Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / I riflessi strategici della “fuga dei cervelli”

I riflessi strategici della “fuga dei cervelli”

di Michele Orsini - 16/12/2008

Fonte: oppostadirezione

 

                                                                                             

                                                                                   

Alla fine di settembre la Fondazione Migrantes, organismo della Conferenza episcopale italiana (Cei), ha presentato il suo terzo rapporto per il 2008, che rivela come l’emigrazione italiana non è qualcosa che appartiene al passato, i nostri connazionali attualmente residenti all’estero sono infatti quasi quattro milioni e più della metà ha un età inferiore a 35 anni.

Il documento ha dedicato un interesse particolare al fenomeno della “emigrazione d’élite”, spesso definita più prosaicamente come “fuga dei cervelli”, ovvero il trasferimento all’estero di migliaia di nostri laureati che riescono a trovare solo all’estero un lavoro qualificato e adeguatamente retribuito.

La maggioranza di questi giovani partono con l’idea di rimpatriare nell’arco di qualche anno, ma spesso finiscono per  cambiare idea e decidere di stabilirsi definitivamente all’estero. 

Il rapporto in questione ha citato un’indagine del consorzio universitario Almalaurea del 2007, secondo il quale il paese che attrae il maggior numero di laureati italiani è il Regno Unito (19,2%), seguito da Francia (12,6%), Spagna (11,4%) e Stati Uniti (9,8%).

E’ risaputo che l’Università italiana, pur essendo “la peggiore dell’occidente” secondo il deputato An-Pdl Italo Bocchino, dispone di un numero ristretto di sedi dove si raggiungono vere e proprie punte d’eccellenza, dietro alle quali però sembra esserci il nulla: il nostro dovrebbe spiegarci secondo quale ragionamento tagliare risorse potrebbe migliorare la situazione. Sempre che una riforma migliorativa del sistema universitario costituisca veramente un obiettivo dell’esecutivo, cosa tutta da dimostrare.

I politici di ogni colore ripetono come un mantra che “in Italia abbiamo troppo pochi laureati”, ma non si comprende per quale motivo ne servirebbero di più, quando molti si ritrovano disoccupati o, più spesso, sottooccupati. Non è piacevole, portato a termine un corso di studi, dover pensare di aver sbagliato tutto, di aver gettato via molto tempo e parecchio denaro. E’ deprimente.

Se è un fatto che l‘Università italiana forma giovani aspiranti ricercatori che la stessa Università, gli Enti pubblici di ricerca e, soprattutto, le aziende non riescono ad assorbire, allora i laureati non sono troppo pochi ma, al contrario, sono troppi.

Certo la competitività internazionale di un paese nei settori strategici dipende anche dai talenti scientifici che ha a disposizione. Ma in Italia non si pensa e non si agisce strategicamente: senza vera sovranità, con un centinaio di basi statunitensi sparse sul territorio nazionale, è impossibile. Dopotutto siamo servi, non alleati, di una potenza straniera, quindi la strategia ce la facciamo imporre dall’esterno. Agli Stati Uniti il nostro sistema d’istruzione va benissimo, perché parte dei nostri laureati più brillanti vanno là: sono il paese che più di ogni altro è abituato ad andare a caccia di talenti stranieri, così da “importare” individui capaci di arricchirne il patrimonio intellettuale e la competitività scientifica, impoverendo al tempo stesso quella dei paesi da cui provengono, inclusa l’Italia. La capacità di attrarre i giovani brillanti degli Usa non è più così forte come qualche anno fa, ma rimane notevole. Il risultato è che gli Usa sono all’avanguardia nella ricerca e nell’innovazione grazie al contributo decisivo di scienziati del Vecchio Continente: l’Europa è la più grande “fabbrica di cervelli” del mondo, soprattutto per quanto concerne le materie scientifiche e tecnologiche che rivestono la maggior importanza strategica. Ciò non sarebbe poi tanto grave, potrebbe anzi creare un circuito virtuoso, uno scambio di informazioni e di conoscenze tra America ed Europa, vantaggioso per entrambe, se non fosse che le migliori eccellenze prendono la via per gli Usa, e quasi mai tornano a casa, gli italiani soprattutto.

Quando in Italia si discute d’immigrazione si usa da una parte, in modo retorico e buonista, la parola “accoglienza”, dall’altra si afferma, cinicamente, che si devono fare entrare gli stranieri perché sono utili alle nostre aziende, che senza il lavoro degli immigrati non potrebbero andare avanti.

Evidentemente a noi interessa non tanto di far arrivare persone preparate, quanto piuttosto disperati disposti a lavorare, regolarizzati o meno poco cambia, in condizioni disumane e per salari da fame: i margini di guadagno provenienti dallo sfruttamento dei lavoratori (peccato e trucco del capitalismo) sono più sicuri di quelli che provengono dall’innovazione, che è sempre una scommessa. E’ allo Stato che dovrebbero spettare tanto la lotta allo sfruttamento che gli investimenti sull’innovazione. Ma cosa aspettarsi da uno Stato privo di sovranità?

 

 

Pubblicato su Opposta Direzione, numero 7-II, dicembre 2008