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Arte moderna e pensiero antimoderno

di Luciano Fuschini - 10/12/2008

    

Il Corriere della Sera del 3 dicembre scorso informa sull’esistenza di fermenti antimodernisti in arte, non ancora organizzati in una vera e propria corrente ma rivelatori di un comune sentire che comincia  a diffondersi negli ambienti intellettuali. L’obiettivo polemico sono le avanguardie artistiche.
La notizia merita qualche considerazione. Le arti e la poesia in epoche di fioritura delle civiltà furono popolari nel senso pieno del termine. Le statue degli scultori ateniesi, le tragedie e le commedie dei grandi autori teatrali, la poesia di Omero, erano fruìte dal popolo, erano parte integrante della vita quotidiana. L’anelito al cielo delle grandiose cattedrali romaniche e gotiche, con le loro ardite soluzioni architettoniche e le stupende vetrate policrome, i romanzi cavallereschi e la poesia di Dante, erano patrimonio comune dell’uomo medievale. La grande pittura del Rinascimento era il prodotto di un sapere e di un’abilità diffusi nelle botteghe d’arte, la poesia di Ariosto ispirava il teatrino dei pupi, i versi di Shakespeare o di Goethe venivano citati anche dai popolani. Le forme artistiche non scaturivano dal genio di individui isolati in un’astratta libertà: se escludessimo le opere realizzate su commissione, taglieremmo via quasi tutta la storia dell’arte. Scaturivano dalle linfe vitali delle nazioni.
La progressiva decadenza che oggi chiamiamo modernità ha reso sterili anche arte e poesia, ridotte a sperimentazioni cerebrali e ad ermetismi comprensibili solo da pochi iniziati. Le avanguardie della prima metà del Novecento hanno avuto una loro funzione e una loro giustificazione. Nella seconda metà del Novecento la decadenza di tutto ciò che fu civiltà ha tolto credibilità anche alle avanguardie e alle loro pretese di dissacrare l’arte dei musei e delle accademie. Restano solo l’impostura di chi spaccia per originalità artistica la pura bizzarria, la provocazione dello scandalo per far parlare di sé, la sudditanza al mercato.
Un tempo era tenuta in grande pregio, non solo nell’arte ma nel lavoro quotidiano, l’abilità manuale, l’acquisizione di una tecnica che richiedeva un lungo apprendistato e che diventava un possesso saldo, un tesoro prezioso con cui l’artigiano si realizzava potendo andare fiero del proprio lavoro. Oggi perfino nelle arti la sapienza tecnica si è impoverita. Gli studenti livornesi che in pochi minuti, con un trapano, hanno riprodotto con assoluta fedeltà lo stile del Modigliani scultore, ingannando gli esperti d’arte, restano nella loro goliardia i più efficaci smascheratori dell’inconsistenza di tanta arte contemporanea.
Anche le arti, la poesia, la musica, sono diventate una carnevalata da vendere sul mercato dell’usa e getta. Sono ridotte a riflessioni moralistiche, ma senza una forte dose di moralismo vero, quello che nasce dall’indignazione per la perdita di tutto ciò che ha valore autentico.
Nell'articolo vengono citati fra gli antimoderni Robert Hughes, Mario Vargas Llosa e Paul Virilio. Solo l’ultimo sembra avere le carte in regola per polemizzare con la modernità, essendo un critico della società tecnologica. Hughes è il tipico intellettuale "di sinistra”, Vargas Llosa è un romanziere liberal-conservatore fieramente nemico di ogni sinistrismo. Questo ci dice che chi è mosso da una moralità autentica può pervenire a conclusioni simili nonostante la diversità dei punti di partenza. Si può maturare un ideale antimoderno non per adesione a una corrente di pensiero ma perché si sente sulla pelle e nelle viscere il disgusto per questa vita degradata; si può pervenire in linea diretta all’antimodernità attraverso la lettura di De Maistre, Carlyle, Nietzsche, Spengler, Evola, Junger, Pound, De Benoist; si può farlo seguendo le suggestioni junghiane ma anche quelle freudiane; si può essersi fatti guidare da Cioran, da Solgenitsin, da Ceronetti; vi si può pervenire attraverso Latouche e gli ecologisti; e ci si può riscattare dal progressismo anche essendosi formati culturalmente sulle pagine di Gramsci, Adorno, Marcuse, Pasolini. E’ ancora recente un libro di Bruno Arpaia dal titolo sorprendente nella sua eloquenza: “Per una sinistra reazionaria”. L’unico torto di quel libro è di aver svolto tesi simili a quelle di Massimo Fini senza citarlo mai. Chi avrebbe pensato qualche anno fa che il sostantivo Sinistra potesse essere accostato all’aggettivo Reazionaria? Qualcosa si muove sotto il cielo. Non è importante la riva da cui ci si stacca, ma l’approdo comune.