inflazione (o anche dell’iperinflazione), come oramai viene ripetutamente scritto, appare accettabile, poiché la tendenza all’aumento dei prezzi possiede la «virtù» taumaturgica di erodere lo stock del debito.

L’Europa segue per il momento la politica della Germania di Angela Merkel e della Bancacentrale europea, che invitano a non bruciare tutte le cartucce. Questa linea è sempre più avversata da Francia e Gran Bretagna, che invocano invece una politica monetaria più aggressiva e pacchetti fiscali di rilancio dell’economia più consistenti. La posizione tedesca e quella della Bce hanno una loro legittimità.

Innanzitutto, non è certo che pacchetti fiscali di rilancio dell’economia producano gli effetti desiderati. I modesti risultati dei numerosi piani di rilancio varati negli ultimi venti anni dal Giappone rafforzano questi dubbi. Inoltre, la maggior parte dei Paesi europei (l’Italia è un’eccezione) dispongono di ottimi leggi sociali, che dovrebbero limitare l’impatto – pur molto doloroso – della crisi soprattutto per i ceti meno favoriti.

In secondo luogo, ed è il punto più importante, i deficit pubblici sono destinati ad aumentare per il calo delle entrate fiscali e l’aumento delle spese sociali. Dato che molti Paesi europei (come l’Italia, la Grecia e il Portogallo) hanno già consistenti debiti pubblici, il varo di dispendiosi pacchetti fiscali di rilancio farebbe esplodere i loro disavanzi pubblici e soprattutto incrinerebbe la credibilità dei titoli obbligazionari grazie ai quali gli Stati si finanziano. Vi sono già alcuni segnali.

Se la sfiducia dei risparmiatori dovesse intaccare anche i titoli statali, le conseguenze sarebbero enormi. Per i Paesi di Eurolandia si prospetterebbe un conflitto tra Paesi risparmiatori (Germania, Olanda, ecc.) e quelli più indebitati, che metterebbe in pericolo anche la stessa Unione monetaria. Per i Paesi non appartenenti all’area euro, come la Gran Bretagna, si metterebbe in discussione lo stesso valore della moneta. Il governo tedesco teme che interventi avventati non producano risultati apprezzabili, ma solo una gravissima crisi monetaria. Dato che il mercato dei capitali è la nuova linea del fronte di questa crisi, per Berlino l’imperativo categorico è che la credibilità dei titoli pubblici non venga incrinata.

Queste considerazioni assumono maggiore forza, ed è il secondo punto, per la consapevolezza che la riduzione dei tassi della Bce permetterà la diminuzione dei tassi ipotecari, dando fiato alle famiglie del Vecchio Continente, ma non si tradurrà in una diminuzione del costo del denaro per le imprese. Infatti per le piccole e medie imprese l’accesso al credito bancario rimane molto arduo e per le grandi imprese il finanziamento tramite l’emissione di obbligazioni societarie è possibile solo a tassi proibitivi.

Il risultato è evidente: l’aumento del costo del denaro crea una miscela esplosiva per società che già devono fare i conti con una contrazione delle vendite. In queste condizioni, rischia di non essere sbagliata la decisione di conservare delle cartucce per evitare che vada in fumo il bagaglio di competenze accumulato nel corso dei decenni dall’industria europea, che rappresenta la vera ricchezza del Vecchio Continente.

In terzo luogo, le famiglie e le imprese europee non sono indebitate come quelle americane. Anzi, in Europa, sebbene negli ultimi anni sia diminuito, vi è ancora un consistente tasso di risparmio. Quindi intaccare i risparmi sarebbe pericoloso sia economicamente sia politicamente. Tutto ciò induce a sostenere che la posizione del governo tedesco e della Banca centrale europea abbia solide motivazioni, non tenute in sufficiente considerazione da coloro che le criticano e che invocano interventi più incisivi.

Tra questi ultimi spiccano alcuni esponenti del mondo finanziario anglosassone e i grandi giornali europei che a loro fanno riferimento. Costoro sono riusciti negli ultimi mesi a convincere il mondo che salvare il settore bancario equivarrebbe a salvare l’economia. In queste operazioni di salvataggio sono state bruciate centinaia di miliardi senza che gli Stati chiedessero nemmeno il cambiamento dei manager che avevano provocato il disastro. Ora costoro, consapevoli che questi salvataggi non hanno turato le voragini nascoste nei bilanci delle banche che dirigono, sembrano spingere per allentare ogni argine alla spesa pubblica per poter ancora giustificare altri aiuti statali. Occorre che Governi e Parlamenti europei riflettano attentamente prima di seguire questi consigli e occorre che tutti si ricordino che questa gravissima crisi non è il frutto di un destino cinico e baro, ma di un’oligarchia finanziaria che ha retto le sorti del mondo negli ultimi anni.