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Eravamo nervosi

di Massimo Gramellini - 21/12/2008


Nel traffico di ieri mattina ho visto due donne giovani ed eleganti scendere
dai rispettivi carri armati per insultarsi sanguinosamente riguardo a non so
quale diritto stradale o feudale di precedenza. Gli occhi, in particolare, erano
uno spettacolo spaventoso: dilatati in un´espressione stravolta, tipica di chi
ha abusato di sostanze psicotrope o ha perso la misura reale delle cose.
Asserragliato nella mia vettura, ho dirottato lo sguardo sulla prima pagina del
nostro giornale, dove uno dei ragazzi che nel fine settimana devastarono per
puro sfizio la stazione di Avigliana confessava: «Eravamo nervosi. E
allora?».

E allora ci si chiede da dove arrivi questo virus esistenziale che rende tutti
così suscettibili di fronte a ogni minimo attentato all´amor proprio. Le
cronache sono un rosario senza fine di delitti e baruffe, familiari e
condominiali. Laddove esiste l´obbligo della convivenza o della vicinanza,
l´essere umano esplode in reazioni sproporzionate. Ci si prende a pugni, e
talvolta a pistolettate, per un cane che abbaia, una frase sgarbata, un´auto
parcheggiata male. Ultime gocce di un bicchiere riempito ogni giorno, oltre
che da troppo alcol, da un distillare di dispetti e rancori.

Futili motivi, si dice in questi casi. Ma è futile anche continuare ad attribuirne
la colpa ai soliti sospetti: la noia, lo stress, l´aggressività, il consumo
eccessivo di carne, l´inquinamento acustico e atmosferico. Tranne l´ultimo,
questi demoni sono sempre esistiti. E non basta dire che un tempo venivano
convogliati nella macelleria collettiva della guerra. Come non basta
scaricarne il peso sul solito capro espiatorio: la società. Qui sono nervosi i
ricchi e i poveri, anzi, i ricchi più dei poveri. Sono nervosi gli abitanti delle
periferie anonime e quelli dei luoghi turistici. Sono nervosi gli assunti e i
licenziati, i single e gli sposati, i creativi e i burocrati, i colti e gli ignoranti. La
spiegazione sociologica diventa un alibi per espellere un problema che
invece sta dentro di noi.

«Lei non sa chi sono io», è la classica frase dell´isterico in azione. Ma forse
andrebbe cambiata in: «Io non so chi sono io». Questa rabbia senza
passione, infatti, è la forma di rassicurazione di un ego sempre più debole e
infelice. Un ego spaventato dal futuro e bisognoso di attestati, a cui le piazze
sociali di Internet hanno fornito una sterminata passerella, che si pone al
centro del mondo ed esalta il potere volatile delle emozioni, sostituendole ai
sentimenti e a quella suprema affermazione di sé che consiste nel sapersi
controllare sotto pressione. Un ego che, non essendo in grado di stimarsi da
solo, ha perennemente bisogno di conferme, e non riuscendo ad averle, le
cerca nella prevaricazione del prossimo. Per riuscire a sentirsi alto, deve per
forza abbassare gli altri. E poiché non si rispetta, interpreta ogni gesto
sfavorevole come una mancanza di rispetto nei suoi confronti.

La felicità, dice il saggio, consiste nel desiderare ciò che si ha. Mentre troppi
desiderano ciò che non hanno e si sentono dei falliti o delle vittime se non
riescono a raggiungerlo. Da qui il paradosso di persone che digeriscono
senza fare una piega ingiustizie e drammi autentici, come la perdita del
posto o lo sfascio di una famiglia, ma reagiscono in modo scomposto perché
un passante in bicicletta ha osato sfiorare la punta dei loro mocassini.

C´è un altro paradosso: ormai gli scoppi d´ira avvengono più nel tempo libero
che in quello lavorativo, in casa o per strada più che in ufficio. Come se solo
gli ambienti di lavoro conservassero ancora quel minimo di regole
gerarchiche che riescono a tenere a bada gli istinti primordiali. E come se
persino i maschi avessero affidato al tempo libero, e non più al lavoro, il
compito di misurare il loro valore.