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Tutto il buono della terra

di Tutto il buono della terra - 07/01/2009

 
 
Cesare Pavese, in Feria d’agosto (1946), fa dire alla Sandiana: «… “tutto quello che nasce è fatto di terra; acqua e radici sono in terra; dentro il grano che mangi e il vino d’uva c’è tutto il buono della terra”. Io non avevo mai pensato che la terra servisse a fare il grano e a mantenerci, tanto più adesso che studiavo».

A oltre 60 anni da quell’affermazione, in un mondo iper-urbanizzato e dove l’agricoltura occupa solo pochi punti percentuali della popolazione, sono sicuramente molti di più coloro che ignorano del tutto cosa sia un suolo, a cosa serva, quanto sia basilare per la nostra esistenza.

Suolo sacro
Ancora ai tempi di Pavese, il suolo di un Paese era considerato sacro: per il suolo si facevano guerre, soprattutto perché significava cibo e materie prime. Suolo agrario, dove coltivare cereali e ortaggi, la base dell’alimentazione di un popolo. Suolo dove coltivare foraggi per nutrire il bestiame, non soltanto ad uso alimentare ma come fonte di energia meccanica – buoi, cavalli, muli – e materiali pregiati, cuoio, pellami, grasso, corna. Suolo per coltivare fibre tessili, canapa, lino. Suolo forestale per disporre di legname da costruzione e da combustione. Chi aveva terra era ricco, ma di una ricchezza fatta di complesse relazioni ecologiche e termodinamiche, fonte di moderato benessere purché nel rispetto dei vincoli ambientali: reintegro della sostanza organica, regimazione delle acque, irrigazione, lotta all’erosione. Un rapporto affinatosi in millenni di agricoltura, che ha trasmesso alle generazioni successive un substrato addirittura migliorato rispetto alle condizioni originarie: spietramenti, livellamenti, drenaggi, concimazioni.
Le campagne italiane, fortemente occupate e coltivate a partire dall’epoca romana, hanno nutrito circa 80 generazioni di nostri predecessori e sono pervenute pressoché integre fino agli albori dell’era industriale. Con l’avvento dell’energia fossile, il rapporto tra l’uomo e il suo territorio improvvisamente è cambiato: non più legato a una fonte locale di energia e materie prime, ottenibili facilmente con le importazioni da luoghi più propizi e a costi inferiori, il custode del suolo si trasforma gradatamente nel suo predatore. Nella prima metà del Novecento si tratterà solo di una modesta espansione urbana dovuta a reali necessità di natura demografica e a una razionale industrializzazione, in genere collocata in prossimità delle risorse minerarie e idroelettriche, raramente coincidenti con distretti di elevata qualità pedologica. Nel secondo dopoguerra, il disaccoppiamento tra produzione industriale e territorio raggiungerà invece il suo apice, con l’occupazione massiva di terreni pianeggianti ad alta potenzialità agraria, prossimi alle grandi vie di comunicazione e per questo funzionali alle necessità del commercio e dell’industria. Nel primo scorcio del Duemila, si assisterà infine al parossismo del processo speculativo dove l’edificazione dei suoli non risponderà più a effettive necessità indotte dagli assetti industriali o commerciali, ma verrà effettuata a priori, puntando sul cambiamento del valore fondiario e sulla creazione di domanda dell’utilizzo di spazi altresì non richiesti.
Un processo predatorio non più connesso con una progettualità definibile come “proprietà emergente” del territorio, frutto delle innumerevoli stratificazioni e interazioni con gli abitanti e le loro storie personali, bensì generato dalla mera e banale massimizzazione temporanea del profitto. Pochi attori – imprese di costruzione, proprietari dei terreni e pubblici amministratori compiacenti – hanno provveduto a cambiare destinazione del suolo da agrario a edificabile per fare soldi in fretta, incuranti di ogni conseguenza a breve o a lungo termine sull’ambiente, sul paesaggio, sulla società. Pochi giorni di ruspe e betoniere, e un suolo coltivato e curato da millenni viene improvvisamente distrutto e sostituito con un manufatto edile. E sottolineo distrutto, in quanto un orizzonte podologico utile per un’agricoltura redditizia non si forma dall’oggi al domani, ma è un processo naturale mediato dal clima che impiega millenni a evolvere.




L'immagine rappresenta i suoli liberi consumati tra il 1990 e il 2005 (in percentuale sulla superficie regionale). Fonte: elaborazione Coldiretti su dati Istat.




Suolo perduto
Rifare il suolo dopo che lo si è asportato non è possibile, almeno in tempi umani. Ci sono surrogati di “suolo artificiale” ma costano energia e materie prime, e si possono applicare solo su piccola scala. Insomma, la distruzione del suolo a opera dell’impermeabilizzazione e della costruzione di edifici è – alla scala dei tempi umani – un processo irreversibile. In questo termine sta tutta l’importanza e l’urgenza di un problema ormai tanto dirompente quanto trascurato: il consumo dissennato di suolo, e quasi sempre, del suolo migliore. Il suolo è la nostra assicurazione sul futuro: valenza estetica del paesaggio e attrattiva turistica, certo, ma soprattutto garanzia di produzione alimentare di prossimità anche in tempi di scarsità energetica, sede irrinunciabile di chiusura dei cicli biogeochimici, dalla depurazione dei reflui organici civili e agricoli, al sequestro di CO2 per limitare i cambiamenti climatici, dall’azione di filtro delle acque a fini potabili al contenimento degli eventi alluvionali, dalla produzione di materie prime vegetali alla biomassa combustibile.
Se si vuole salvare il prezioso suolo che ancora rimane, è fondamentale cambiare rapidamente la legislazione: da supporto passivo ad altre attività economiche, spesso effimere, il suolo deve diventare ente economico in se stesso, produttore di servizi insostituibili riconosciuti dall’economia di mercato. Quest’ultima ha tuttavia dimostrato in una cinquantina d’anni di non essere sufficiente a regolare il prezzo del suolo in base alla sua scarsità: si tratta di uno di quei casi di “tragedia dei beni comuni” descritta dal biologo Garrett Hardin, dove quando ci si accorge del guasto, è ormai troppo tardi per ripararlo. Quando avremo nuovamente bisogno del suolo perché le crisi energetica e climatica sposteranno radicalmente i flussi economici di materia e di energia, il prezzo del suoli superstiti forse salirà alle stelle, ma non servirà a restituire alla collettività il suolo perduto. Ecco un caso dove una saggia pubblica amministrazione ha il dovere di apportare un correttivo, ha l’obbligo morale di evitare la massimizzazione temporanea del profitto derivante dalla dilapidazione del bene comune «suolo», limitato e non rinnovabile. Il primo passo per raggiungere questo obiettivo è la conoscenza numerica dell’entità del guasto: quanti ettari vengono sigillati ogni giorno, ogni mese, ogni anno? E dove? E in quale classe di capacità d’uso?
In seguito devono essere varate urgenti e radicali azioni normative per scoraggiare il continuo consumo di suoli agrari di miglior qualità. La protezione basata sul criterio paesaggistico, che pure poteva arginare certi usi troppo liberi del territorio, si è dimostrata fallimentare: le soprintendenze, molto spesso sono state molto solerti nell’impedire l’installazione di qualche pannello solare sui tetti, ma nulla hanno potuto contro la sterminata colata cementizia di capannoni, zone industriali-artigianali, piani di insediamento produttivo, cittadelle commerciali e ipermercati e outlet, tuttora in atto. Allo stesso modo, migliaia di assessorati all’ambiente di regioni, province e comuni, ben poco contrasto hanno opposto ai loro omologhi uffici preposti all’urbanistica, all’edilizia e all’infrastrutturazione, che a quanto pare hanno sempre avuto la meglio a suon di tondini e betoniere.
Il consumo di suolo è però una strada senza ritorno, e gli errori di oggi peseranno sulle generazioni di un lunghissimo domani.


L’intera sezione Il suolo, che tratta di cementificazione e buone pratiche di tutela ambientale, è scaricabile on-line a questo indirizzo.