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Iraq: dalla tragedia alla farsa

di Vittorio Zucconi - 15/12/2008

 

L’Iraq che avrebbe dovuto salutarlo come un liberatore, saluta Bush a scarpe in faccia. Doveva essere il suo viaggio d’addio, il trionfo del sovrano accolto dai sudditi ed è finita con un gesto che resterà per sempre come il suggello simbolico a un disastro.   Era tornato alla chetichella sul luogo del delitto dove sono morta la sua presidenza e ora anche la sua dignità, George Bush, e già questa paura ci aveva detto, senza volerlo, la verità sull’Iraq quasi sei anni dopo l’invasione del marzo 2003 e nel pieno della nuova propaganda trionfalistica creata attorno al culto del generale Petreaus. La segretezza del suo viaggio gli ha risparmiato attentati, ma ha detto quanto immaginaria sia la "vittoria", con un gesto di disprezzo che a memoria di presidente, nessun capo di stato americano aveva mai dovuto incassare. E che verrà visto e rivisto all’infinito, soprattutto in quel mondo arabo che Bush i suoi apostoli neo-con avrebbe dovuto convertire ai valori Occidentali.  Nessuna delle promesse e della profezie è stata mantenuta o realizzata. Mentre il rapporto interno degli esperti governativi di Washington, fitrato al New York Times, confermava quello che tutti sanno da tempo, che la ricostruzione dell’Iraq è stata una tragedia grottesca di incompetenza, ignoranza e corruzione Bush era dovuto da Washington come un clandestino, travestito e camuffato, nel segreto più assoluto, dopo avere diffuso ai media una falsa agenda di impegni. Prova evidente che lo sbandierato progresso nella sicurezza e nel ritorno alla normalità non permette neppure al "liberatore" americano di attraversare la capitale Bagdad senza rischiare la pelle e senza essere oggetto di disprezzo e di scherno.  In un paese occupato, dal quale gli occupanti non possono ritirarsi per non scoperchiare la pentola a pressione e l’etica del cosiddetto governo democratico di Al-Maliki - scrive il rapporto -«è quella dei mafiosi in stile Sopranos», non è ancora possibile sopravvivere se ci si avventura oltre le muraglie che ora separano i quartieri etnici. Il presidente della nazione che s’illudeva di essere accolta a colpi di fiori e caramelle come salvatrice, e di cavarsela con qualche milione di dollari di spese, deve muoversi in territorio ostile e sequestrare i telefonini ai pochi giornalisti portati al seguito, perché di nessuno è possibile fidarsi. Giustamente, come hanno mostrato gli oltre 50 morti nell’ultimo attacco a una riunione di capitribù e di boss locali, a Kirkuk, la settimana scorsa.  Ma se le bugie della propaganda sono smentite proprio dal comportamento di colui che dovrebbe incarnare il successo e ora può constatare i risultati della propria «missione compiuta», lui è almeno un residuo del passato e sono le verità scritte nella relazione ufficiale di 500 pagine quelle che fanno rabbrividire perii futuro. Uscire dal roveto di corruzione e di errori cresciuto in Iraq sui miliardi buttati per comperare l’apparenza del successo, districarsi da quella tregua armata che soltanto la pioggia di dollari sta mantenendo, sarà la spaventosa eredità che la squadra di Barack Obama riceverà il 20 gennaio prossimo.  Mentre si progetta di estendere la guerra, e gli aiuti finanziari, a quell’Afghanistan dove i rapporti dei militari come del dipartimento di Stato avvertono che il ritorno dei Taleban è direttamente proporzionale al montare dilagante della corruzione.  

Di questa mela tossica che lascia al successore, a Bush importa a questo punto assai poco. L’obbiettivo che lui si proponeva dal 2006, da quando apparve chiaro che gli obbiettivi immaginari della guerra, la democrazia, la pace interna, la prosperità, il circolo virtuoso di democratizzazione del mondo arabo e l’autofinanziamento della ricostruzione irachena attraverso il petrolio esportato, non sarebbe stati raggiungibili prima del 2009 - se mai - è stato effettivamente ottenuto. Non era la «vittoria», ma il passaggio del frutto avvelenato a chiunque avesse preso il suo posto, per poter dire che lui non aveva «perduto la guerra», ma che sarebbe toccato ad altri subire le conseguenze dei suoi errori, secondo lo schema di una vita nella quale sono sempre stati altri, amici di famiglia, a dover raccogliere i cocci delle sue imprese economiche o politiche. A lui, sempre fortunato, soltanto un paio di scarpe in faccia scansate A Obama, la tragedia. Missione, in questo caso, compiuta.