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Conferenza di Poznan: la solita, inutile perdita di tempo

di Manuel Zanarini - 19/12/2008

Venerdì scorso si è conclusa a Poznan, in Polonia, la 14ma Conferenza della Parti (COP-14) che hanno sottoscritto la “Convenzione quadro della Nazioni Unite sui cambiamenti del clima” (Unfccc). Circa 8.000 delegati in rappresentanza di quasi 200 paesi, si sono riuniti per 12 giorni, per lavorare sul programma che dovrebbe guidare la politica ambientale globale fino alla conferenza di Copenaghen del 2009, da dove dovrà uscire il documento che sostituirà quello di Kyoto, in scadenza nel 2012, e che finora è rimasto lettera morta. Infatti, nonostante i moniti, e le teoriche sanzioni, previsti dagli accordi di Kyoto, le emissioni inquinanti, e in grado di alterare il clima terrestre, provenienti dall’uomo, nel periodo 2000-2007, sono aumentate notevolmente: l’incremento medio annuo è stato del 3,5%, quattro volte superiore a quello degli anni ’90 del secolo scorso, immettendo nell’atmosfera il 38% di gas serra rispetto al 1990!

Le premesse sembravano buone, col Segreteraio Generale delle Nazioni Unite, Ban Ki-Moon, che invitava i paesi più ricchi a non perdere ulteriore tempo; il Commissario all’ambiente della UE, Stavros Dimas, che facendo un paragone tra le due gravi crisi del presente, economico e ambientale, invitava a non commettere gli stessi errori che stanno causando il collasso del sistema finanziario globale; fino alla Cina, che per bocca del suo Vice-capo delegazione, Su Wei, si diceva pronta a fare la sua parte. Come al solito, quando dai buoni propositi si passa alla pratica, le cose non sono le stesse.
Bisogna dire che l’appuntamento di Poznan era più che altro un momento di passaggio, in attesa di Copenaghen 2009, destinato a disegnare una “road-map” programmatica, più che a prevedere provvedimenti concreti. Ma il fatto è che si continua a perdere tempo con problemi tecnici, mentre il tempo scorre e la situazione peggiora, resta inquietante.
Anche le realtà che erano maggiormente aperte alle soluzioni ecologiche, come l’Unione Europea e l’Australia, stanno facendo significati passi indietro. All’interno dell’Europa, solo la Germania ha ridotto le proprie emissioni già del 18% dai livelli del 1990 investendo molto sulle nuove tecnologie e fonti pulite; mentre, per esempio, l’Italia le ha aumentate del 9,8% rispetto al 1990, oltre a non voler firmare l’accordo europeo per “le tre 20”, che invece sembrava volere sostenere. Dall’altra parte del mondo, delude non poco il nuovo governo di centro-sinistra australiano; infatti, nonostante i proclami elettorali, tentenna sull´adozione di obiettivi a medio termine che prevedono riduzioni tra il 25 e il 40% delle emissioni entro il 2020 in rapporto a quelle del 1990.
Restano ferme su posizioni “inquinanti” gli Stati Uniti, che pur annunciando di non voler intralciare il lavoro del nuovo governo, ribadisce che ci vuole un’attenta analisi dei termini “paesi in via di sviluppo” e “paesi industrializzati” prima di proseguire sulle trattative.

Proprio su questa problematica, di fatto, si blocca anche la Cina. Pechino ha infatti rilanciato l’idea della “visione condivisa”, incentrata sulla Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (United Nations Framework Convention on Climate Change - Unfccc), sull Protocollo di Kyoto, sulla Road Map di Bali e sugli accordi concreti nei settori dell´attenuazione, sull´adattamento, il trasferimento di tecnologie e la fornitura di risorse finanziarie ai paesi poveri. Ma la realtà è che gioca astutamente sui soggetti che dovranno farsi carico di tutti questi bei propositi. Come quasi tutti i “paesi in via di sviluppo”, la Cina pretende che a farsene carico siano soprattutto i paesi di “antica industrializzazione”, USA e Gran Bretagna in primis, in quanto inquinatori da maggior tempo. Ma, e non credo si possa dargli torto, Washington risponde che se anche Pechino, ad oggi il maggior inquinatore al mondo, non assume le stesse restrizioni sull’uso delle risorse fossili, il tutto si tramuterebbe unicamente in un vantaggio economico per le aziende cinesi, le quali non sono sottoposte ad alcun controllo sull’inquinamento.

La cosa migliore di queste giornate di meeting, l’ha detta Kemal Derviş, amministratore del Development programme dell´Onu (Undp), quando ha dichiarato che bisogna “affrontare le tre grandi crisi del pianeta: turbolenze finanziarie, povertà mondiale e cambiamenti climatici, come unico problema, e non separatamente”. Perché qua sta il punto della questione; è del tutto inutile continuare a tenere meeting, a Bali come a Poznan, se non si ammette una verità ormai sotto gli occhi di tutti: il sistema economico globale, basato sul consumismo e sull’utopia della crescita infinita, è la vera causa del disastro ambientale a cui stiamo andando incontro.
Ha ragione, in parte, Pechino nel sostenere che i “paesi industrialmente più antichi” hanno maggiori responsabilità, ma non per questo la via del “capitalismo di Stato” imboccata dalla Cina è meno colpevole. Finché non si ripenserà un mondo che abbia nei limiti fisici del pianeta un ostacolo invalicabile e che consideri l’uomo come olisticamente facente parte della Natura, e non come signore incontrastato del pianeta, i problemi ambientali non saranno mai risolti.

Viene da chiedersi se la strada che si sta imboccando sia questa . Penso che un esempio possa bastare a rispondere al quesito. Sapete chi gestisce il programma per la salvaguardia delle foreste? Facile, la Banca Mondiale, uno dei maggiori centri di diffusione della globalizzazione. Il risultato è che dal 1999 ad oggi, la maggior parte del portfolio di crediti di carbonio (tra il 75 e l'85%) gestito dalla Banca Mondiale ha finanziato industrie nel settore chimico, del ferro, dell'acciaio e del carbone, mentre meno del 10% dei fondi a disposizione è stato investito in progetti di energie rinnovabili. Con queste promesse, anche per Copenaghen non vedo all’orizzonte buone notizie.