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Una pagina al giorno: Prepararsi alla partenza, di Adriana Zarri

di Francesco Lamendola - 16/12/2008


 

Questo articolo è dedicato a una gentile lettrice la quale, avendomi scritto per ringraziarmi di alcuni miei lavori, specialmente dedicati al tema della morte, e avendo saputo che dovevo sottopormi a una operazione, mi disse: «Io pregherò per lei».

Dalla conclusione del romanzo di Adriana Zarri «Dodici lune», storia di uno scrittore che, isolatosi in un piccolo borgo di montagna, medita sull'amore, la felicità, la morte, preparandosi al grande passo in una atmosfera rarefatta e vibrante di serena accettazione del proprio destino (Milano, Camunia, 1989, e Rizzoli, 1990, pp. 274-78):

«14 ottobre
Dolci preparativi di partenza: senza rimpianti, senza impazienze. Cerco di fare anche meglio la valigia, con ogni oggetto al posto suo, come sapevi fare tu; e che è qualcosa che supera l'abilità nel collocare: è un segno di armonia. Ogni oggetto - e persona - al posto suo: la Letizia quassù, io a Roma, tu - ahimè - al camposanto. Ma anche quello, sotto alla terra, è il posto giusto per i morti; e cerco di ridire una parola che voleva cancellare, ma che la vita non cancella; ma cerco di ridirla nella vita: i morti, i dormienti in attesa del gran giorno in cui tutto, in eterno, rivivrà.»
 16 ottobre
Non concludo perché tutto rimane da chiarire, anche ciò che è (o almeno mi sembra) ormai chiaro. Ma potrei anche rovesciare il discorso: tutto è ormai chiaro, anche ciò che rimane da chiarire.

17 ottobre
I preparativi di partenza li faccio lentamente, centellinando l'andare e il restare, come distillando la vita. La fretta è proprio la vita che ci ruba, nei suoi umori più profondi. Non proiettarsi avanti né arretrare: non velleità né nostalgie, ma vivere intensamente quell'attimo che solo ci appartiene, E ogni cosa è la conclusione di se stessa e insieme la conclusione della vita. Non concludo perché è tutto ancora oscuro e tutto già chiaro. Non concludo per ché tutto è concluso. E sento il peso dell'intera esistenza sulle mani, in ogni gesto che compio. Anch'io raccolgo la mia carta caduta in un angolo di strada che è la strada del nostro camminare sulla terra.
C'è la frase di un "santo" che non amo particolarmente  ma che esprime tutto questo. Quando don Bosco, vecchio  e cadente, si trascinava tra i ragazzi dei suoi oratori, qualcuno, a volte, gli chiedeva: Dove va don Bosco?" e lui rispondeva: "In Paradiso". Una risposta  che può essere fastidiosamente untuosa o splendidamente candida  e profonda. In effetti noi camminiamo nella vita eterna e verso la vita eterna; ed ogni strada porta là.  Guai, però, se le togliessimo il suo peso terrestre, la sua temporale autonomia. È proprio camminando sulle strade del mondo, impegnati nel mondo, che camminiamo nel regno, tutti già immersi nella vita futura già presente.

20 ottobre.
Il tuo scialle lo lascio qui, a riscaldare la casa. Non so se potrò ritrovarlo: so che non potrò perderlo, come nulla si perde di ciò che intensamente si vive.

22 ottobre.
Non vedo più la luna. È in fase calante, sta camminando verso la sua fine,  sta camminando verso la sua resurrezione. Ma ovunque sia - visibile o no, palese o nascosta dalle nubi - le mie dodici lune sono vicine, presto le terrò tutte in mano. Sono le dodici tribù d'Israele, le dodici regioni del cielo, le dodici stelle che coronano il capo della donna, là, nell'Apocalisse. Ed è più che Maria: è la vita che partorisce la vita.

23 ottobre.
Mi concedo l'ultima passeggiata nei boschi. Non sono andato molto in giro, in quest'anno in cui ne avrei avuto la possibilità; ma il mio vagare, sostare, correre, è stato soprattutto interiore, consumato all'interno di una casa che si andava tuttavia dilatando fino a farsi, essa stessa, bosco, strada, mondo.
È già assai freddo quassù; e gli alberi emergono, spogli, dalla nebbia. Nel grigio piccole macchie di colore: le bacche rosse e i ciclamini viola.
I sentieri s'inerpicano e scoscendono, sotto un tappeto di foglie morte che si fa vivo nutrimento di fertile terriccio macerato. E ne esca quella terra di castagno che tu, Lia, raccoglievi per i tuoi vasi di gerani..

24 ottobre.
Non so l'ora esatta; ma il cielo ha rinnovato il grande simbolo di quel piccolo evento naturale che ogni mese ritorna. Il cielo p vuoto: ma è un vuoto colmo d pienezza, come un grembo pregnante che nasconde ciò che domani si vedrà. Ciò che un tempo chiamavo "luna nera", ora la chiamo "luna nuova", ed è la medesima luna. Nello stesso momento morte e vita s'incontrano.
Così andiamo verso l'inverno ma andiamo pure verso la primavera. Ho visto gemme piccolissime, sotto l'ascella delle foglie morte.  Davvero forse la morte non esiste: esiste solo un sonno dal quale saremo risvegliati. Già lo disse Gesù, della figlia di Giairo: "non è morta: dorme"; e attorno tutti lo deridevano.  Il sonno custodisce il risveglio, chiuso nel suo torpore, come gemma dormiente. La botanica conosce questo termine: : e si dice del piccolo bocciolo di foglie la cui vita sembra ancora non vivere, eppure è là, pronta a svegliarsi. Come l'inverno,. Non ha ancora raggiunto il suo fondo che già risale, con le giornate che si allungano, verso la luce.

25 ottobre.
Chiudo la casa. Mimmo lo lascio alla letizia. Lo bacio sopra al nasino rosa, , ne ascolto le fusa morbide, gli dico piano, tra le orecchie, che lo aspetto anche lui, l'ultimo giorno, quando rivivrà tutto, tutto, tutto.
E tu, Signore, tienimela in serbo, insieme alle primule dei fossi  e ai ciclamini di color tramonto che ora fioriscono nei fossi. Tutto, Signore, custodisci, nel palmo della tua mano; perché la vita - tutta la vita ch'io conosco, e anche la vita che non ho vissuta - è appena una goccia di rugiada, sopra il tuo palmo aperto. Però io ci ho nuotato dentro, a quella goccia; per me è stata grande come te perché, al di fuori, non ti avrei conosciuto né ti potrei conoscere. Questa vita che è tua, perché viene da te, questa vita che è mia, perché , perché tu me l'hai data, è la goccia, il lago, il mare nel quale ho navigato, per tanti anni e dal quale non posso essere tolto perché boccheggerei, come fa un pesce, fuori della sua acqua.  Questa vita che è tua, questa vita che è mia, conservamela intatta, come la soglia di questa casa che chiudo e sulla quale tanti altri passi passeranno…

25 ottobre, in treno.
È strano che mi accada così, con questa lucidità tranquilla. O forse non è strano, quasi previsto.
E cerco la maniera più discreta… senza dare nell'occhio, senza disturbare…
… lascio la valigia. A chi? A tutti, a nessuno, alla vita…b A fatica passo in uno scompartimento vuoto. Con me soltanto la tua agenda, la penna… solo me stesso. Me stesso e tutto.
Accasciato sopra al sedile, senza dolore.
… e il tuo sguardo, Signore, il tuo sguardo!
… quieto, attesa dolce… poi galleria lunga, buia, buia, senza uscita… non termina più…
… no, finire così, sotto alla terra, come un topo… ancora buio, sempre più buio… Sì, anche il topo. Con pazienza; anche il topo… il fango, la notte… dolore fondo nel petto, la lancia di Gesù in croce. Signore, sì!
Poi di nuovo la luce… alberi, nuvole, prati… Cado in braccio alla vita, Dio, alla vit! L'alba, con Maria Maddalena…
   … e le lune, le lune: tutte!…

Epilogo

Verbale d'incidente per ferimento o morte viaggiatori
(F. D. n. bis del 24.9.1987)
L'impiegato Russo Giuseppe, residente a Genova, in via del Porto 16, fornisce le seguenti notizie circa l'incidente appresso descritto:
1) Identità del viaggiatore:
De Risi Benedetto, nato il 530.5.1929, di professione scrittore, domiciliato a Roma in via del Popolo, 9, di nazionalità italiana senza persone a carico, munito del regolare biglietto, nel treno n. 505, carrozza n.7.  L'incidente è avvenuto il 25 ottobre 1984, nel tratto di linea La Spezia-Pisa, mentre il viaggiatore si trovava in uno scompartimento vuoto.
2) Descrizione sommaria del fatto:
Trovandomi di servizio nel suddetto treno ed entrato in uno scompartimento per il controllo biglietti, vedevo il corpo senza vita di un uomo che giaceva riverso sul sedile. Dai documenti trovati addosso all'infortunato risultava la sopraindicata identità. In uno scompartimento accanto, una valigia abbandonata risultava - dall'apposito cartellino indicatore - di appartenenza al morto. Consegnata ed aperta dalle competenti autorità, risultava contenere soltanto qualche libro ed effetti personali.
3) Descrizione del danno:
Nessun danno agli oggetti che l'infortunato teneva con sé o su di sé.  Abbandonati sul sedile una penna e un'agenda, esse pure consegnate alla competete autorità. Sull'ultima pagina scritta  erano leggibili alcune parole senza senso apparente che terminavano con: "… le lune, tutte".
 L'agente della ferrovia
Russo Giuseppe
Pisa, 25 ottobre 1984.»

A parte l'epilogo, che ricalca un topos letterario piuttosto antiquato, per non dire ottocentesco  (adoperato, fra l'altro, da Italo Svevo in «Una vita», il suo primo romanzo: anno 1892), ci è parso che le ultime pagine del romanzo di Adriana Zarri «Dodici lune» costituiscano una lettura di notevole spessore letterario e teologico.
Il protagonista della vicenda, lo scrittore Benedetto De Risi, ha perduto l'amata moglie Lia, con la quale non smette di colloquiare, e la sua vita si è ristretta all'ambito della governante francescana, del gatto Mimmo, delle diverse fasi lunari che attraggono la sua stupefatta attenzione e della vivificante presenza del Signore, con il quale dialoga continuamente, con la semplicità e la franchezza di un uomo che ha fatto un bilancio della propria vita terrena e che ha trovato la forza di prepararsi a quell'ultimo viaggio, verso il quale siamo tutti destinati, ma a cui pensiamo così poco, quando ne avremmo il tempo.
Un romanzo teologico, scritto da una teologa e denso di significati religiosi, arricchito da dodici parabole. «Io non credo, Signore, nell'inferno… Come tu non accetti noi sconfitti, io non accetto te disonorato». Così, giorno dopo giorno, Benedetto interroga il suo Dio, lo ascolta, gli risponde, in un colloquio continuo e affettuoso, carico della umana fragilità e paura della morte, ma anche illuminato da una radiosa luce ultraterrena, che dà all'uomo il coraggio di guardare in faccia la propria fine imminente.
Il duplice piano su cui si svolge la riflessione del protagonista, quello del finito e quello dell'infinito, è bene evidenziato nelle dense, commoventi pagine finali, in cui è descritto lo stato d'animo di serena accettazione con cui egli si accinge all'ultima partenza, sostenuto dalla ferma certezza che nulla di ciò che abbiamo vissuto intensamente andrà perduto, ma che ritroveremo ogni cosa, rinnovata e trasfigurata.
Sono pagine, anche, animate da un intenso afflato filosofico, se è vero - come disse Platone - che tutta la vita altro non è che una preparazione al momento decisivo di essa: la morte, ossia la rivelazione del mistero dell'Assoluto.
Numerose le immagini poetiche e di rara efficacia, come quella contenuta nel seguente passaggio: «Tutto, Signore, custodisci, nel palmo della tua mano; perché la vita - tutta la vita ch'io conosco, e anche la vita che non ho vissuta - è appena una goccia di rugiada, sopra il tuo palmo aperto. Però io ci ho nuotato dentro, a quella goccia; per me è stata grande come te perché, al di fuori, non ti avrei conosciuto né ti potrei conoscere. Questa vita che è tua, perché viene da te, questa vita che è mia, perché , perché tu me l'hai data, è la goccia, il lago, il mare nel quale ho navigato, per tanti anni e dal quale non posso essere tolto perché boccheggerei, come fa un pesce, fuori della sua acqua».

Non è questa la sede per discutere il «personaggio» dell'Autrice, nota teologa di tendenza conciliare e redattrice di una pagina fissa sul quotidiano «Il Manifesto», oggi quasi novantenne (è nata a San Lazzaro di Savena, in provincia di Bologna, nel 1919) e autrice di testi di teologia e spiritualità come «Impazienza di Adamo», «È più facile che un cammello…», «Erba della mia erba» e «Il pozzo di Giacobbe».
Alcuni l'accusano di cattocomunismo; altri hanno qualcosa da ridire sul suo modo di presentarsi, che appare talvolta un po' dogmatico, un po' compiaciuto, un po' immodesto (compresa la scelta, forse un po' troppo sbandierata, di ritirarsi in campagna a vita eremitica). Alcuni trovano che le sue prese di posizione siano talvolta troppo dure, per una teologa cristiana; e ricordano la frase di San Paolo, che l'amore di carità, per un cristiano, è tutto; e, se manca quello, quand'anche possedessimo ogni altra qualità di mente e di cultura, ci mancherebbe tuttavia l'essenziale.
A ciò si potrebbe anche aggiungere una osservazione di carattere generale: che, cioè, i teologi, a partire appunto dal Concilio Vaticano II, hanno acquistato un po' troppo prestigio e autorità all'interno del cristianesimo, al punto da sembrare i depositari della Verità più di chiunque altro; mentre è evidente che, in certi casi, sono persone fallibili e intellettualmente presuntuose, accecate da una sorta di ebbrezza della ragione.
Ma tutto questo, qui, interessa poco o punto.
Crediamo che il romanzo «Dodici lune», pur senza essere un capolavoro, sia un libro meritevole di essere letto; un libro che spalanca orizzonti e che profuma d'infinito; un libro, infine,  che coniuga felicemente - come accade di rado, purtroppo, nella letteratura italiana - la dimensione narrativa e l'esigenza teologico-filosofica.
Il tutto con una grazia e una leggerezza di tocco che riescono a rendere rasserenante anche il pensiero inquietante per eccellenza: quello della nostra morte.