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«Sei bella, ma il tuo sguardo è spento»: quando un estraneo sa vedere, anziché guardare

di Francesco Lamendola - 07/01/2009

 


Succede che un uomo una donna, magari arrivati alla mezza età, si rendano conto, più o meno d'improvviso (ma la cosa può anche avvenire gradualmente) di essere divenuti pressoché invisibili per i propri simili; che tutti, cioè, a cominciare dai propri familiari, li guardano senza più vederli; o che, forse, non li hanno mai visti realmente.
È una sensazione strana, accompagnata da frustrazione e amarezza. Possibile? Come va che proprio coloro con i quali condividiamo la nostra vita e che ci conoscono da sempre, non riescano a vederci, a leggere dentro di noi - a vedere la nostra solitudine, il nostro smarrimento, il nostro disperato bisogno di aiuto - e continuino a trattarci con quella familiarità distratta, con quella disinvoltura superficiale che pensavamo si possa riservare solamente agli estranei, dei quali nulla sappiano e, in fondo, nulla ci importa?
Possibile che i nostri cari, i nostri amici, i nostri colleghi, ci conoscano così poco da non accorgersi di quello che sta avvenendo dentro di noi, della nostra sofferenza che non riesce ad esprimersi in parole, che non osiamo mostrare apertamente ma che a loro, comunque, dovrebbe risultare evidente, se è vero che essi ci amano e che sono realmente interessati al nostro benessere? Possibile che non vedano quello che, talvolta, perfino a un estraneo, incrociato per caso, appare evidente nello spazio di un istante?
Una cara amica mi ha confidato: «Nessuno dei miei cari si è accorto di nulla: eppure mi sentivo sempre più invasa dalla tristezza e dallo scoraggiamento. È stato un perfetto sconosciuto, un giorno, al supermercato, a rivolgermi queste parole: "Sei bella, ma il tuo sguardo è spento". Ecco, lui aveva saputo vedermi; mentre le persone più intime si erano limitate a guardarmi».
Non è assurdo che un estraneo, mai visto prima, sappia cogliere in un attimo il segreto più sofferto della nostra vita; mentre gli altri, dai quali ci aspettiamo attenzione e comprensione, non vi si sono mai neppure avvicinati?
Eppure, se si riflette un momento, ci si rende conto che la cosa non solo è possibile, ma che risponde a una logica piuttosto evidente.
Le ragioni sono più di una; ma noi, qui, ci limiteremo a soffermarci sulle due che ci sembrano essere le principali: la prima che dipende dagli altri o dal nostro comportamento verso gli altri; la seconda, da ciò che decidiamo di essere per noi stessi.
La prima ragione è dovuta al fatto che, dal momento in cui escono dall'infanzia, la maggior parte delle persone smettono di provare stupore e meraviglia nei confronti del mondo e, in un certo senso, smettono di vederlo, poiché pensano di conoscerlo già; a partire da quel momento, si limitano a guardarlo, con quella attenzione distratta e, al tempo stesso, selettiva, per cui finiscono per vedere realmente solo ciò che veramente interessa loro.
Così, per fare un esempio, una persona interessata solo al guadagno, davanti al solenne scenario  della natura intatta e incontaminata - una grande foresta; una maestosa cascata; un fiume dall'ampia corrente che scorre fra due rive dall'aspetto spettacolare - non vedrà realmente gli alberi, l'acqua, il cielo, ecc., ma le tonnellate di legname che potrebbe ricavare dal disboscamento o il grande albergo che potrebbe costruire per il soggiorno di ricchi turisti.
Allo stesso modo, un famoso stilista, davanti a una donna bellissima, può darsi che non veda in lei una persona umana con il suo mistero di speranze, timori, aspirazioni, desideri; e può darsi che non veda nemmeno, per quanto ciò possa apparire paradossale, un corpo che possiede in se stesso delle doti di grazia, venustà, eleganza di movimenti: ma solo e unicamente un appendiabiti da far avanzare sulla passerella nelle prossime sfilate di moda, al fine di valorizzare al massimo le qualità dei vestiti che dovrà indossare. La persona, in quanto tale, scomparirà dietro le immagini delle cose, in funzione delle quali essa dovrebbe svolgere il proprio compito ed esaurire interamente la propria ragion d'essere.
Oltre a ciò, come dicevamo, la distrazione e l'abitudine giocano un ruolo importante: quanti di noi saprebbero descrivere abbastanza fedelmente la facciata dell'edificio dove abitano, o quello ove si recano a lavorare: dell'edificio, cioè, in cui entrano e da cui escono almeno una volta al giorno, ma in genere anche più spesso, e ciò per anni ed anni? Viceversa, può succedere che la nostra attenzione sia richiamata con forza, per qualche ragione particolare, dalla facciata di un edificio del tutto estraneo alla nostra vita d'ogni giorno, un edificio visto una sola volta; e che saremmo in grado di descrivere quest'ultimo, a memoria, assai meglio di quanto potremmo fare con la nostra stessa casa.
Con le persone accade esattamente la stessa cosa: ci abituiamo alla presenza dei nostri familiari, finiamo per darla per scontata; e quindi, un poco alla volta, smettiamo di vederli, per limitarci a guardarli in maniera superficiale. Non era certo così all'inizio; ad esempio, non era così quando eravamo fidanzati, e la vista di coloro che sarebbero divenuti nostra moglie o nostro marito ci riempiva di gioiosa eccitazione e ci sembrava un incanto che miracolosamente si rinnovava ogni volta; oppure quando guardavamo, le prime volte, i nostri figli piccoli, appena nati.
Certo, può darsi che siano molti i motivi a causa dei quali il nostro sguardo si appanna e smettiamo di vedere, per guardare solamente; e uno dei principali, senza dubbio, è costituito dalla delusione che sovente accompagna i rapporti umani di lunga durata, anche quelli che parevano iniziati entro un magico alone di poesia; delusione che tende a logorarli, impercettibilmente ma inesorabilmente. Forse erano state troppo grandi le nostre aspettative; forse è emerso un tipico tratto di quell'utilitarismo inconsapevole che fa parte della natura umana, per cui, una volta che si è raggiunta una meta, si dà per scontato che essa ci appartenga definitivamente, senza più bisogno di ulteriori sforzi o attenzioni da parte nostra.
Un altro fattore importante può essere la paura di deludere gli altri, per cui mettiamo in atto tutte le strategie possibili per sembrare quello che non siamo, onde non perdere  la loro stima, la loro simpatia, il loro amore.
Sia come sia, il fatto è quello: e l'incapacità degli altri di vederci come siamo realmente, e di leggere in noi il nostro malessere e la nostra silenziosa richiesta d'aiuto, il più delle volte (anche se non sempre) non è che il rovescio della medaglia della nostra incapacità di fare la stessa cosa con quanti si aspetterebbero altrettanto da noi.
La seconda ragione, di cui parlavamo in precedenza, non risiede negli altri o nel nostro atteggiamento verso di essi, ma nel modo di rapportarci a noi medesimi.
Se vogliamo essere leali con noi stessi, dobbiamo riconoscere che sono così impenetrabili le maschere che noi ci mettiamo sul viso, e così abilmente dissimulate, che quanti ci vivono accanto finiscono per scambiarle per la nostra vera essenza: non si rendono conto che si tratta, appunto, di protezioni, di difese che, a un certo punto, abbiamo deciso di assumere, per tutelarci da minacce reali o presunte; e che, sotto di esse, il nostro vero io soffre e geme nella solitudine.
Il fatto è che non solo noi tendiamo ad indossare tutta una serie di maschere che inducono gli altri a vederci non per quello che siamo realmente, ma per quello che essi finiscono per credere - la cosa è ben nota e suona come una verità perfino stucchevole, almeno da Pirandello in poi -; ma - e questo è un po' meno ovvio ed è stato un po' meno esplorato - c'è un'ultima maschera, la più fuorviante di tutte, che gli altri forse non conoscono, perché non la conosciamo neppure noi stessi: ed è quella che indossiamo abitualmente non davanti al prossimo, ma da soli a soli con il nostro io.
Può accadere perfino che una persona non se ne renda mai conto, almeno al livello della piena ed esplicita consapevolezza; e che viva l'intera sua vita senza avere neppure sfiorato il segreto che, più d'ogni altro, la riguarda da vicino: quello della maschera che si è messa da sé, a proprio uso e consumo, ma senza averlo voluto in maniera esplicita, come invece avviene per le maschere che si indossano ad uso e consumo degli altri.
Si potrebbe obiettare che, se si tratta di una maschera che finisce per diventare una vera e propria seconda natura, appare arduo riconoscerne l'esistenza: come nel caso del delitto perfetto, se non esistono testimoni, se non si trova il corpo del reato e se neppure l'autore del crimine sa o ricorda di averlo commesso, chi mai potrà dire che un crimine vi sia stato?
Eppure un crimine c'è stato realmente: un crimine contro se stessi, contro la verità di cui ogni anima umana è la custode e l'intima testimone. Forse è stato commesso per legittima difesa, o per quella che, in presenza di determinate circostanze, era sembrata tale.
Ma come è possibile affermarlo, se non ne restano tracce visibili?
È possibile per la ragione che, quando l'anima compie una tale azione contro se stessa (perché non vi sono dubbi che si tratta proprio di una azione diretta contro se stessa e non, come aveva creduto, volta a proteggerla da pericoli esterni), essa consuma una forma di violenza che produce, presto o tardi, sofferenza; e tale sofferenza è la spia che rivela quanto accaduto.
Per essere amica di se stessa, l'anima deve avere nei propri confronti la più rigorosa lealtà: agi altri può anche darla ad intendere, ma non potrà mai ingannare impunemente se stessa. Cercare di farlo, vuol dire non volersi bene: e quando l'anima non si vuol bene, diventa inconsapevolmente la peggiore nemica di se stessa e della propria felicità.
Ma perché mai si verifica una cosa simile?
Il motivo, in genere, è lo stesso che si verifica sovente nel rapporto con gli altri: così come si teme di deludere gli altri, e per tale timore si indossano le maschere che riteniamo più gradite ad essi, ugualmente si teme di deludere se stessi, e ci si fabbrica una maschera destinata al proprio io. Lo scopo è il medesimo: tutelare la propria immagine; questa volta, nei confronti del giudizio che potremmo dare circa noi stessi.
Quando ciò accade, e specialmente quando si unisce al senso di delusione nei confronti degli altri, l'anima comincia a lasciarsi andare: non le importa più di nulla, perché sente oscuramente di aver rinunciato all'essenziale; di essersi fatta il torto più grande, a confronto del quale tutto sembra divenire - ed è - di scarsa importanza.
Al solito, alcuni scrittori hanno saputo descrivere tali meccanismi assai meglio di quanto non abbiano mai saputo fare i filosofi di professione: nascono così personaggi quali Jeanne in «Una vita» di Guy de Maupassant, di «Gisella» nel romanzo omonimo di Carlo Cassola, e di Irene in «Irene muore» di Marise Ferro.
Quest'ultima è particolarmente adatta a esemplificare quanto andiamo dicendo. Irene è una donna che, a un certo punto della sua vita, decide di chiudersi in una sorta di resistenza passiva nei confronti del mondo intero, alzando - per così dire - tutti i ponti levatoi; e, nel far ciò, molto probabilmente consuma il peggiore tradimento nei confronti della sua vera natura, per paura degli imprevisti che una vita aperta al mistero dell'altro inevitabilmente comporta.
Ironia suprema, ella si autoconvince di essere approdata, sia pure dopo molte prove, a una sorta di olimpica saggezza (una reminiscenza della "saggezza" di Zeno Cosini ne «La coscienza di Zeno» di Italo Svevo?); mentre della vera saggezza non è che una pietosa contraffazione, l'estremo inganno ordito ai danni di se stessa.
Ecco il suo testamento  spirituale, alla fine del romanzo (da: Marise Ferro, «Irene muore», Milano, Rizzoli, 1974, pp. 171-72):

«Libertà, salute, la saggezza elementare, quella che rinnega le complicazioni, le storture, i tormenti, le malattie dell'anima, la paura del tempo e della vita. La saggezza che io non avevo avuta, ma che da ora in poi potevo avere, se il mio organismo rimaneva integro. Avevo ricacciato tutto ciò che poteva recarmi tormento, avevo rinnegato impegni morali, doveri, responsabilità- estranea ero vissuta a tutto ciò che avveniva nel mondo, ancora più estranea sarei diventata, adesso che mi ero scelta un rifugio dove mi sarebbero giunte solamente le voci che volevo accettare. La società mutava, la violenza era ancora nel mondo, alla violenza partecipavano lo sapevo, soprattutto i giovani, i quali avevano dimenticato la favola dell'infanzia per intridersi in una realtà di cui non vedevano i baleni e gli agguati.  Non mi interessava né il mutamento della società né la violenza né il divenire oscuro di gente che mi sarebbe sopravvissuta. Io ero finita, io desideravo soltanto finire tranquilla, senza fragore, senza dramma. Morire adagio, giorno per giorno, con dignità - bon-ton, avrebbe detto la nonna - poiché potevo ancora chinarmi a fiutare il profumo di una rosa, guardare mutare i colori del mare, aspettare quel palpito che dura un attimo, la sera, quando il sole cala dietro Cap Martin spandendo intorno la certezza che nella natura c'è ancora il prodigio..
Avevo abolito il passato. Il presente non aveva peso, lo avevo prestabilito in maniera quasi pedantesca per evitarmi ogni fastidio materiale. Non volevo più leggere i giornali, avevo regalato la televisione. Potevo dire che ero una penitente laica, la quale si era scelta un convento pieno di comodità e di lussi per finire, come un tempo le grandi dame del Seicento, una vita che non era stata esemplare.
Ebbi, però, un ultimo pensiero pratico: feci testamento, lasciai tutto quanto possedevo al figlio di Ugo. Ed ebbi una sola ultima volontà: "Voglio essere sepolta in piena terra e che sulla mia tomba non sia scritto neppure il mio nome".

È triste pensare che esistono persone, uomini e donne, che arrivano a questa forma di suicidio spirituale.
In genere vi arrivano gradualmente, a forza di piccole e grandi viltà verso se stesse; al punto che, quando si rendono conto di avere imboccato un vicolo cieco, non hanno più la forza di riprendersi la propria vita e preferiscono lasciarsi andare, magari teorizzando balorde filosofie del distacco, dell'atarassia e della saggezza.
Nessuno può essere del tutto certo di non imboccare, prima o poi, un tale vicolo cieco, se non è riuscito a scoprire e a coltivare, quando ancora le sue forze spirituali sono, se non integre, almeno bastanti, l'amore per la vita: che è fatto di stupore quotidiano, di apertura, di disponibilità a mettersi in gioco, per quanto i rischi dell'esistenza ci possano spaventare e per quanto possiamo temere di restare delusi, sia dagli altri che da noi stessi.