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L’offensiva dei Taliban in due terzi dell’Afghanistan

di Guido Rampoldi - 09/12/2008

 


Con i cannoni e le mitragliatrici puntati sul traffico che ingolfa le strade sotto le sue alte mura rosse, il forte di Peshawar sembra bizzarro come una Fortezza Bastiani che attenda l’improbabile materializzarsi tra le automobili di un’orda tartara. Ma che lo spettacolo non sia incongruo come appare lo hanno confermato, tra domenica e ieri, due attacchi consecutivi condotti da una banda di Taliban pachistani a pochi chilometri da quelle postazioni. Almeno 200 guerriglieri hanno assaltato due stazioni di sosta utilizzate dai camion che portano in Afghanistan i rifornimenti per i contingenti Nato. Le carcasse di Tir che si sono lasciati alle spalle prima di scomparire hanno confermato definitivamente che i Taliban non soltanto sono in grado di scorrazzare fino ai sobborghi della maggiore città del Pakistan occidentale, ma ormai minacciano una strada vitale per i 60mila soldati della Nato, perché di lì passano i tre quarti degli approvvigionamenti. L’esercito pachistano non pare capace di fermarli. E il modo sistematico con cui quei guerrieri ammazzano e spesso decapitano poliziotti, oppure tirano con i mortai sulle caserme dei Frontier Corps, le guardie di frontiera, indica quali siano al momento i rapporti di forza con il vacillante Stato pachistano. Al di là del confine le cose non vanno meglio per la Nato. Se stiamo allo studio di un pensatoio occidentale, l’Icos, i distretti nei quali i Taliban conducono in media almeno un attacco a settimana ormai contano per il 72% dell’Afghanistan, contro il 54% del 2007.   In altre parole la mobilità della guerriglia è aumentata notevolmente, così come la sua capacità di allearsi con segmenti delle tribù pashtun. E tutto questo conferma che se l’Alleanza atlantica vuole evitare una progressiva disfatta, deve procedere con urgenza alla revisione di una strategia fin qui inefficace. Ovviamente decisioni di questa portata non potranno essere prese fin quando l’amministrazione Obama non si sarà insediata. Ma il rischio fin da ora evidente è che Washington rinunci alla sterzata e invece proceda per piccole correzioni, fidando sull’arrivo di altri 20mila soldati americani. Questa pare del resto l’intenzione del comando statunitense in Afghanistan, cui probabilmente l’idea di cambiamenti radicali suona come una sconfessione dei metodi fin qui adottati. In questo caso dovremmo considerare un presagio per nulla incoraggiante una recente scelta americana contestata con durezza dagli europei. Il generale McKiernan, attuale comandante dell’Isaf, la missione internazionale guidata dalla Nato, ha ordinato di unificare l’ufficio Pubblic Affairs, che tiene i rapporti con l’informazione, e l’ufficio Psycological Operations, che organizza, tra l’altro, le operazioni di disinformazione. Secondo i contestatori, in particolare i tedeschi, una decisione del genere toglierebbe qualsiasi credibilità alle informazioni diffuse dalla Nato. McKiernan potrebbe obiettare che l’alleanza occidentale fin qui ha perso malamente la guerra della comunicazione, malgrado su quel terreno in teoria americani ed europei siano molto più a loro agio degli incolti guerrieri Taliban. Ma quando informazione e disinformazione diventano tutt’uno, il risultato può essere paradossale come in Iraq, dove per anni il Pentagono e l’informazione che lo ossequia hanno raccontato una guerra immaginaria, un successo dietro l’altro, fin quando di colpo il velo è caduto e la realtà si è mostrata per quello che era.

 

Inoltre anche il giornalismo più servizievole ormai avrebbe difficoltà a nascondere alcune verità sgradite al comando americano: innanzitutto l’effetto mortale e dirompente del ricorso costante ai bombardamenti. Come lamenta ormai da quattro anni e a voce sempre più alta Hamid Karzai, le stragi di inermi che spesso l’aviazione produce inorridiscono l’opinione pubblicati spostano consenso verso i Taliban. Gli americani hanno reagito con insofferenze alle critiche del presidente afgano e le hanno liquidate come demagogiche. Ma adesso le fa proprie anche l’inviato delle Nazioni Unite, Kai Eide, con una franchezza inconsueta («Occorre dare ascolto alle preoccupazioni degli afgani e a quel che dice Karzai»). Tra gli europei, segnalò con forza il problema Arturo Parisi, quando era primo ministro della Difesa. Spagnoli, britannici, tedeschi oggi sono sulla stessa linea. Ma solo Obama può convertire il Pentagono alla saggezza.